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Autore: _ALE2_    18/05/2011    1 recensioni
Non era Ryan.
Ed in quel momento fu come se un muro stesse crollando nella sua testa. Perché per la prima volta dopo due anni, gli veniva da piangere.
Scrollò la testa più volte, cercando di darsi un minimo di contegno, eppure le lacrime che minacciavano di scendere per le sue guancie non riuscivano a fermarsi.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Una vita intera'
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Note Iniziali:  Questa Fanfiction è stata scritta quasi due anni fa’e fa parte di una raccolta ben precisa, mai pubblicata. Certi personaggi sono stati creati tempo addietro per un gioco di ruolo ormai chiuso ‘Le Ciel’, ma diciamo che al di là del background e la biografia ho deciso di non mescolare il gioco con quello che mi è poi venuto in mente sui personaggi. Che dire, la prima fan fiction è quella ancora più vecchia su Aaron, l’altro personaggio che ha mosso una mia amica ma di cui mi sono talmente tanto innamorata da prenderlo in prestito per scriverci sopra. Aaron e Lear sono un po’ i fili conduttori della storia, ovviamente al momento non credo si capisca tutto di loro, ma piano piano saranno chiarite tante cose. La scelta di ‘mescolare’ i tempi della fan fiction è stata un’esigenza, ogni volta mi viene sempre qualcosa di nuovo da aggiungere alla loro storia, ma non preoccupatevi, la divisione è fatta in modo che immediatamente vi risalteranno, nelle prossime fan fiction, le cose importanti da sapere per collegare il tutto.

Questa fanfiction ha anche vinto un concorso (taaanto tempo fa!) ‘A contest for a song’ adesso mi sono decisa a pubblicarla. Vi lascio alla lettura, sperando che sia piacevole!

 

 

 

 

Arrivederci. (Per ogni candida carezza, data per non sentire l’amarezza)

 

 

‘Perché la vita è un brivido che vola via.

 E’ tutto un equilibrio sopra la follia…sopra la follia’

 

 

Il rumore assordate dei tuoni all’orizzonte rompeva la quiete del piccolo appartamento, dove regnava un silenzio innaturale. Sulla soglia di casa una valigia ed un borsone erano stati lasciati pigramente abbandonati contro l’ uscio, così come la porta di una stanza era stata lasciata aperta, una stanza completamente vuota, arricchita soltanto da qualche poster attaccato alle pareti ed un soffice copriletto arancione.

Nella piccola cucina Nathan, Julian e Lear erano intenti a concedersi un pranzo veloce, tutti silenziosi come raramente erano stati, tutti concentrati sui loro piatti.

Era ormai l’una e la pioggia annunciata dai tuoni ancora non era scesa, l’aria fredda batteva come un’invincibile cortina per le strade della città, ma gli amici non vi avevano fatto caso, troppo presi dai loro pensieri.

 

“Hai chiamato il taxi?”

 

La voce squillante di Nath interrusse il silenzio calato nella cucina, facendo sobbalzare Julian seduto di fianco a lui. Lear si versò un bicchiere d’acqua, mentre rispondeva a mezza voce.

 

“Si, arriverà tra qualche minuto.”

 

Julian sospirò pesantemente, appoggiando la forchetta sul piatto quasi completamente pieno. Lear alzò gli occhi incontrando le gemme nocciola dell’altro, già quasi conscio di quello che stava per dire.

 

“Sei sicuro di quello che stai facendo Lear?”

 

Lear annuì, regalandogli un soffice sorriso speranzoso. Nath si alzò dalla tavola spostando la sedia e raccolse i piatti svuotandoli e gettandoli nel lavello con mal curanza, Julian invece rimase seduto, l’aria seria sul volto appena contratto e gli occhi impunemente attaccati a quelli di Lear.

 

“Si, non posso più restare”

 

Julian socchiuse gli occhi, si alzò lentamente dalla sedia e si avviò senza dire una parola all’entrata della casa. Nath guardò il biondino con sguardo appena triste,  prima di seguire l’amico e recarsi vicino l’uscio, lasciando Lear da solo nella piccola cucina.

 

Andava via.

Dopo tre anni passati fra quelle mura, lasciava quella casa per non tornare, abbandonava i suoi amici e si trasferiva. Non poteva più rimanere, i ricordi della morte di sua madre, della sua estraneazione dalla famiglia aleggiavano fra le pareti di quella casa, ricordandogli continuamente chi era e cosa gli era stato fatto.

Faceva troppo male rimanere, talmente tanto che l’idea di una nuova vita lo aveva completamente catturato ed ammaliato, spingendolo a scegliere il suo nuovo percorso, la sua nuova vita in pochissimo tempo.

 

Arrivato davanti alla porta trovò Nath già con gli occhi lucidi e Julian che lo fissava ancora severo.  L’amico aveva preso male la sua decisione, non sopportava l’idea che lui li stesse lasciando stesse scappando via senza sistemate le cose fra loro.

Eppure nel suo sguardo Lear leggeva soltanto una tremenda tristezza, non c’era nemmeno l’ombra di un rimprovero, nemmeno una scintilla di rancore. E la cosa anche se di poco riusciva a consolarlo.

 

“Allora…ciao ragazzi!”

 

Disse Lear con voce appena tremante, mentre Nathan gli saltava al collo cominciando a farfugliare qualcosa in tedesco, sua lingua natia. Lear lo strinse forte fra le sue braccia depositandogli un bacio negli assurdi capelli viola.

 

“Mi mancherai Nath”

L’altro sussultò per poi prendere a piangere sulla sua spalla. Lear lo allontanò con dolcezza da sé, avvicinandosi a Julian, che si era appoggiato al muro incrociando le braccia.

 

“Ciao Jules, abbi cura di tutti!”disse ancora cercando di non far vedere le sottili lacrime che cominciavano a cadergli dagli occhi verdi, mentre il rosso si alzava dalla parete poggiandogli una mano sulla guancia bagnata.

 

“Aspettalo Lear, ritarda la partenza, ma aspettalo”

 

Il biondo trattenne il fiato a quella frase, lasciando che il moro continuasse la sua lenta carezza. Istintivamente gli prese la mano, stringendola nella sua.

 

“Perché?”

 

Mormorò, mentre lo guardava negli occhi e Julian ritrasse la mano, appoggiandosi di nuovo alla parete. Lear nono aggiunse altro, si limitò a sorridergli, per poi prendere finalmente la pesante sacca e la valigia, ed uscire fuori dall’appartamento.

Nath si sporse sulla porta, seguito dall’altro.

 

“Chiamaci prima di arrivare e non fare guai!”

 

Lear rise, mentre annuiva dirigendosi verso l’ascensore. Sentì la porta della casa chiudersi e sospirò, era finita, stava andando via. L’eccitazione per la partenza non riusciva a colmare il senso di vuoto che gli si apriva in petto, andava via senza vederlo, senza nemmeno salutarlo.

 

Ryan, la costante dolorosa degli ultimi anni, la sua ennesima sconfitta personale.

Nonostante tutti gli sforzi che l’altro aveva fatto per stargli vicino, per sorreggerlo e sostenerlo,nonostante tutte le volte che gli aveva dimostrato quanto lo amava, lui non era riuscito a ricambiarlo. O più precisamente non era riuscito a farlo entrare nella sua vita nella maniera che l’altro desiderava.

Tre anni ed ancora non aveva capito quello che provava, se lo amava, se era un amico, un fratello o altro.

Ed adesso che lui non c’era stava andando via, nonostante avesse avvertito il gruppo mesi prima della sua decisione aveva vigliaccamente aspettato che l’altro non ci fosse, per poter scappare via, per poter fuggire senza guardarlo negli occhi, perché avrebbe significato dovergli dare una spiegazione e lui quella spiegazione non l’aveva.

Inconsciamente credeva che Ryan lo avesse capito, per questo quando gli aveva detto che stava facendo i bagagli per partire, lui non aveva commentato in nessuna maniera, era rimasto in silenzio per telefono, lasciando a Lear l’oneroso compito di salutarlo.

 

Eppure a distanza di pochi giorni, quella sua scelta cominciava a pesargli. Stava maledettamente male, soffriva perché avrebbe voluto rivedere gli occhi dorati dell’amico, avrebbe voluto parlargli anche senza sapere cosa dire, avrebbe voluto sentire la sua voce rassicurante sussurrargli il suo ‘addio’; perché in fondo era quello di cui si trattava.

 

Il solo pensare quella parola gli fece serrare lo stomaco. In quel momento l’ascensore si aprì e lui riprese valigia e borsa, uscendo quasi di corsa dal portone e trovando il taxi pronto per portarlo a destinazione.  Il tassista prese i suoi bagagli con un gran sorriso, mentre lui entrava dentro l’automobile, costatando che la pioggia tanto annunciata dai tuoni, stava cominciando a cadere.

Il taxi ci mise parecchio per arrivare a destinazione, il traffico aveva completamente imbottigliato la città, ma questo non sconvolse i suoi piani, avrebbe dovuto lo stesso aspettare almeno mezz’ora prima della partenza del suo treno.

 

Una volta fermati Lear pagò il taxi ed uscì fuori, aspettando che il signore gli portasse fuori le valigie, cosa che avvenne in pochissimo tempo.

Prime gocce di pioggia cominciarono a bagnargli i sottili capelli biondi, ma  non se ne curò; la morsa che gli stava attanagliando il petto si era stretta ancora appena aveva intravisto la sua destinazione della macchina.

Col capo chino arrivò alle porta della stazione, controllando il cartellone delle partenze.  Venti minuti di ritardo registrò meccanicamente e sbuffò, cominciando a calcolare i vari orari, sospirando di sollievo quando si rese conto di non perdere nessuna coincidenza. A passi lenti si avviò al binario, scrutando con aria distratta le persone accanto a lui e sospirando guardando il grande orologio che segnava imperturbabile l’ora, indolentemente appoggiato al muro.

 

Il suo sguardo fu catturato dalle lancette, quando si rese conto di star fissando l’orologio da buoni cinque minuti senza far nulla, si strofinò un braccio sugli occhi appena appannati e si diede mentalmente dell’idiota.

Quella storia lo stava facendo a pezzi.

 

Distolta l’attenzione dal maledetto orologio, la sua mente fu presa da altro, un ragazzo per la precisione. I suoi occhi rimasero a sondare quella schiena per troppo tempo, così come rimasero catturati dai lunghi capelli neri legati nella coda e dal comportamento quasi annoiato.

 

Ryan.

 Il suo Ryan era arrivato per salutarlo.

 

Rimase a bocca aperta, con lo stomaco che si era immediatamente attorcigliato in una presa quasi dolorosa ed il cuore deciso a ballargli la rumba nel petto. Si accorse che aveva le labbra aride e le mani sudate. Possibile che quel ragazzo riuscisse a fargli quell’effetto? O era soltanto il suo senso di colpa che stava parlando?

 

Non sapeva darsi risposta a quelle domande, seppe soltanto che nel momento in cui il moro si voltò fu come aver ricevuto un pungo nello stomaco.

 

Non era Ryan.

 

Ed in quel momento fu come se un muro stesse crollando nella sua testa. Perché per la prima volta dopo due anni, gli veniva da piangere.

 

Scrollò la testa più volte, cercando di darsi un minimo di contegno, eppure le lacrime che minacciavano di scendere per le sue guancie non riuscivano a fermarsi.

Doveva vedere Ryan. Doveva sentirlo, parlargli, abbracciarlo…dirgli qualcosa. Anche se non sapeva esattamente cosa, anche se probabilmente non sarebbe stato quello che l’altro voleva sentirsi dire.

La sua parte egoista stava urlando e voleva attenzione: voleva andare da Ryan.

Le inutili difese che la sua testa continuava ad inviargli per soffocare quel bisogno vennero abbattute immediatamente da quel desiderio spossante. Il puro istinto si aprì nel suo sguardo come un fuoco ed arrivò a fargli bruciare le lacrime sulla pelle chiara.

 

Doveva andare da Ryan, perché in quelle condizioni non sarebbe sopravvissuto un secondo di più.

 

E mentre la sua parte razionale dichiarava definitivamente la sconfitta, Lear cominciò a correre verso la strada, cercando di fare mente locale su quello che doveva fare. Doveva lasciare i bagagli da qualche parte, perché con quella pioggia non ci sarebbe stato verso di trovare un taxi ed era costretto a muoversi a piedi. Ryan era sicuramente ancora all’università e aveva tutto il tempo per raggiungerlo  se avesse corso il più velocemente possibile, certo doveva fare mezza città di corsa sotto la pioggia, ma ce la poteva fare.

 

Ed il suo aereo, le sue coincidenze?

 

Se adesso avesse messo in atto quella follia sarebbe andato tutto  farsi benedire e probabilmente partire il giorno dopo gli sarebbe costato almeno un mese di stipendio.

 

Al  diavolo!

 

Ci mise poco a decidere  ed in pochissimo era all’ufficio informazioni dove aveva scaricato i suoi bagagli sotto le urla della povera signora alla quale aveva promesso sbadatamente una colazione per il favore che gli faceva.

 

Ed adesso era sotto la pioggia a correre come un forsennato con i polmoni che gli bruciavano dallo sforzo, le gambe indolenzite dal freddo e lo stomaco in totale subbuglio per l’impegno improvviso.

Eppure si rese conto che mai nessun dolore era stato così sopportabile e così giusto. Era una follia bella e buona quella che stava facendo, rischiare la morte per aver urtato qualche colosso o per essere quasi investito da una macchina, era una pazzia quella di buttarsi all’inseguimento di un ragazzo a cui non sapeva ancora cosa dire.

Ciò nonostante lo stava facendo e probabilmente avrebbe soltanto regalato un polmone alla strada.

 

Quando, dopo quasi trenta minuti di incessante corsa arrivò all’università, il terrore di aver fatto troppo tardi non riuscì a vincere contro la sua stanchezza. L’affanno si era trasformato in totale mancanza di fiato e se le gambe per tutta la corsa non si erano fatte sentire, adesso gli stavano mandando chiare stilettate di dolore accompagnate dai piedi gonfi compressi nelle Converse.

Si abbandonò su un muretto, sedendosi per recuperare fiato e cercando in ogni modo di allungare il collo per vedere se la sua corsa sarebbe stata utile o un totale fallimento.

 

E mentre la pioggia continuava a cadergli in testa imperterrita, finalmente lo vide. E l’agitazione che gli si rimescolò in petto non valeva nemmeno lontanamente l’agitazione provata prima di una serata importante, o prima di qualche stupida gara di nuoto.

Si sentiva mancare. Con il cuore che gli batteva a mille e le gambe pesanti pensò che in quel momento sarebbe potuto anche svenire. Aveva anche avuto abbastanza.

 

Gli occhi dorati di Ryan si voltarono verso di lui e lo riconobbero immediatamente fra la folla. Si allargarono impercettibilmente per la sorpresa, così come le sue labbra sottili si strusciarono appena, come a voler contenere delle parole troppo accidentali, troppo spontanee.

Lear si alzò non distogliendo i suoi occhi da quelli dell’altro, arrivando a tremare impercettibilmente adesso che avvertiva il freddo dei panni bagnati appiccicatisi sulla pelle.

 

“Lear?”

 

Lear si avvicinò piano annuendo e stringendosi le braccia per farsi calore. Ryan scese le ultime scale bianche, l’ombrello bianco a coprirlo dalla fitta pioggia.

 

“Cosa ci fai qui? Dovresti essere sul treno…”

 

Lentamente Ryan si avvicinò a Lear, coprendolo con l’ombrello. Lear annuì ancora trattenendosi dall’abbracciare l’altro per non bagnarlo.

Lo sguardo stupito di Ryan durò poco, quel tanto che bastava per tramutarsi da sorpreso ad apprensivo. Sentendo che Lear non parlava ancora si decise a farlo al posto suo, levandosi il cappotto pesante per darlo all’amico.

 

“Ti prenderai un accidente”

 

Mormorò Ryan stringendoselo contro il petto e frizionandogli le mani sulle braccia  per riscaldarlo. Il biondino annuì per la terza volta colpito come al solito dalle reazioni dell’amico. Prima la sua salute, poi cosa diavolo ci faceva lì, ma gli avrebbe evitato l’ultima domanda.

 

“Non potevo farcela Ryan” disse Lear a mezza voce, prima che ancora una volta lacrime cominciassero a cadere dagli occhi chiari ed i singhiozzi cominciassero a sconquassargli il ventre.

 

“Non potevo andarmene senza averti rivisto…io non potevo, perdonami…perdonami…”

 

Ed il moro sbarrò gli occhi, stringendoselo immediatamente al petto, lasciando cadere l’ombrello a terra, coprendolo immediatamente con il suo corpo. E Lear sussultò in quell’abbraccio, cercando immediatamente di ricambiarlo e riuscendoci gettandogli le  braccia al collo.

 

“Scusami Ryan, perché per tutto questo tempo non sono stato in grado di parlarti, di dirti le cose che meritavi di sapere” si strinse ancora di più al suo collo, cercando di arrivare a parlargli nell’orecchio, il tremore che lo coglieva nonostante adesso fosse al caldo.

 

“E’ che sono un codardo, un’egoista, un bugiardo…e Dio solo sa cos’altro”

 

La stretta di Ryan si ridusse ancora, come una morsa invincibile, come una gabbia fatta per non farlo scappare. E mentre i caldi singhiozzi di Lear gli arrivavano alle orecchie, Ryan non seppe se seguirlo in quel pianto liberatorio o tenere duro per riuscire a portare a termine quel momento.

 

“Non mi interessa cosa sei Lear”

 

Gli occhi di Lear si spalancarono, la bocca tirò un sospiro senza rilasciarlo.

 

“Voglio sapere perché sei qui adesso”

 

Non ci fu silenzio più terribile, così come più snervante attesa. E la stessa consapevolezza che Lear si era negato per anni, per paura di soffrire, coinvolgersi, amare lo trafisse come una freccia alata.

 

“Ti amo”

 

Fu poco più che un sospiro, ma Ryan lo avvertì forte come se fosse stato uno sparo. Immediatamente si staccò quel tanto che bastava da quella morsa protettiva per cercare le sue labbra, e lo baciò nella maniera più decisa che conoscesse.

Lear tirò un sospiro di sollievo interiore, come se tutte le tessere del puzzle della sua vita avessero cominciato a combaciare e a costruirsi da quel momento.

Fra quelle labbra tutto poteva funzionare, tutto poteva annullarsi, crearsi, comparire.

Gioia, attesa, delusione e speranza non erano mai state così vivide, così fertili, così reali.  E tutto si annullò in quell’attimo. La pioggia non esisteva, cosi come la stanchezza, la rabbia ed il dolore. C’erano solo loro, e non poteva essere sensazione più bella.

 

Quando si separarono Ryan aveva gli occhi ridenti e Lear rimase senza fiato, guardando quanto fossero belli e completi in quel momento.

Fronte contro fronte si lasciarono cullare e massaggiare da quella pioggia che non smetteva di cadere, si lasciarono trasportare dal rumore continuo e leggero, trovando che in quel momento nessuna delle loro canzoni sarebbe stata sottofondo migliore.

 

“Due anni, ti ci sono voluti due anni”

 

Lear sorrise, posando le mani sulle guancie dell’altro. Ryan lo guardò con gli occhi più innamorati che avesse mai visto e quello sguardo gli riempì il cuore e la mente di una felicità assurda.

 

“No, c’è voluto un addio per farmelo capire…per farmi capire che è tutto troppo breve per permettersi di non rischiare, mi ci è voluta una pazzia per farmi capire che posso amare anche io”

 

Anche Ryan sorrise, mentre piano piano scioglieva anche il loro abbraccio, per prenderlo saldamente per una mano.

 

“Ed ora?”

 

Lear tremò ancora a quella domanda, abbassando lo sguardo smeraldino, stringendo più che poteva quella mano fra la sua.

 

“Io posso darti soltanto una notte Ryan, solo questo”

 

Lo disse con tono estremamente fermo viste le sue vere condizioni: la voglia di scappare, di fermare tutto, di annullarsi in quell’istante.

Ryan se lo tirò contro un fianco, spingendolo a cominciare a camminare. Dopo pochi passi Lear gli scrutò il volto appena contratto.

 

“Fossero anche due minuti”

 

Lear si fermò di scatto, spingendo l’altro a voltarsi verso di lui, sondando ancora una volta gli occhi color dell’ambra con i suoi, chiedendosi cosa poteva aver fatto di buono in quella vita per meritarsi lui.

 

“Fossero anche due minuti non potrei dirti di no amore mio, perché arrivati a questo punto anche due minuti mi basterebbero”

 

Lo sguardo assolutamente sicuro di Ryan lo sconvolse e lo smosse nello stesso momento. Arrossì di botto alla frase quasi smielata dell’altro eppure non poté fare a meno di sorridere e di lasciarsi trascinare da quella neonata euforia che sembrava destinata a non finire.

 

“Allora portami con te, io verrò dovunque tu voglia andare”

 

E completamente bagnati, accarezzati e colpiti dalla pioggia che non cessava di cadere, finalmente si allontanarono dall’università, camminando lentamente mano nella mano.

 

 

 

 

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Quando Lear si svegliò, si trovò immediatamente a guardare gli occhi di Ryan. Sorrise mugugnando e strusciandosi contro il corpo caldo e nudo nel ragazzo. Il moro sorrise avvicinandosi con il volto alle sue labbra, cospargendole di mille piccoli baci.

“Che ore sono?”

 

Chiese Lear, la voce ancora impastata dal sonno.

 

“Appena le sei”

 

Il biondino sbadigliò, prima di accoccolarsi meglio contro l’altro, che gli lasciò lo spazio necessario per sistemarsi come preferiva.

 

“E tu sei già sveglio a quest’ora?” chiese ancora il più piccolo abbracciandogli i fianchi nudi e stringendosi nelle pesanti coperte, finendo per coprire anche l’altro.

 

“Credo di non aver proprio dormito”

“Credi?”

 

Chiese sorridendo e baciandogli il mento dove stava spuntando il primo accenno di barba mattutina. Ryan sorrise a sua volta passandogli una lunga carezza per la schiena. Lear rabbrividì al tocco dell’altro, socchiudendo appena gli occhi.

 

“Hai fatto come nei film, sei rimasto a guardarmi con gli occhi da pesce lesso tutta la notte?”

 

“Tu sì che sai come nutrire un’atmosfera romantica!”

 

Lear ridacchiò ricambiando il bacio che gli era stato prepotentemente chiesto e perdendocisi dentro per lunghi piacevolissimi minuti.

Quando si separarono lo sguardo di Ryan brillava come il pomeriggio precedente.

 

“Ho riflettuto”

 

Continuò poi seguitando a guardare le labbra del biondo. Lear trasalì appena spaventato dal significato che potevano avere quelle parole e ricordandosi che il tempo a loro disposizione era quasi finito.

 

“Voglio proporti un patto Lear”

 

Lear si voltò verso di lui stupito, girandosi completamente su un fianco per guardarlo negli occhi chiari.

 

“Un patto?”

 

L’altro assentì, passandogli una mano dietro la schiena per attirarlo nuovamente verso di se, costringendolo a reggersi per un gomito sul letto, quando decise di affondare la testa nell’incavo della sua spalla.

 

“Un anno, ti do un anno, se in questo tempo avrai trovato qualcosa o qualcuno che possa tenerti lontano da qui, che abbia il diritto di tenerti lontano da qui…”

 

Ryan raddrizzò il capo, alzandosi di scatto e costringendo Lear a stendersi sotto di se. Lear lo guardava senza capire, con gli occhi appena socchiusi dalla sorpresa di quel gesto repentino.

 

“…allora io lascerò perdere. Ma se ciò non sarà successo, allora ti verrò a prendere, ti verrò a prendere e ti riporterò qui da me, da noi, e non ti lascerò più andare via”

 

Lear trattenne il fiato. Lasciò che Ryan si allungasse sul suo corpo, lasciò che  arrivasse a guardargli negli occhi prima di rispondere appena tremante.

 

“Si, va bene”

 

Lo sussurrò incapace di alzare di più la voce tanto gli faceva male il petto. Ryan annuì e sorrise sicuro di se stesso e lo baciò ancora una volta, prima di dipingersi un sorrisetto furbo sulle labbra.

 

“I patti vanno stipulati”

 

Disse arrochendo la voce già bassa ed accarezzando piano il braccio di Lear.  L’altro sorrise passandogli una mano fra i lunghi capelli sciolti ed inarcandosi contro il suo corpo.

 

“E come avresti intenzione di fare?”

 

Lo provocò, offrendogli il collo che fu immediatamente attaccato dalla bocca dell’altro.

 

“Col sesso”

 

Lear sorrise ancora, gemendo alla lenta carezza che Ryan aveva donato ai suoi fianchi, mentre riprendeva ad occuparsi del suo collo riempiendolo di piccoli morsi e dolci lappate.

 

“Sei un maiale”

 

Disse Lear appena ansimante, già totalmente preso dalle attenzioni che l’altro gli stava dedicando.

 

“Guarda che lo so che è per questo che mi ami”

 

E mentre Lear si perdeva in una dolce risata, Ryan non poté fare a meno di notare che dopo una notte di tempesta, finalmente per le strade della città era spuntata una splendida alba.

 

 

'Cosa vuoi che ti dica io?

Senti che bel rumore…'

 

 

 

 

 

 

Note finali:

 

Se dovessi aver imparato qualcosa dalla volta precedente, adesso starei saltando di gioia, perché il lavoro non mi soddisfa per niente. Ma pazienza, dalla vita non si può ottenere tutto. Lavoro ultimato quasi di corsa, era tutto nella mia mente, ma le parole non sono mai venute abbastanza celermente fuori. Ma lasciamo perdere le mie lamentele e spieghiamo qualcosa.

Sally è una maledettissima canzone, perché soltanto una strofa ed una frase significa qualcosa, nell’insieme significano qualcosa di diverso. Focalizzarmi su una sola frase di Sally è stato difficile, perché per me questa canzone è l’inizio, il durante e la fine di una storia, una storia che dura si è no quattro minuti, ma che vale la pena di ascoltare ed imparare.

E poi la citazione scelta. Può significare talmente tante cose da stare male. Può significare che la vita è breve e stronza e rischiamo tutti di finire male, può significare che prima o poi a tutti toccherà andare di matto, può significare che la vita è breve ed ognuno di noi deve stare attento a non impazzire in quel poco tempo che ha.

In questa fan fiction io ho accorpato un po’ tutto, ma ho aggiunto il mio, senza un pizzico di avventatezza e di follia, non si arriva da nessuna parte. Perché se la vita è un brivido che vola via, allora la parola d’ordine della nostra esistenza dovrebbe essere ‘passione’ e passione spesso porta a follia.

 

Ci sono dei dovuti richiami al testo della canzone, nonostante la pioggia fosse una banalità non potevo non mettere quell’elemento ricorrente (senti  che fuori piove senti che bel rumore) così come non potevo non metterci dentro sensi di colpa, viaggi e  turbamenti, tutte parole che compaiono nella canzone originale.

Così cosa posso dire, involontariamente sono partita da una citazione e ci ho messo dentro riferimenti a tutta la canzone.

Spero che almeno sia stata una piacevole lettura.

IMPORTANTE: leggete le note iniziali!!

  
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