I
look up at the stars, hoping you’re doing the same.
You
call and ask to see me tomorrow night,
I’m
not a mind reader,
But
I’m seein’ the signs, bet you can’t see me again.
Tu chiami e mi chiedi di verdermi domain sera,
non leggo nel pensiero,
ma riesco a vedere i
segni,
scommetto che anche tu non vedi
l’ora di rivedermi.
{Miley
Cyrus, “See you again”.
L’ennesimo
giornale, l’ennesima critica. Era terribilmente stanca
di tutto; dei paparazzi che non la lasciavano in pace un momento,
dei genitori che non facevano che giudicarla come un poco di buono, di quella
situazione. Non capiva ancora come uno stupido video, una foto, o qualsiasi
altra cosa facesse, riuscisse a fare così scalpore.
Evidentemente le
persone non sapevano fare altro che giudicare la sua vita.
Scosse la testa,
quasi sconcertata, e appoggiò il giornale sul sedile del passeggero. Si sistemò meglio i Ray-Ban neri sul naso, socchiudendo gli
occhi davanti al sole che, nonostante gli occhiali, la stava accecando e,
facendo un bel respiro, uscì dall’auto.
Come di consueto
ad attenderla c’erano due o tre paparazzi , più
qualcuno in lontananza, con le solite domane “Come va con Liam?” “E’ vero che
vivete assieme?”
Lei, veloce e impassibile,
ignorava come da copione quelle domande, anche se sapeva che, se avesse avuto
un briciolo di autocontrollo in meno, si sarebbe girata e avrebbe urlato a
quell’uomo che, no, le cose con Liam non andavano affatto
bene (aggiungendo, magari, di farsi una padellata di cavoli suoi, ma questo era
del tutto superfluo).
Avevano litigato
per l’ennesima volta.
Amava Liam,
davvero, eppure sentiva che ci sarebbe sempre stato qualcosa in sospeso tra di
loro, era come se lui non riuscisse a distruggere quel muro che si era creta attorno e lei non facesse niente per farlo passare
attraverso di esso.
E, onestamente,
non sapeva se sarebbe mai riuscita ad abbattere tutte le sue difese, un giorno.
Entrò in casa,
sopraffatta, appoggiando la borsa sul tavolo e controllando se aveva nuovi
messaggi. Di fatto, Demi ne aveva appena mandato uno; decise però che avrebbe
risposto più tardi, certa che l’amica avrebbe capito: voleva stare da sola, in
quel momento.
Si guardò
attorno, osservando quella casa troppo vuota, troppo grande, troppo estranea
per darle qualsiasi tipo di conforto e, cercando di sentirsi meno sola, si
distese sul divano, rannicchiata su se stessa.
Cercava di non
pensare a niente, ma più ci provava, più aveva la sensazione di voler qualcuno
accanto a se… anche se non riusciva a capire chi esattamente volesse.
Dopo qualche
minuto, spazientita, si alzò e prese l’iPod, cercando
di calmarsi.
Ma nemmeno così funzionava. Era
tremendamente frustante.
Doveva uscire di lì, non sapeva ancora dove sarebbe andata ma sapeva che
non era lì che voleva stare, aveva bisogno di un luogo familiare, che la
facesse stare bene.
Si cambiò,
indossando dei comodi shorts e un maglione troppo grande per lei, poi,
facendosi una coda alta, uscì dalla porta sul retro, temendo che qualche paparazzo
la vedesse. Fortunatamente non fu così. Non c’era nessuno ad attenderla,
nessuno che la stava osservando; era una semplice diciassettenne che faceva una
passeggiata, in quel momento.
Camminò senza
meta per un po’, non sapeva dove stesse andando, semplicemente
si faceva guidare dalle proprie gambe, con la testa persa in altri luoghi, in
ricordi lontani.
Fu solo quasi mezz’ora dopo che si fermò.
Per qualche
secondo non realizzò dove fosse poi, come un flash,
come un ricordo improvviso, spalancò gli occhi meravigliata; era da molto tempo
che non si rifugiava in quel luogo, forse fin troppo.
Non era cambiato
molto da allora.
Nel quartiere Toluka Lake, vicino alle maestose abitazioni delle star di
Hollywood, vicino a macchine costose e lussureggianti giardini sempre in fiore,
si erigeva una vecchia casa abbandonata. Era come ogni casa abbandonata che si
rispetti: vecchia, angusta, sporca, spaventosa. Un tempo doveva essere stata
un’elegante casa ottocentesca, forse la più bella di
quel quartiere, ma ora non rimaneva che il ricordo di quella che era stata un
tempo. Naturalmente si vociferavano quelle usuali storie di paura, inventate da
ragazzini per spaventarsi a vicenda, secondo alcuni era infestata da fantasmi,
altri dicevano che proprio lì era stato commesso un delitto spaventoso; di fatto nessuno sapeva a chi appartenesse quella casa e
quelle dicerie erano abbastanza spaventose perché nessuno provasse ad
abbatterla.
Ne era sempre
rimasta affascinata, da quella casa. Ricordava che fin dal giorno in cui si era
trasferita a Los Angeles aveva fantasticato su chi ci
avesse vissuto, era arrivata anche a pensare che un giorno ci avrebbe abitato.
In un certo senso
era stato così, ci aveva passato così tanto tempo che
ormai poteva essere definita la sua seconda casa. O meglio, la loro casa.
Lentamente si
avvicinò, scavalcò il cancello arrugginito, si avventurò tra l’erba alta del
giardino, fin ad arrivare alla sua meta: un grosso buco nascosto da un
cespuglio che aveva scoperto la prima volta che si era avventurata in quel
luogo, quasi cinque anni prima.
Con fatica
attraversò la grande crepa nel buco, molto più piccola di quanto ricordasse, e
finalmente entrò.
Come
esternamente, anche dentro la casa non era cambiata affatto;
sembrava estranea al mondo che la circondava e al tempo che scorreva, veloce e
beffardo.
Inquadrò subito
il divano logoro dove erano soliti passare le giornate
lei e… No, non doveva pensarci.
Eppure dentro di
lei sapeva che in quel momento lui sarebbe
stato l’unico a riuscire a farla stare meglio, era sempre stato l’unico a farle
tornare il sorriso anche nei momenti peggiori, era sempre stato l’unico… l’unico e basta. L’unico in tutto.
Si sedette sul
divano, le gambe rannicchiate al petto, con l’iPod
nelle orecchie, come in una specie di trans.
Non seppe quanto
tempo era passato (minuti? Ore? Giorni? Mesi?), quando qualcuno iniziò a toccarle i capelli.
Doveva essersi
addormentata inconsapevolmente. Per qualche secondo non realizzò
dove fosse poi, messa a fuoco la stanza, capì che si trovava ancora in
quella vecchia casa.
Non le importava,
andava bene così, non aveva voglia di alzarsi né tantomeno abbandonare quel
luogo confortevole.
Si godette, per
un tempo che non seppe definire, quel tempore in cui si era chiusa, ascoltando
la musica che usciva ancora lieve dal sul iPod,
crogiolandosi dal sole leggero che entrava dalle finestre e poi… cosa era quel
così familiare tocco alla testa?
Resasi conto che
non era sola, aprì gli occhi spaventata, tirandosi a
sedere, aspettandosi un maniaco sessuale o chissà quale altra cosa.
«Calma, calma, calma! Sono solo io!»
Un ragazzo – il ragazzo più bello che avesse mai visto- la guardava con
sguardo ironico, quasi malizioso. E poi sorrise, con il suo sorriso luminoso
che, lei sapeva, donava a soli pochi eletti. Lo guardò, quasi estasiata, come
se pensasse fosse una specie di meteora.
Ma
invece lui era lì.
Guardò i suoi
occhi, scuri, profondi, sicuri di sé.
Osservò i suoi
capelli, ricci, ribelli, allo stesso tempo definiti, morbidi. La sua bocca,
rosea, carnosa, perfetta, era ancora come ricordava.
La pelle lattea, i corpo snello ma allenato, le gambe muscolose.
Era proprio lui,
lì, con lei… per lei?
«Cosa ci fa tu
qua?»
Si guardarono,
così intensamente come forse non avevano mai fatto prima.
C’erano così
tante domande, in quelli sguardi. E anche tante risposte.
Nell’arco di quei
secondi in cui i loro occhi si erano incontrati –incontrati davvero- dopo tanti
anni, Miley seppe che non c’era più niente da dire.
«Avevi bisogno di
me.»
Alzò le spalle,
come se fosse ovvio. E lei annuì, come se fosse d’accordo sul fatto che, sì,
era piuttosto ovvio.
Così, senza dire
niente, appoggiò la testa sulle sua gambe, godendosi
quel momento.
Nick le iniziò a
toccare i capelli, canticchiando una vecchia canzone.
Lei chiuse gli
occhi, sorridendo.
E quando lui si
chinò per baciarla, non si sorprese, semplicemente rispose a quel bacio, con
dolcezza e passione, così come erano loro.
Sembrava che il
tempo non fosse passato e che fossero ancora quei tredicenni innamorati e senza
problemi che un tempo erano stati.
Quel bacio però
aveva un sapore diverso: sapeva di promesse, sapeva di
malinconia e sapeva di complicità.
Da quel bacio entrambi capirono che, qualunque cosa fosse
successa, loro sarebbero stati lì, per l’altro, ovunque fossero e in qualunque
modo si fosse evoluta la loro vita.
E andava bene
così, perché il giorno dopo sarebbero tornati alle
loro frenetiche vite, avrebbero continuato ad ignorarsi, avrebbero continuato a
sorridere al mondo fingendo di essere felici, ma niente avrebbe sostituito la
magia di quell’attimo.
Ehm… per prima cosa, in mia difesa, vorrei dire che ho pochissimo
tempo, che sono piena di compiti, che studio ogni giorni quattro/cinque ore e
che il tempo per scrivere è sempre meno. :3
Comunque sia oggi ho voluto finire questa shot che era rimasta
incompleta da un po’.
Niente da dire, tranne che amo questi due. E, ovviamente, un grazie infinito a quei tre splendori che
hanno commentato il precedente capitolo. I loge u all!