Note Iniziali:
Questa
Fanfiction è stata scritta quasi due anni fa’e fa
parte di una raccolta ben precisa, mai pubblicata. Certi personaggi
sono stati
creati tempo addietro per un gioco di ruolo ormai chiuso ‘Le
Ciel’, ma diciamo
che al di là del background e la biografia ho deciso di non
mescolare il gioco
con quello che mi è poi venuto in mente sui personaggi. Che
dire, la prima fan
fiction è quella ancora più vecchia su Aaron,
l’altro personaggio che ha mosso
una mia amica ma di cui mi sono talmente tanto innamorata da prenderlo
in
prestito per scriverci sopra. Aaron e Lear sono un po’ i fili
conduttori della
storia, ovviamente al momento non credo si capisca tutto di loro, ma
piano
piano saranno chiarite tante cose. La scelta di
‘mescolare’ i tempi della fan
fiction è stata un’esigenza, ogni volta mi viene
sempre qualcosa di nuovo da
aggiungere alla loro storia, ma non preoccupatevi, la divisione
è fatta in modo
che immediatamente vi risalteranno, nelle prossime fan fiction, le cose
importanti da sapere per collegare il tutto.
Questa
fanfiction ha anche vinto un concorso (taaanto tempo
fa!) ‘A contest for a song’ adesso mi sono decisa a
pubblicarla. Vi lascio alla
lettura, sperando che sia piacevole!
Arrivederci.
(Per ogni candida carezza, data per non
sentire l’amarezza)
‘Perché
la vita è un
brivido che vola via.
E’ tutto un
equilibrio sopra la follia…sopra
la follia’
Il
rumore assordate dei tuoni all’orizzonte rompeva la
quiete del piccolo appartamento, dove regnava un silenzio innaturale.
Sulla
soglia di casa una valigia ed un borsone erano stati lasciati
pigramente
abbandonati contro l’ uscio, così come la porta di
una stanza era stata
lasciata aperta, una stanza completamente vuota, arricchita soltanto da
qualche
poster attaccato alle pareti ed un soffice copriletto arancione.
Nella
piccola cucina Nathan, Julian e Lear erano intenti a
concedersi un pranzo veloce, tutti silenziosi come raramente erano
stati, tutti
concentrati sui loro piatti.
Era
ormai l’una e la pioggia annunciata dai tuoni ancora non
era scesa, l’aria fredda batteva come
un’invincibile cortina per le strade
della città, ma gli amici non vi avevano fatto caso, troppo
presi dai loro
pensieri.
“Hai
chiamato il taxi?”
La
voce squillante di Nath interrusse il silenzio calato
nella cucina, facendo sobbalzare Julian seduto di fianco a lui. Lear si
versò
un bicchiere d’acqua, mentre rispondeva a mezza voce.
“Si,
arriverà tra qualche minuto.”
Julian
sospirò pesantemente, appoggiando la forchetta sul
piatto quasi completamente pieno. Lear alzò gli occhi
incontrando le gemme
nocciola dell’altro, già quasi conscio di quello
che stava per dire.
“Sei
sicuro di quello che stai facendo Lear?”
Lear
annuì, regalandogli un soffice sorriso speranzoso. Nath
si alzò dalla tavola spostando la sedia e raccolse i piatti
svuotandoli e
gettandoli nel lavello con mal curanza, Julian invece rimase seduto,
l’aria
seria sul volto appena contratto e gli occhi impunemente attaccati a
quelli di
Lear.
“Si,
non posso più restare”
Julian
socchiuse gli occhi, si alzò lentamente dalla sedia e
si avviò senza dire una parola all’entrata della
casa. Nath guardò il biondino
con sguardo appena triste, prima
di
seguire l’amico e recarsi vicino l’uscio, lasciando
Lear da solo nella piccola
cucina.
Andava
via.
Dopo
tre anni passati fra quelle mura, lasciava quella casa
per non tornare, abbandonava i suoi amici e si trasferiva. Non poteva
più rimanere,
i ricordi della morte di sua madre, della sua estraneazione dalla
famiglia
aleggiavano fra le pareti di quella casa, ricordandogli continuamente
chi era e
cosa gli era stato fatto.
Faceva
troppo male rimanere, talmente tanto che l’idea di
una nuova vita lo aveva completamente catturato ed ammaliato,
spingendolo a
scegliere il suo nuovo percorso, la sua nuova vita in pochissimo tempo.
Arrivato
davanti alla porta trovò Nath già con gli occhi
lucidi e Julian che lo fissava ancora severo. L’amico
aveva preso male la sua decisione, non
sopportava l’idea che lui li stesse lasciando stesse
scappando via senza
sistemate le cose fra loro.
Eppure
nel suo sguardo Lear leggeva soltanto una tremenda
tristezza, non c’era nemmeno l’ombra di un
rimprovero, nemmeno una scintilla di
rancore. E la cosa anche se di poco riusciva a consolarlo.
“Allora…ciao
ragazzi!”
Disse
Lear con voce appena tremante, mentre Nathan gli
saltava al collo cominciando a farfugliare qualcosa in tedesco, sua
lingua
natia. Lear lo strinse forte fra le sue braccia depositandogli un bacio
negli
assurdi capelli viola.
“Mi
mancherai Nath”
L’altro
sussultò per poi prendere a piangere sulla sua
spalla. Lear lo allontanò con dolcezza da sé,
avvicinandosi a Julian, che si
era appoggiato al muro incrociando le braccia.
“Ciao
Jules, abbi cura di tutti!”disse ancora cercando di
non far vedere le sottili lacrime che cominciavano a cadergli dagli
occhi verdi,
mentre il rosso si alzava dalla parete poggiandogli una mano sulla
guancia
bagnata.
“Aspettalo
Lear, ritarda la partenza, ma aspettalo”
Il
biondo trattenne il fiato a quella frase, lasciando che
il moro continuasse la sua lenta carezza. Istintivamente gli prese la
mano,
stringendola nella sua.
“Perché?”
Mormorò,
mentre lo guardava negli occhi e Julian ritrasse la
mano, appoggiandosi di nuovo alla parete. Lear nono aggiunse altro, si
limitò a
sorridergli, per poi prendere finalmente la pesante sacca e la valigia,
ed
uscire fuori dall’appartamento.
Nath
si sporse sulla porta, seguito dall’altro.
“Chiamaci
prima di arrivare e non fare guai!”
Lear
rise, mentre annuiva dirigendosi verso l’ascensore.
Sentì la porta della casa chiudersi e sospirò,
era finita, stava andando via.
L’eccitazione per la partenza non riusciva a colmare il senso
di vuoto che gli
si apriva in petto, andava via senza vederlo, senza nemmeno salutarlo.
Ryan,
la costante dolorosa degli ultimi anni, la sua
ennesima sconfitta personale.
Nonostante
tutti gli sforzi che l’altro aveva fatto per
stargli vicino, per sorreggerlo e sostenerlo,nonostante tutte le volte
che gli
aveva dimostrato quanto lo amava, lui non era riuscito a ricambiarlo. O
più
precisamente non era riuscito a farlo entrare nella sua vita nella
maniera che
l’altro desiderava.
Tre
anni ed ancora non aveva capito quello che provava, se
lo amava, se era un amico, un fratello o altro.
Ed
adesso che lui non c’era stava andando via, nonostante
avesse avvertito il gruppo mesi prima della sua decisione aveva
vigliaccamente
aspettato che l’altro non ci fosse, per poter scappare via,
per poter fuggire senza
guardarlo negli occhi, perché avrebbe significato dovergli
dare una spiegazione
e lui quella spiegazione non l’aveva.
Inconsciamente
credeva che Ryan lo avesse capito, per questo
quando gli aveva detto che stava facendo i bagagli per partire, lui non
aveva
commentato in nessuna maniera, era rimasto in silenzio per telefono,
lasciando
a Lear l’oneroso compito di salutarlo.
Eppure
a distanza di pochi giorni, quella sua scelta
cominciava a pesargli. Stava maledettamente male, soffriva
perché avrebbe voluto
rivedere gli occhi dorati dell’amico, avrebbe voluto
parlargli anche senza
sapere cosa dire, avrebbe voluto sentire la sua voce rassicurante
sussurrargli
il suo ‘addio’; perché in fondo era
quello di cui si trattava.
Il
solo pensare quella parola gli fece serrare lo stomaco.
In quel momento l’ascensore si aprì e lui riprese
valigia e borsa, uscendo
quasi di corsa dal portone e trovando il taxi pronto per portarlo a
destinazione. Il
tassista prese i suoi
bagagli con un gran sorriso, mentre lui entrava dentro
l’automobile, costatando
che la pioggia tanto annunciata dai tuoni, stava cominciando a cadere.
Il
taxi ci mise parecchio per arrivare a destinazione, il
traffico aveva completamente imbottigliato la città, ma
questo non sconvolse i
suoi piani, avrebbe dovuto lo stesso aspettare almeno
mezz’ora prima della
partenza del suo treno.
Una
volta fermati Lear pagò il taxi ed uscì fuori,
aspettando che il signore gli portasse fuori le valigie, cosa che
avvenne in
pochissimo tempo.
Prime
gocce di pioggia cominciarono a bagnargli i sottili
capelli biondi, ma non
se ne curò; la
morsa che gli stava attanagliando il petto si era stretta ancora appena
aveva
intravisto la sua destinazione della macchina.
Col
capo chino arrivò alle porta della stazione, controllando
il cartellone delle partenze. Venti
minuti di ritardo registrò meccanicamente e
sbuffò, cominciando a calcolare i
vari orari, sospirando di sollievo quando si rese conto di non perdere
nessuna
coincidenza. A passi lenti si avviò al binario, scrutando
con aria distratta le
persone accanto a lui e sospirando guardando il grande orologio che
segnava
imperturbabile l’ora, indolentemente appoggiato al muro.
Il
suo sguardo fu catturato dalle lancette, quando si rese
conto di star fissando l’orologio da buoni cinque minuti
senza far nulla, si
strofinò un braccio sugli occhi appena appannati e si diede
mentalmente
dell’idiota.
Quella
storia lo stava facendo a pezzi.
Distolta
l’attenzione dal maledetto orologio, la sua mente
fu presa da altro, un ragazzo per la precisione. I suoi occhi rimasero
a
sondare quella schiena per troppo tempo, così come rimasero
catturati dai
lunghi capelli neri legati nella coda e dal comportamento quasi
annoiato.
Ryan.
Il suo Ryan era arrivato per
salutarlo.
Rimase
a bocca aperta, con lo stomaco che si era
immediatamente attorcigliato in una presa quasi dolorosa ed il cuore
deciso a
ballargli la rumba nel petto. Si accorse che aveva le labbra aride e le
mani
sudate. Possibile che quel ragazzo riuscisse a fargli
quell’effetto? O era
soltanto il suo senso di colpa che stava parlando?
Non
sapeva darsi risposta a quelle domande, seppe soltanto
che nel momento in cui il moro si voltò fu come aver
ricevuto un pungo nello
stomaco.
Non era
Ryan.
Ed in
quel momento fu come se un muro stesse crollando nella sua testa.
Perché per la
prima volta dopo due anni, gli veniva da piangere.
Scrollò
la testa più volte, cercando di darsi un minimo di
contegno, eppure le lacrime che minacciavano di scendere per le sue
guancie non
riuscivano a fermarsi.
Doveva
vedere Ryan. Doveva sentirlo, parlargli,
abbracciarlo…dirgli qualcosa. Anche se non sapeva
esattamente cosa, anche se
probabilmente non sarebbe stato quello che l’altro voleva
sentirsi dire.
La
sua parte egoista stava urlando e voleva attenzione: voleva
andare da Ryan.
Le
inutili difese che la sua testa continuava ad inviargli
per soffocare quel bisogno vennero abbattute immediatamente da quel
desiderio
spossante. Il puro istinto si aprì nel suo sguardo come un
fuoco ed arrivò a
fargli bruciare le lacrime sulla pelle chiara.
Doveva
andare da Ryan, perché in quelle condizioni non sarebbe
sopravvissuto un
secondo di più.
E
mentre la sua parte razionale dichiarava definitivamente
la sconfitta, Lear cominciò a correre verso la strada,
cercando di fare mente
locale su quello che doveva fare. Doveva lasciare i bagagli da qualche
parte,
perché con quella pioggia non ci sarebbe stato verso di
trovare un taxi ed era
costretto a muoversi a piedi. Ryan era sicuramente ancora
all’università e
aveva tutto il tempo per raggiungerlo se
avesse corso il più velocemente possibile, certo doveva fare
mezza città di
corsa sotto la pioggia, ma ce la poteva fare.
Ed il
suo aereo, le sue coincidenze?
Se
adesso avesse messo in atto quella follia sarebbe andato
tutto farsi
benedire e probabilmente
partire il giorno dopo gli sarebbe costato almeno un mese di stipendio.
Al diavolo!
Ci
mise poco a decidere
ed in pochissimo era all’ufficio informazioni
dove aveva scaricato i
suoi bagagli sotto le urla della povera signora alla quale aveva
promesso
sbadatamente una colazione per il favore che gli faceva.
Ed
adesso era sotto la pioggia a correre come un forsennato
con i polmoni che gli bruciavano dallo sforzo, le gambe indolenzite dal
freddo
e lo stomaco in totale subbuglio per l’impegno improvviso.
Eppure
si rese conto che mai nessun dolore era stato così
sopportabile e così giusto. Era una follia bella e buona
quella che stava
facendo, rischiare la morte per aver urtato qualche colosso o per
essere quasi
investito da una macchina, era una pazzia quella di buttarsi
all’inseguimento
di un ragazzo a cui non sapeva ancora cosa dire.
Ciò
nonostante lo stava facendo e probabilmente avrebbe
soltanto regalato un polmone alla strada.
Quando,
dopo quasi trenta minuti di incessante corsa arrivò
all’università, il terrore di aver fatto troppo
tardi non riuscì a vincere
contro la sua stanchezza. L’affanno si era trasformato in
totale mancanza di
fiato e se le gambe per tutta la corsa non si erano fatte sentire,
adesso gli
stavano mandando chiare stilettate di dolore accompagnate dai piedi
gonfi
compressi nelle Converse.
Si
abbandonò su un muretto, sedendosi per recuperare fiato e
cercando in ogni modo di allungare il collo per vedere se la sua corsa
sarebbe
stata utile o un totale fallimento.
E
mentre la pioggia continuava a cadergli in testa
imperterrita, finalmente lo vide. E l’agitazione che gli si
rimescolò in petto
non valeva nemmeno lontanamente l’agitazione provata prima di
una serata
importante, o prima di qualche stupida gara di nuoto.
Si
sentiva mancare. Con il cuore che gli batteva a mille e
le gambe pesanti pensò che in quel momento sarebbe potuto
anche svenire. Aveva
anche avuto abbastanza.
Gli
occhi dorati di Ryan si voltarono verso di lui e lo
riconobbero immediatamente fra la folla. Si allargarono
impercettibilmente per
la sorpresa, così come le sue labbra sottili si strusciarono
appena, come a
voler contenere delle parole troppo accidentali, troppo spontanee.
Lear
si alzò non distogliendo i suoi occhi da quelli
dell’altro, arrivando a tremare impercettibilmente adesso che
avvertiva il
freddo dei panni bagnati appiccicatisi sulla pelle.
“Lear?”
Lear
si avvicinò piano annuendo e stringendosi le braccia
per farsi calore. Ryan scese le ultime scale bianche,
l’ombrello bianco a
coprirlo dalla fitta pioggia.
“Cosa
ci fai qui? Dovresti essere sul treno…”
Lentamente
Ryan si avvicinò a Lear, coprendolo con
l’ombrello. Lear annuì ancora trattenendosi
dall’abbracciare l’altro per non
bagnarlo.
Lo
sguardo stupito di Ryan durò poco, quel tanto che bastava
per tramutarsi da sorpreso ad apprensivo. Sentendo che Lear non parlava
ancora
si decise a farlo al posto suo, levandosi il cappotto pesante per darlo
all’amico.
“Ti
prenderai un accidente”
Mormorò
Ryan stringendoselo contro il petto e frizionandogli
le mani sulle braccia per
riscaldarlo.
Il biondino annuì per la terza volta colpito come al solito
dalle reazioni
dell’amico. Prima la sua salute, poi cosa diavolo ci faceva
lì, ma gli avrebbe
evitato l’ultima domanda.
“Non
potevo farcela Ryan” disse Lear a mezza voce, prima che
ancora una volta lacrime cominciassero a cadere dagli occhi chiari ed i
singhiozzi cominciassero a sconquassargli il ventre.
“Non
potevo andarmene senza averti rivisto…io non potevo,
perdonami…perdonami…”
Ed
il moro sbarrò gli occhi, stringendoselo immediatamente
al petto, lasciando cadere l’ombrello a terra, coprendolo
immediatamente con il
suo corpo. E Lear sussultò in quell’abbraccio,
cercando immediatamente di
ricambiarlo e riuscendoci gettandogli le
braccia al collo.
“Scusami
Ryan, perché per tutto questo tempo non sono stato
in grado di parlarti, di dirti le cose che meritavi di
sapere” si strinse
ancora di più al suo collo, cercando di arrivare a parlargli
nell’orecchio, il
tremore che lo coglieva nonostante adesso fosse al caldo.
“E’
che sono un codardo, un’egoista, un bugiardo…e Dio
solo
sa cos’altro”
La
stretta di Ryan si ridusse ancora, come una morsa
invincibile, come una gabbia fatta per non farlo scappare. E mentre i
caldi
singhiozzi di Lear gli arrivavano alle orecchie, Ryan non seppe se
seguirlo in
quel pianto liberatorio o tenere duro per riuscire a portare a termine
quel
momento.
“Non
mi interessa cosa sei Lear”
Gli
occhi di Lear si spalancarono, la bocca tirò un sospiro
senza rilasciarlo.
“Voglio
sapere perché sei qui adesso”
Non
ci fu silenzio più terribile, così come
più snervante
attesa. E la stessa consapevolezza che Lear si era negato per anni, per
paura
di soffrire, coinvolgersi, amare lo trafisse come una freccia alata.
“Ti
amo”
Fu
poco più che un sospiro, ma Ryan lo avvertì forte
come se
fosse stato uno sparo. Immediatamente si staccò quel tanto
che bastava da
quella morsa protettiva per cercare le sue labbra, e lo
baciò nella maniera più
decisa che conoscesse.
Lear
tirò un sospiro di sollievo interiore, come se tutte le
tessere del puzzle della sua vita avessero cominciato a combaciare e a
costruirsi da quel momento.
Fra
quelle labbra tutto poteva funzionare, tutto poteva
annullarsi, crearsi, comparire.
Gioia,
attesa, delusione e speranza non erano mai state così
vivide, così fertili, così reali.
E
tutto si annullò in quell’attimo. La pioggia non
esisteva, cosi come la
stanchezza, la rabbia ed il dolore. C’erano solo loro, e non
poteva essere
sensazione più bella.
Quando
si separarono Ryan aveva gli occhi ridenti e Lear
rimase senza fiato, guardando quanto fossero belli e completi in quel
momento.
Fronte
contro fronte si lasciarono cullare e massaggiare da
quella pioggia che non smetteva di cadere, si lasciarono trasportare
dal rumore
continuo e leggero, trovando che in quel momento nessuna delle loro
canzoni
sarebbe stata sottofondo migliore.
“Due
anni, ti ci sono voluti due anni”
Lear
sorrise, posando le mani sulle guancie dell’altro. Ryan
lo guardò con gli occhi più innamorati che avesse
mai visto e quello sguardo
gli riempì il cuore e la mente di una felicità
assurda.
“No,
c’è voluto un addio per farmelo
capire…per farmi capire
che è tutto troppo breve per permettersi di non rischiare,
mi ci è voluta una
pazzia per farmi capire che posso amare anche io”
Anche
Ryan sorrise, mentre piano piano scioglieva anche il
loro abbraccio, per prenderlo saldamente per una mano.
“Ed
ora?”
Lear
tremò ancora a quella domanda, abbassando lo sguardo
smeraldino, stringendo più che poteva quella mano fra la sua.
“Io
posso darti soltanto una notte Ryan, solo questo”
Lo
disse con tono estremamente fermo viste le sue vere
condizioni: la voglia di scappare, di fermare tutto, di annullarsi in
quell’istante.
Ryan
se lo tirò contro un fianco, spingendolo a cominciare a
camminare. Dopo pochi passi Lear gli scrutò il volto appena
contratto.
“Fossero
anche due minuti”
Lear
si fermò di scatto, spingendo l’altro a voltarsi
verso
di lui, sondando ancora una volta gli occhi color dell’ambra
con i suoi,
chiedendosi cosa poteva aver fatto di buono in quella vita per
meritarsi lui.
“Fossero
anche due minuti non potrei dirti di no amore mio,
perché arrivati a questo punto anche due minuti mi
basterebbero”
Lo
sguardo assolutamente sicuro di Ryan lo sconvolse e lo
smosse nello stesso momento. Arrossì di botto alla frase
quasi smielata
dell’altro eppure non poté fare a meno di
sorridere e di lasciarsi trascinare
da quella neonata euforia che sembrava destinata a non finire.
“Allora
portami con te, io verrò dovunque tu voglia andare”
E
completamente bagnati, accarezzati e colpiti dalla pioggia
che non cessava di cadere, finalmente si allontanarono
dall’università,
camminando lentamente mano nella mano.
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Quando
Lear si svegliò, si trovò immediatamente a
guardare
gli occhi di Ryan. Sorrise mugugnando e strusciandosi contro il corpo
caldo e
nudo nel ragazzo. Il moro sorrise avvicinandosi con il volto alle sue
labbra,
cospargendole di mille piccoli baci.
“Che
ore sono?”
Chiese
Lear, la voce ancora impastata dal sonno.
“Appena
le sei”
Il
biondino sbadigliò, prima di accoccolarsi meglio contro
l’altro, che gli lasciò lo spazio necessario per
sistemarsi come preferiva.
“E
tu sei già sveglio a quest’ora?” chiese
ancora il più piccolo
abbracciandogli i fianchi nudi e stringendosi nelle pesanti coperte,
finendo
per coprire anche l’altro.
“Credo
di non aver proprio dormito”
“Credi?”
Chiese
sorridendo e baciandogli il mento dove stava
spuntando il primo accenno di barba mattutina. Ryan sorrise a sua volta
passandogli una lunga carezza per la schiena. Lear
rabbrividì al tocco
dell’altro, socchiudendo appena gli occhi.
“Hai
fatto come nei film, sei rimasto a guardarmi con gli
occhi da pesce lesso tutta la notte?”
“Tu
sì che sai come nutrire un’atmosfera
romantica!”
Lear
ridacchiò ricambiando il bacio che gli era stato
prepotentemente chiesto e perdendocisi dentro per lunghi piacevolissimi
minuti.
Quando
si separarono lo sguardo di Ryan brillava come il
pomeriggio precedente.
“Ho
riflettuto”
Continuò
poi seguitando a guardare le labbra del biondo.
Lear trasalì appena spaventato dal significato che potevano
avere quelle parole
e ricordandosi che il tempo a loro disposizione era quasi finito.
“Voglio
proporti un patto Lear”
Lear
si voltò verso di lui stupito, girandosi completamente
su un fianco per guardarlo negli occhi chiari.
“Un
patto?”
L’altro
assentì, passandogli una mano dietro la schiena per
attirarlo nuovamente verso di se, costringendolo a reggersi per un
gomito sul letto,
quando decise di affondare la testa nell’incavo della sua
spalla.
“Un
anno, ti do un anno, se in questo tempo avrai trovato
qualcosa o qualcuno che possa tenerti lontano da qui, che abbia il
diritto di
tenerti lontano da qui…”
Ryan
raddrizzò il capo, alzandosi di scatto e costringendo
Lear a stendersi sotto di se. Lear lo guardava senza capire, con gli
occhi
appena socchiusi dalla sorpresa di quel gesto repentino.
“…allora
io lascerò perdere. Ma se ciò non sarà
successo,
allora ti verrò a prendere, ti verrò a prendere e
ti riporterò qui da me, da
noi, e non ti lascerò più andare via”
Lear
trattenne il fiato. Lasciò che Ryan si allungasse sul
suo corpo, lasciò che arrivasse
a
guardargli negli occhi prima di rispondere appena tremante.
“Si,
va bene”
Lo
sussurrò incapace di alzare di più la voce tanto
gli
faceva male il petto. Ryan annuì e sorrise sicuro di se
stesso e lo baciò
ancora una volta, prima di dipingersi un sorrisetto furbo sulle labbra.
“I
patti vanno stipulati”
Disse
arrochendo la voce già bassa ed accarezzando piano il
braccio di Lear. L’altro
sorrise
passandogli una mano fra i lunghi capelli sciolti ed inarcandosi contro
il suo
corpo.
“E
come avresti intenzione di fare?”
Lo
provocò, offrendogli il collo che fu immediatamente
attaccato
dalla bocca dell’altro.
“Col
sesso”
Lear
sorrise ancora, gemendo alla lenta carezza che Ryan
aveva donato ai suoi fianchi, mentre riprendeva ad occuparsi del suo
collo
riempiendolo di piccoli morsi e dolci lappate.
“Sei
un maiale”
Disse
Lear appena ansimante, già totalmente preso dalle
attenzioni che l’altro gli stava dedicando.
“Guarda
che lo so che è per questo che mi ami”
E
mentre Lear si perdeva in una dolce risata, Ryan non poté
fare a meno di notare che dopo una notte di tempesta, finalmente per le
strade
della città era spuntata una splendida alba.
'Cosa vuoi che
ti dica
io?
Senti che bel
rumore…'
Note
finali:
Se
dovessi aver imparato qualcosa dalla volta precedente,
adesso starei saltando di gioia, perché il lavoro non mi
soddisfa per niente.
Ma pazienza, dalla vita non si può ottenere tutto. Lavoro
ultimato quasi di
corsa, era tutto nella mia mente, ma le parole non sono mai venute
abbastanza
celermente fuori. Ma lasciamo perdere le mie lamentele e spieghiamo
qualcosa.
Sally
è una maledettissima canzone, perché soltanto una
strofa ed una frase significa qualcosa, nell’insieme
significano qualcosa di
diverso. Focalizzarmi su una sola frase di Sally è stato
difficile, perché per
me questa canzone è l’inizio, il durante e la fine
di una storia, una storia
che dura si è no quattro minuti, ma che vale la pena di
ascoltare ed imparare.
E
poi la citazione scelta. Può significare talmente tante
cose da stare male. Può significare che la vita è
breve e stronza e rischiamo
tutti di finire male, può significare che prima o poi a
tutti toccherà andare
di matto, può significare che la vita è breve ed
ognuno di noi deve stare
attento a non impazzire in quel poco tempo che ha.
In
questa fan fiction io ho accorpato un po’ tutto, ma ho
aggiunto il mio, senza un pizzico di avventatezza e di follia, non si
arriva da
nessuna parte. Perché se la vita è un brivido che
vola via, allora la parola
d’ordine della nostra esistenza dovrebbe essere
‘passione’ e passione spesso
porta a follia.
Ci
sono dei dovuti richiami al testo della canzone,
nonostante la pioggia fosse una banalità non potevo non
mettere quell’elemento
ricorrente (senti che
fuori piove senti
che bel rumore) così come non potevo non metterci dentro
sensi di colpa, viaggi
e turbamenti, tutte
parole che compaiono
nella canzone originale.
Così
cosa posso dire, involontariamente sono partita da una
citazione e ci ho messo dentro riferimenti a tutta la canzone.
Spero
che almeno sia stata una piacevole lettura.
IMPORTANTE:
leggete le note iniziali!!