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Autore: ClaudiaSwan    22/05/2011    5 recensioni
Anno del signore 1263, Svezia. Il paese gode di una relativa pace sotto la corona di re Erik Knutsson, ma un improvviso e sospetto malore lo conduce al letto di morte in poco meno di tre giorni. Eredi discutibili si fanno avanti, e per l’ennesima volta il regno si trova a dover essere teatro della spietata lotta per il potere che ha visto più volte alternarsi la corona Sverker e la corona Erik su un trono che ancora non rappresenta la Svezia così come la conosciamo noi oggi.
Di tutto questo Robert sarà protagonista. Catapultato dal XXI secolo indietro di più di 700 anni, Robert si ritroverà a dover sopravvivere in un mondo che non ha nulla a che vedere con quello che rappresenta la sua quotidianità di attore. Improvvisandosi cavaliere errante, vincerà in un torneo la mano di fru Catherine, figlia dello jarl del regno e della stirpe Folkung, una delle schiatte più potenti e influenti della Svezia del XIII secolo, trovandosi di colpo nell’occhio del ciclone della lotta alla corona.
Spada alla mano e armatura addosso, un Robert in pieno stile Braveheart!
Una storia ispirata ai romanzi di Jan Guillou che spero possa incuriosirvi e appassionarvi
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo 2 Care lettrici, se siete ancora lì, buon pomeriggio. Se non ci siete più vi capisco. Mi odierei anche io. -.-“
Per questo ho deciso di pubblicare l’ultimo capitolo che in realtà tenevo da parte da più di 5 mesi, attendendo di finire il 3 (rimasto a metà).
Lo pubblico cogliendo l’occasione per raccontarvi cosa sta succedendo a me e alle mie storie, visto che ultimamente siamo latitanti qua sul sito.
Perché non aggiorno?... semplicemente perché non scrivo più. O almeno… provo a scrivere e cancello, o non porto mai alla fine quello che scrivo. Ho passato 6 mesi sentimentalmente tragici e tutte le storie che avevo in mente si sono congelate. Così “L’ultimo cavaliere” è rimasto fermo a metà de 3 capitolo, “tienimi” a metà del 5, “red dresses” non credo la finirò mai visto l’aura profetica di quella storia nei confronti della mia vita reale… per il resto c’è qualche one shot incompiuta nella mia cartella file, e una breve fan fiction in tema vampiresco ferma al 3 capitolo che non sa come andare avanti, oltre a varie scartoffie, tra cui la famosa Dramione che deve vedere ancora nascere il capitolo 2 anche se sugli appunti è praticamente finita. Questa è la situazione file.
So che nelle risposte alle recensioni e ai messaggi privati ho spesso risposto che avrei aggiornato, e credetemi… vorrei farlo sul serio. Ma davvero, è un periodo che non riesco proprio a scrivere. Avevo addirittura meditato di cancellarmi da sito, ma qualcuno più saggio e lungimirante, la mia Angioletta, mi ha fatto riflettere e sono ancora qui a occupare lo spazio di un account e qualche kbyte di un server. Spero di riuscire a finire, prima o poi, ogni storia. Ma per favore, non chiedetemi quando perché davvero non saprei dirvi.
Le poche energie creative devo spenderle in altro tipo di scrittura, cioè la tesi. Tra le altre cose sono molto impegnata con l’uni e la sera sono troppo stanca per riuscire a meditare scritture di qualsiasi altro genere.
Quanto alle letture, ho visto i consigli di lettura che mi date, e i vostri lavori che mi chiedete di leggere, ma per ora sto seguendo solo una ff. Non per qualcosa, ma il fatto che l’abbia iniziata da subito e l’aggiornamento arrivi con calma dopo molti giorni mi permette di seguirla con la dovuta attenzione. Alcune storie le ho inserite secondo la mia ripartizione mentale tra preferite e da ricordare e appena avrò tregua le leggerò certamente.
Ecco qua… questo è quanto.
Ho messo l’avviso qua perché ho tolto il blog dalla circolazione. Quando riprenderò a scrivere (perché prima o poi ci riuscirò perché la propria pelle, anche se ammaccata, si vende a caro prezzo) magari ne farò un altro.
Sperando di avervi fatto cosa gradita nonostante le minacce di morte e consapevole del fatto che forse non è questo il capitolo che proprio attendevate… spero di rivedervi presto.
Un bacio grande
 
Claudiaswan




 
 




Capitolo 2
 



A distanza di anni, qualcuno disse che lo jarl Birger Magnusson si era rivelato ancora una volta il degno erede del compianto Birger Brosa.
Entrambi avevano ottenuto la carica di jarl del regno molto giovani; entrambi erano abili uomini d’arme e astuti uomini d’affari; entrambi venuti fuori dallo stesso stelo nobile della stirpe di Bjalbo.
Quel qualcuno disse che i due jarl erano simili anche nella particolare intonazione della voce nelle discussioni che riguardavano faccende matrimoniali.
Se Birger Brosa aveva fatto tremare le mura del castello di Nas il giorno in cui suo nipote Arn Magnusson era venuto per pretendere la mano della sua amata Cecilia, Birger Magnusson aveva fatto sussultare i pesanti portoni di quercia della sala dei banchetti di Arnas.
Subito dopo aver scoperto il volto della presunta figlia, che poi si era rivelata essere la serva Suom, lo jarl aveva mantenuto la sua compostezza, non dando nemmeno la soddisfazione alla figlia ancora con l’elmo sottobraccio di vederlo diventare di un intenso rosso Sverker. Freddo e imperioso, aveva mantenuto il silenzio, scendendo dal palco e poi dirigendosi verso la sala dei banchetti, fermandosi solo per voltarsi un attimo e attendere che lo si seguisse. Ma una volta fatta sgombrare la sala e sigillata la porta d’ingresso, lo jarl scaricò tutta la sua rabbia in un malrovescio che colpì Catherine in pieno volto, facendola accasciare in terra come uno straccio.
- tu non hai idea del pasticcio in cui ci hai cacciati tutti!- tuonò osservando la figura della figlia.
- tu e tu sola sarai la causa del disonore e della rovina della nostra casa!- inveì ancora slacciandosi la spada dal fianco per lasciarla cadere rumorosamente sul tavolo.
A onor del vero, bisogna dire che Catherine non batté ciglio, non pianse e nemmeno si azzardò a guardare in volto il proprio padre mentre questi le scaricava addosso tutta la sua rabbia.
Birger Magnusson passò circa un’ora a gridare alle mura della sala di quanto il gesto della figlia fosse stato tanto sconsiderato quanto deleterio, di quanto ella fosse stata una stupida a dubitare delle decisioni del proprio padre quando nessuno nell’intera stirpe di Bjalbo, e nemmeno nelle file di mantelli blu degli Erik, avesse mai osato farlo. Le disse di come avesse disonorato non solo lui, ma anche due dei più forti cavalieri folkung del loro esercito, stracciati in un torneo da una donna che per di più aveva vinto scorrettamente. Le disse quanto tutto questo gli sarebbe costato in termini di amicizie, duelli per ristabilire l’onore, guerre e denaro.
Dal canto suo Catherine non ascoltava il proprio padre.
Si era isolata in un mondo tutto suo, come quando era bambina e pregava la Santa Madre di Dio di farla svegliare maschio, un giorno, per poter diventare un vero cavaliere come suo padre e i suoi nonni prima di lei. Per questo motivo i rimproveri dello jarl non riuscivano minimamente a scalfirla. Aveva passato tutta la vita ad essere consapevole del suo ruolo e a desiderarne un altro.
Sapeva tutto di come si organizzava un banchetto, di come si dovessero accogliere gli ospiti, di come dare diposizioni per la conservazione dei prosciutti salati e i tempi di cottura di qualsiasi carne che venisse frollata e appesa nelle loro ghiacciaie. Sarebbe stata in grado di essere una buona padrona di casa e una buona moglie.
Ma la vita di sua madre Ingeborg e quella delle mogli dei suoi fratelli non l’aveva mai affascinata tanto quella dei bambini che all’età di cinque anni venivano mandati in addestramento ai vari castelli per diventare dei cavalieri.
Ne aveva visti tanti entrare bambini piangenti e uscirne ragazzi fieri e con una spada alla cintola su splendidi stalloni corazzati, guardati con rispetto da tutti e pronti per fantastiche avventure. Una crociata, l’assedio di un castello, il corteo di una sposa che rischiava di essere rapita dai troll durante il suo viaggio verso la chiesa…
Una donna aveva una vita ben più monotona di quella di un uomo, e per quanto si sforzasse non riuscì mai a capire perché da lei, una donna, ci si aspettasse che tenesse acceso un camino e sfornasse figli per l’uomo che qualcun altro avrebbe scelto al suo posto. Perché una donna non poteva tendere un arco lungo in guerra? Le era concesso apprendere l’arte per tenersi in esercizio fisico, ma perché sprecare eventuali doti solo per il tiro a segno? Una donna non poteva forse essere in grado di brandire una spada come un uomo? Non poteva forse portare su di sé il peso di un’armatura? Non poteva essere forse libera di scegliere il proprio destino come un uomo?
Mentre suo padre la rimproverava con toni sempre più aspri, Catherine si rispose che una donna poteva fare tutto quello e anche di più, e che, scorrettezza o meno, era stata lei, una donna, a sconfiggere ben due cavalieri fatti e finiti. Scorrettezza o meno, se lei non fosse stata in grado di fare tutto ciò, non sarebbero stati disarcionati nemmeno se fossero corsi incontro alla sua lancia disarmati e senza elmo.
Non osava parlare, non osava quasi respirare di fronte al volto violaceo e iracondo del padre, perciò semplicemente attese che fosse lui a stancarsi, a sedersi su una panca, a poggiare fiaccamente un braccio sul tavolo e urlare un’ultima volta perché gli si portasse della birra. Dopo che quest’ultima si trovò in un boccale alla portata della sua mano, lo jarl si passò una mano sul volto stanco e pieno di cicatrici, ricordi di tante guerre vinte con la spada in mano per difendere tutto ciò che, a parer suo, Catherine aveva appena reso inutile con il suo folle e altrettanto inutile gesto.
- tu, stupida ragazzina, hai buttato al vento nel giro di una sola mattinata tutto quello per cui centinaia di uomini hanno lottato e perso la vita per anni- concluse tristemente prima di prendere un lungo sorso.
- perdonate, padre. Perdonate il mio gesto e le mie parole, se le cose stanno veramente come dite- sussurrò umile Catherine, non osando guardare altro che il pavimento.
- come sarebbe a dire “se le cose stanno veramente come dite”? Con chi credi di avere a che fare, ragazzina?!- tuonò lo jarl sbattendo sul tavolo il suo boccale e rovesciando sul ripiano una notevole quantità del suo contenuto.
- Con voi, che siete stato sempre un padre gentile e premuroso, ma di cui sinceramente fatico a comprendere la decisione di darmi sposa al vincitore di un torneo-
- sei mia figlia! Sei una folkung! Tu non devi capire. Devi solo adeguarti alle decisioni che tuo padre prende per te!-
- alle decisioni di mio padre o dello jarl del regno?-
Catherine era la quarta dei figli legittimi dello jarl e la sesta se si contavano anche il fratello e le due sorelle che aveva avuto da fru Signy fuori dal talamo nuziale. Sapeva molto bene con quanta sottomissione una figlia dovesse rivolgersi al proprio padre, quanta della sua personalità avrebbe dovuto sacrificare in sua presenza e con quanta umiltà dovesse evitare di guardarlo apertamente in viso durante una discussione. Ma ella era una fanciulla che non si era mai posta queste serie di limitazioni. Se c’era una cosa che sua nonna Ingrid Ylva avesse tenuto a trasmetterle più della conoscenza delle erbe e dei funghi, era la  caparbietà di non abbassare mai realmente il capo di fronte a un uomo, padre, fratello, marito o re che fosse.
- le mie decisioni! Come jarl e come padre!- sbraitò Birger jarl di nuovo rosso in volto.
- perdonate padre, ma la distinzione gioca un’importante differenza- continuò caparbia la giovane, senza smettere di guardare gli occhi neri del padre. - Come jarl… potrei rinunciare alla mia vittoria e inchinarmi al vostro volere. Come padre… ho vinto un torneo in cui era in palio la mia mano. Ho vinto la mia mano, ho vinto me stessa e la mia dote e come figlia emancipata, con una tenuta e dei beni, sono libera di amministrarli come meglio credo. O volete farmi credere che la parola di un folkung non è più il giuramento più garantito che possa essere prestato?-
- come osi parlarmi in questo modo? Come osi mettere in discussione le mie decisioni? Come osi rispondere di libertà, di proprietà e di giuramenti con me? Io sono tuo padre e tu farai ciò che ti viene ordinato! Da me che sono tuo padre, da me che sono il tuo jarl dei folkung e da me che sono tuo jarl del regno!-
- sappiamo entrambi che finirà così. Ma continuo a non capire -
- non devi capire!- gridò ancora lo jarl, che ormai cercava di esercitare un notevole controllo sulla sua persona per non alzare ancora una mano su sua figlia.- Hai disonorato me, la tua famiglia e la tua stessa stirpe. Hai disonorato tua madre, i tuoi fratelli, i tuoi cugini. Come ammenda dovresti rinchiuderti in convento ad espiare i tuoi peccati!-
- padre non avete mai creduto in queste cose, e voi meglio di me sapete come il rinchiudersi a recitare salmi e preghiere non abbia alcun effetto su ciò che accade nel mondo temporale-
- non è questo il punto!-
- perdonate, e qual è il punto?-
- piccola insolente e ingrata! Il punto è che preferiresti veder rotolare la tua testa in una cesta?-
- certo che no. E d’altra parte non vedo come la decapitazione possa salvare il vostro onore. Se i miei cugini si sentono tanto offesi nella loro virilità, che seguano le tradizioni e mi sfidino al duello o dovrò pensare che la mia morte servirà solo a lavare un onore fittizio- disse Catherine, calma come se stesse discorrendo di ricami con la sua dama di compagnia.
- cosa intendi dire?- chiese Birger Jarl tra i denti.
Conosceva i suoi figli. Sebbene fosse sempre stato preso dai suoi incarichi importanti, prima come solo jarl dei folkung e poi anche come jarl del re, non si poteva dire che fosse un padre assente.
Era stato lui a insegnare a cavalcare a Catherine, così come agli altri suoi figli. Sempre lui aveva insegnato a tutti loro a tendere un arco e ad usare anche l’elsa della spada come parte utile dell’arma nella difesa. Conosceva bene la tempra e il valore della sua progenie. Ma non conosceva nessuno di loro come Catherine.
La sua mente acuta, la lingua pronta e la calma con cui esponeva i suoi ragionamenti lo rendevano segretamente orgoglioso della propria creatura e il motivo che lo rendeva sì fiero era lo stesso che gli portava rammarico. Se fosse nata maschio sarebbe stata un ottimo jarl.
- intendo dire che ho dimostrato di essere un cavaliere di Forsvik quanto Edwar e quanto Eskil, padre. Che morirei per la colpa di essere brava quanto un uomo a imbracciare lancia e scudo. Se ho usato la scorrettezza negli ultimi assalti è stato perché ho ritenuto la mia vita più importante di un duello. Che io sappia, nessun folkung è mai stato giustiziato per essere in grado di montare, combattere, gareggiare e salvarsi. E non c’è nessuna legge che vieta alle donne di poter fare i soldati-
- lo vieta la decenza!- ribattè con vigore, ma meno convinto della sua posizione, lo jarl.
- la decenza non è la legge, padre. O devo dedurre che le lunghe nottate passate con vostro fratello, il langman Eskil, a parlare di come un regno giusto si regga sul terzo pilastro della legge fossero solo discorsi vani?-
Lo jarl rimase paralizzato nell’udire quelle parole, colto sul vivo in quello che riteneva fosse l’unico, ma anche il più cocente, fallimento della sua reggenza.
Legge. Una parola vuota in quel paese governato da codici d’onore e ordalia.
- se voi mi mandate a morte, o anche solo in un convento, padre, dimostrerete che la legge che cercate di far attecchire nel regno non vale più dello scritto di un bardo, perché sareste il primo ad aggirarla per i vostri scopi d’onore. A cosa servono i decreti sull’inviolabilità della casa, della donna… sulla separazione del potere temporale da quello spirituale, sul divieto della vendetta di sangue se voi permetterete che mi venga fatto questo torto?- continuò Catherine andando a inginocchiarsi davanti al proprio padre e prendendogli la mano nella sua.
- sei proprio nipote di tua nonna Ingrid, figlia mia. E di mia nonna Cecilia. Non fossi certo del tuo albero genealogico, direi che anche la regina Blanka e Ulvhide Emundsdotter hanno concorso alla tua nascita- disse lo jarl completamente impotente davanti alla dolcezza disarmante della figlia.
- essere la nipote di due delle quattro vedove che hanno retto di fatto il regno dopo Gestilren ha avuto certamente la sua influenza sulla mia tempra, padre, così come sulla vostra- rispose ella con un mezzo sorriso furbo.
- già. Ciò non toglie che tu abbia combinato un grosso guaio cui non sarà facile porre rimedio-
Non era facile porre rimedio no. Per quanto disprezzasse la cosa, l’onore era una legge che voleva essere rispettata sopra ogni cosa in quella terra. Per quanto disprezzasse la cosa, quel codice tramandato di padre in figlio, di generazione in generazione, pretendeva che si rispettasse qualsiasi promessa fatta, che si adempissero tutti gli obblighi, che si vendicassero tutti gli oltraggi e che si mantenesse coerenza nelle proprie decisioni importanti. Che non si chiedesse di poter cambiare le carte se Dio stesso, o la beata Vergine, o la fortuna, o chi per loro avesse voltato le spalle e dispensato sventura.
- posso chiedervi, padre, il motivo di tutto questo? Perché dare la mia mano al vincitore di un torneo e non ad un altro Erik? Se non sbaglio, i vostri piani erano quelli di arrivare alla corona con un’attenta politica matrimoniale. A che scopo farmi sposare un uomo che non amo e che per di più non sarebbe utile alla nostra causa?
- ci sono dei rivoltosi che stanno incendiando e devastando tutte le tenute che trovano sul loro cammino nell’Ostergotland. Per ora hanno avuto la saggezza di non attaccare i nostri possedimenti, ma i nostri colori non potranno tenerli lontano ancora a lungo. Quel che è peggio è che non sappiamo se agiscono sotto un’insegna e se la risposta fosse si non sappiamo di quale si tratti. Noi Folkung dobbiamo salvaguardare noi stessi prima ancora del re in questa faccenda-
Lo jarl fece un pausa, passandosi una mano sugli occhi con aria stanca. Tutti gli anni di lotta al potere, di alleanze e disfatte, di guerre… avevano fatto sì che si sentisse molto più vecchio e affaticato di quanto il suo fisico suggerisse agli occhi. La corporatura robusta e asciutta, temprata da ore di lavoro di spada e di coltello, nascondevano un uomo che si sentiva di aver vissuto ben più dei suoi cinquantatre anni. E le decisioni che andavano prese per far fronte alla nuova minaccia che gravava severa come una spada di Damocle sulla sua famiglia non faceva che aggiungere altri anni alle sue spalle.
- Il tuo matrimonio sarebbe servito a proteggere Forsvik. Mia zia Alde ha ottenuto Lena quando ha sposato herr Sigurd, e nessuno meglio di me sa quanto un uomo come Sigurd e i suoi figli sarebbero degni di Forsvik. Per eredità la guarnigione è finita a noi, Catherine, ma io sono sempre a Bjalbo, a Nas ed Arnas, non ho tempo di guardare Forsvik. I tuoi fratelli fanno tutti parte del consiglio del re e Forsvik… non avrebbe un valido capo in caso di attacco.-
- non potevate semplicemente cederla a herr Sigurd? Se pensate che sia il migliore… non potreste…?-
- no, figlia mia. Non posso. Non accetterebbe. Sigurd è un uomo d’onore, così come lo sono io. Non accetterebbe mai una tenuta da me senza nulla in cambio-
- ma avete detto voi che è molto legato a Forsvik! Avete detto voi che era casa di sua moglie!-
- l’ho detto. Ma abbiamo dei vecchi rancori che ci separano, Catherine. Non possono essere messi da parte così, nemmeno se si tratta di Forsvik. Se non l’avessi messa in palio come tua dote non si sarebbe fatto avanti a reclamarla-
A parte sua madre Ingrid Ylva, nessuno sapeva quale fosse l’origine di suddetti “vecchi rancori”. Tutto era avvenuto quando era solo un ragazzo al matrimonio di sua zia Alde, sua coetanea e compagna di studi nell’infanzia, con il cavaliere ancora senza terra Sigurd di Forsvik.
Tutti quanti, compreso lo stesso Sigurd, attribuivano il motivo di tutto quell’astio a una battuta infelice lanciata con disprezzo dall’allora poco più che adolescente e ubriaco Birger all’indirizzo dello sposo, deridendo le sue origini di servo davanti a tutti i suoi ospiti, cogliendo consapevolmente il suo punto debole. Per quanto nessuno gli diede importanza perché ciò che contava era l’impresa con cui herr Sigurd, maestro d’armi a Forsvik, si era guadagnato gli speroni d’oro di cavaliere, l’avvenimento raggelò i rapporti tra Birger e il suo insegnante. Nessuno, a parte Ingrid Ylva, seppe mai il motivo per cui Birger sputò quelle parole velenose a un banchetto di nozze. Nessuno seppe mai del profondo amore che nutriva per la giovane Alde, bollato dalla morale cristiana come incestuoso. E non era il caso di tirarlo fuori in quel momento, né davanti a sua figlia, né come pretesto per riconciliarsi con Sir Sigurd ed evitare vendette d’onore da parte dei suoi figli.
- e se Edwar o Eskil avessero vinto…?- domandò Catherine, riscotendolo dal piccolo tuffo nel passato.
- saresti andata in sposa a uno di loro due, si-
- ma…-
- i matrimoni tra cugini sono approvati da tempo dalla Santa Sede. È una faccenda più comune di quanto tu possa immaginare- rispose meccanicamente lo jarl, allontanando i suoi pensieri dalla conversazione per studiare la linea di condotta che avrebbe provocato meno danni.
- e se si fossero presentati altri folkung a tentare l’impresa?-
- non li avrebbero sconfitti-
- io li ho sconfitti, padre. Entrambi-
- tu hai giocato sporco, figlia mia. Nessun vero cavaliere di Forsvik avrebbe osato fare quello che hai fatto tu-
- dunque? Cosa ne sarà di me? Cosa intendete fare del mio matrimonio e della mia vita?-
Birger Magnusson guardò il volto di sua figlia. Aveva preso i lineamenti dolci da sua madre, così come la profondità dei suoi occhi grigi, caratteristici della stirpe degli erik dei quali quest’ultima era discendente diretta. Ma i capelli fulvi, l’espressione sicura, la dote del saper parlare fino a piegare il discorso ai propri desideri, quella era un’eredità solo sua. Sangue folkung e sangue erik correva nelle vene di quella fanciulla in un connubio che dire perfetto era un’eresia. Era un vero e proprio miracolo. Il meglio di entrambe le stirpi concentrate in un unico essere. Se solo fosse stata un uomo.
- andrai sposa al secondo classificato. A quello straniero -
- padre, ma avete appena detto che…-
- non posso darti in sposa adesso a uno dei tuoi cugini, Catherine. Si sentirebbero offesi e sviliti. Si sentirebbero come se avessero ricevuto un risarcimento e non una vittoria e questo non farebbe che approfondire ancora di più la frattura tra me ed herr Sigurd, e solo Dio sa quanto questo peggiorerebbe ulteriormente la nostra posizione ora che dobbiamo stare uniti più che mai. Dovrai sposare lo straniero -
- e che ne sarà di Forsvik?-
- non posso rimangiarmi la parola data, figlia mia. La tua punizione paradossalmente sarà diventare signora di Forsvik, proteggerla come farebbe un uomo e amministrarla con la stessa dovizia di tua nonna Cecilia. Per paradosso, ti devo dare ciò che hai vinto- sentenziò lo jarl, rendendo la sua figlia più cara più vicina a un uomo di quanto ella avrebbe mai potuto essere.
 
***
 
Da quando re Erik aveva preso la corona e la battaglia di Gestilren aveva sancito il suo diritto a portarla sul capo, i matrimoni furono più che abbondanti lì nel lontano Vastergotland. Quasi tutte le tenute del regno, dopo il periodo del lutto osservato in memoria dei propri morti, caduti coraggiosamente sotto il vessillo dell’erik, cercarono felicità e rinnovamento nel combinare sposalizi e preparare banchetti. Ci fu quello di Sune Folkesson con Helena Sverkerson, che si ricordava più per l’imponenza dello squadrone di cavalleria che accompagnò lo sposo a reclamare la sua promessa davanti alle mura del convento di Gudhem che non per le nozze in sè. Ci fu quello di Alde Arnsdotter e di Sir Sigurd di Forsvik, che raccolse così tanti invitati affezionati agli sposi da necessitare di ben tre sale dei banchetti per accoglierli tutti quanti. Ci fu quello del re Erik Knutsson con la sorella del re danese Valdemar, Rikissa, che passò alla storia per il corteo di tutto rispetto che accompagnò la futura regina al castello di Nas.
Ci furono molti matrimoni che si distinsero per qualche particolare capace di far sospirare i cuori più romantici e strappare almeno un sorriso a quelli più cinici.
Quello di Catherine Birgersdotter con Sir Robert Thomas Pattinson da Barnes passò alla storia senz’altro come il più curioso di tutti.
Nessuno osò obbiettare alcunché quando uno scarmigliato e stanco jarl si arrampicò sul suo palco d’onore davanti all’arena e chiamò il secondo classificato del torneo davanti a sé. Nessuno osò lasciar sfuggire nemmeno un lamento scontento quando lo stesso jarl posò la mano di sua figlia, ancora abbigliata dell’usbergo e della cotta d’arme dei colori e con i simboli della sua stirpe, su quella dello straniero. Nessuno, proprio nessuno, osò lasciarsi andare a manifestazioni di delusione di qualsiasi genere e specie quando annunciò a gran voce del banchetto di fidanzamento che si sarebbe tenuto quella sera stessa.
Non che non ve ne fosse di delusione, o perlomeno di perplessità, ma tutti quanti avevano almeno una buona ragione per tacere. La più forte e la più convincente di tutte era senz’altro quella che riguardava la fiducia che l’intero regno riponeva in Birger Magnusson.
Non una decisione presa senza essere adeguatamente soppesata, non un passo falso compiuto tenendo un conto accurato di tutte le conseguenze che esso avrebbe comportato. Non un solo gesto di pietà verso i propri familiari nel caso in cui le azioni di costoro minacciassero la pace.
Fu la fiducia nella sua saggezza a dissuadere i figli di herr Sigurd a cercare di vendicare l’onore oltraggiato (che poi si disse non lo fosse realmente in quanto erano stati battuti con la scorrettezza); fu il timore di aizzare le ire del folkung a fare allontanare lo sverker, che, sebbene fosse stato sconfitto dal secondo classificato in una tornata diversa da quella della damigella, avrebbe voluto vedere invalidato l’intero torneo; fu semplicemente la consapevolezza di non avere in realtà nulla a che fare con quella stirpe che fece allontanare tutti gli altri.
In tutto questo, Robert era rimasto impassibile.
Solo lo sguardo attento di Sigge e quello sospettoso di Ingrid Ylva percepirono l’ansia che celava il volto apparentemente calmo e rilassato del ragazzo mentre entrava nella salata dei banchetti decorata di ramoscelli di sorbo.
Ansia che restava trasfigurata dall’impassibilità anche quando fu accompagnato al tavolo d’onore e fatto accomodare accanto alla sua promessa, alla sinistra della quale sedeva una schiera di dodici fanciulle.
Nella fine camicia di lino bianco, il farsetto di pregiato velluto nero e le calzebraghe accuratamente infilate nei morbidi stivali di pelle della migliore fattura, Robert non si differenziava particolarmente dai dodici uomini seduti alla sua destra sul palco. Certo, praticamente tutte le donne della sala non facevano che occhieggiarlo, incuriosite e affascinate da quel cavaliere tanto timido quanto bello che, pugni serrati sul tavolo, guardava fisso davanti a sé con i suoi splendidi occhi azzurro cielo. Persino la zazzera castano dorata tutta scompigliata che portava con disinvoltura era motivo di curiosità, più che giustificata dal fatto che il quell’angolo di mondo solo i servi portavano i capelli corti mentre i signori usavano portarli sciolti e lunghi appena sotto le spalle. Robert continuava a mostrarsi impassibile.
Non batté ciglio all’entrata dello jarl e della sua consorte, che andarono a prendere posto ai loro soliti scranni poco più in basso del tavolo dei fidanzati. Restò pressoché immobile quando la madre della fidanzata tornò ad alzarsi ed avanzare nella sua direzione posando sulla sua testa e su quella di Catherine una corona intrecciata di rametti di sorbo, com’era tradizione. Abbandonò la sua posa rigida solo dopo che lo jarl diede inizio alla festa, bevendo dal corno di famiglia e invitando i suoi ospiti a godere del buon cibo e dell’ottima birra che sarebbero stati serviti in abbondanza.
Aveva rivissuto più e più volte nella sua mente il momento della sua sconfitta, guardando con gli occhi dell’immaginazione la sua ultima caduta da cavallo come se non fosse lui il cavaliere tossicchiante e disteso sulla schiena sulla terra battuta dell’arena. Era più che cosciente del fatto che la dea fortuna quel giorno doveva avergli voltato le spalle di proposito poiché la sua caduta poteva considerarsi solo come un suo capriccio. Più ripensava all’ultimo assalto, più si rendeva conto di questa verità. Il suo avversario si era inarcato e disteso sul dorso del suo cavallo incassando il colpo e se non fosse stato per i piedi ben piantati nelle staffe sarebbe certamente caduto a terra come lui. Aveva perso.
E proprio perché aveva perso non riusciva a capacitarsi della sua presenza a quel tavolo. Era stato facile accettare la sconfitta, ma quella strana vittoria era davvero difficile da capire per lui.
Si era ritrovato inspiegabilmente a tenere la mano della sua futura sposa davanti a un pubblico muto, poi ad essere trasferito dalla sua tenda alla sala d’armi del castello, allestita per l’occasione a fungere da dormitorio per i cavalieri stranieri giunti in occasione del torneo e che avrebbero partecipato al banchetto della sera. Solo un ragazzo molto alto e snello dalla folta chioma bionda e gli occhi scuri, di cui ignorava tuttora il nome, gli aveva rivolto amichevolmente la parola mentre sistemava i suoi abiti da cerimonia sul letto accanto al suo, mentre tutti gli altri ordinavano in silenzio i propri effetti personali. E quello stesso ragazzo era l’unica faccia familiare al suo tavolo, cosa che lo metteva ancora più a disagio.
A voler essere franchi, non sarebbe potuta andargli meglio di così, ma persino nella sua rediviva fortuna sfacciata Robert ebbe il buonsenso di preoccuparsi. C’era sempre un secondo fine dietro un matrimonio e quello che lo turbava era il non sapere di che gioco era diventato una pedina.
Forse era quel timore che gli aveva impedito e continuava a impedirgli di non far vagare nemmeno un secondo lo sguardo su Catherine: avrebbe potuto leggere il suo destino negli occhi di lei.
- Sir Robert Pattinson, giusto?-
Come sentì il suo nome, Robert si rianimò dal suo stato di semitrance accorgendosi delle portate fumanti che erano apparse quasi per magia sul tavolo e che richiedevano che lui estraesse immediatamente il pugnale dalla cintola e vi facesse onore.
A parlare era stata una graziosa damigella, seduta proprio accanto a quella che era a tutti gli effetti la sua fidanzata, nonostante egli non avesse alzato nemmeno una volta lo sguardo su di lei da quando si era seduti. Aveva setosi capelli castani boccoluti che ricadevano gentilmente sulle esili spalle, striati di quando in quando da ciocche leggermente più chiare, e profondi occhi nocciola che rivelavano tutta la sua dolcezza, ma anche tutta la sua sagacia. O almeno, a questo fecero pensare ad un primo sguardo estraneo di Robert che voltò il capo nella sua direzione, attento a non guardare fru Catherine, e si mise in ascolto.
- perdonate la mia sfacciataggine, ma ho saputo che siete inglese e non ho saputo trattenermi. È così difficile trovare un compatriota da queste parti - disse la ragazza in tono amabile.
- immagino, milady. Io stesso in quattro anni di permanenza in questo paese non ho incontrato nessuno che venisse dalla mia madrepatria. Di dove siete voi?- chiese Robert educato, sentendo la tensione sciogliersi un po’ mentre sorseggiava distrattamente dal suo boccale di birra.
- da Thurso, nell’estremo nord dell’isola-
A Robert ci volle qualche secondo per fare mente locale. L’estremo nord dell’isola era territorio scozzese, e questo non faceva propriamente di lei un’inglese. Stessa regina, ma comunque una nazione a parte. Poi si ricordò del fatto che a quel tempo William Wallace doveva ancora nascere, e ciò faceva della sua commensale una compatriota a tutti gli effetti. Come si sarebbe offeso Mel Gibson se avesse considerato inglese la ragazza!
- e voi? da Barnes?-
- si, è vicino Londra -
- non proprio vicini di casa, dunque. Perdonate, non mi sono presentata. Mi chiamo Elizabeth. Haraldsdotter-
- Harald non è un nome inglese-
- in effetti no, sir. È mia madre a essere inglese. Mio padre è lo jarl norvegese Harald Oysteynsson-
- e siete mai stata in Inghilterra?-
- vi ho passato la mia infanzia e parte della mia adolescenza, sir. Non so se rimpiangere le piogge inglesi o maledire le nevi del Vastergotland-
- non è una scelta facile, in effetti-
Non si soffermò a osservarla, anche se sentiva gli occhi della fanciulla su di sé come se volessero scandagliarlo millimetro per millimetro alla ricerca di qualcosa. Si concentrò, invece, sulla generosa porzione di agnello arrosto con timo e altre erbe aromatiche che il suo vicino gli aveva messo nel piatto ridendo della sua indecisione nel servirsi autonomamente. Per quanto lui e Sigge si fossero esercitati e avessero preparato tutto nel dettaglio in caso di vittoria, a parte che nel vestito non si sentiva affatto a proprio agio in nulla. Era troppa l’etichetta che non conosceva perché Jan Guillou non vi si era mai soffermato abbastanza. Aveva solo capito che gli uomini in quell’angolo di mondo, in genere, mangiavano e bevevano fino a scoppiare per onorare l’ospitalità loro offerta, ma quella regola valeva anche nella casa di Birger Magnusson?
Fortunatamente il suo vicino di letto intervenne a toglierlo dall’imbarazzo, servendogli un cosciotto succulento nel piatto mentre lui era occupato a parlare con la damigella.
Con calma estrasse il suo coltello dalla cintola e, prima di utilizzarlo per tagliare una fetta di quella carne profumata, lo pulì con cura su uno dei panni di lino messi a disposizione di ogni commensale.
Ecco, se c’era una cosa che gli mancava del suo tempo erano le posate.
Stava giusto per portarsi un secondo boccone d’agnello alla bocca, quando lady Elisabeth tornò a rivolgergli la parola.
- avete detto che siete qui solo da quattro anni?-
- si, milady, l’ho detto- rispose lasciando perdere il boccone ancora in bilico sulla punta della sua lama.
- e che notizie portate dalla nostra madrepatria?-
Se c’erano due cose che gli mancavano del suo tempo, erano le posate e i libri di storia.
Per guadagnare tempo nella risposta, Robert si cacciò un pezzo enorme di agnello in bocca e iniziò a masticarlo lentamente. Quel che sapeva di storia medievale inglese aveva solo a che fare con Re Riccardo, dopodiché aveva un buco nero al posto della memoria fino al giungere di Enrico VIII. E tutto quel che sapeva di Re Riccardo lo doveva a Robin Hood e a poche righe lette nel secondo volume della saga nella quale si era ritrovato a dover vivere.
In effetti, a volerci riflettere, non si capacitava della sua ignoranza in materia. La sua passione per miti e leggende medievali avrebbe dovuto portarlo a interessarsi principalmente della storia del suo stesso paese, per antonomasia ricca di storie su cavalieri, draghi e quant’altro ma le sue conoscenze si limitavano alla storia di Artù Pendragon, della strega Morgana, del druido Merlino e di Excalibur. Se mai fosse tornato  a casa, quella era certamente una lacuna a cui doveva porre rimedio. Nel frattempo avrebbe dovuto arrangiarsi con il principe dei ladri, sperando che nei circa cinquant’anni trascorsi dalle notizie portate da Arn Magnusson in persona dalla Terrasanta la situazione inglese fosse rimasta pressoché immutata. Speranza ovviamente vana già dall’inizio.
- beh… le notizie che ho non sono molte in effetti…- tergiversò cercando di scegliere tra la versione cinematografica di Russel Crowe e quella di Kevin Kostner, deciso a tirare a indovinare. Difficile scelta. Nel primo Re Riccardo muore durante un assedio e nel secondo torna in patria. Riccardo vivo o morto? Scelta difficilissima.
Dando fiducia all’ultimo arrivato e più anticonformista Robin Hood, Robert si buttò su Russel Crowe, lasciando che Re Riccardo si suicidasse lanciandosi all’attacco dritto dentro un nugolo di frecce che cadevano dai bastioni di una roccaforte.
Se c’erano tre cose che gli mancavano del suo tempo, erano le posate, i libri di storia e Wikipedia.
- quando sono partito il principe Giovanni aveva appena usurpato il trono di suo fratello Riccardo, ma di più non so. Come ho detto, non ho più incontrato alcun conterraneo a parte voi- rispose evasivo concentrandosi sul suo piatto, sicuro del fatto che prima o poi Giovanni senza Terra su quel trono ci sarebbe salito. Lo diceva anche la Disney!
- mmm… si, ne ho sentito parlare. In ogni caso questa storia è morta con lui. Dovete avere di certo un’età notevole, Sir. Siete per caso una sorta di creatura leggendaria?- osservò ella piluccando distrattamente dal suo piatto mentre, accanto a lei, fru Catherine non riuscì a trattenersi dal nascondere un sorriso con il dorso della mano.
- come prego?- rantolò Robert quasi soffocandosi con la birra che stava sorseggiando.
- nulla - ridacchiò lady Elizabeth asciugandosi le labbra con il tovagliolo di lino prima di bere dal suo bicchiere.
- Lissy non essere maleducata - la rimbrottò con un mezzo sorriso Catherine.
- non sono maleducata, Cath. Faccio solo conversazione-
Robert non ne era del tutto sicuro, ma qualcosa gli faceva intuire che aveva scelto la versione di Robin Hood sbagliata. Ecco, lo sapeva nel profondo che doveva dare retta a Kevin Kostner!
La fortuna gli aveva voltato le spalle per l’ennesima volta nella stessa giornata, lasciandolo in compagnia di un feroce mal di testa, una mezza crisi di panico e seri problemi respiratori, sintomi tipici che si presentavano ogniqualvolta si trovasse a dover affrontare i postumi di quella che nel ventunesimo secolo si usava definire una “figura di merda”.
Diventato rosso dall’imbarazzo fino alla punta dei capelli, preoccupato dell’onere di scavarsi la fossa e seppellirvisi dalla vergogna, Robert in un primo momento non si accorse dello sguardo indagatore di fru Catherine. Solo quando per sbaglio urtò il suo braccio e farfugliò delle scuse insensate si rese conto di un paio di occhi grigi che cercavano di carpire i suoi. Luminosi e bellissimi ma totalmente impenetrabili, lo fissavano senza lasciar trapelare nemmeno per errore lo scopo dell’osservazione che stavano conducendo con così tanta attenzione. Tutto quello che Robert poteva fare era stare fermo, immobile. Esattamente come lo tratteneva quello sguardo argenteo che gli dava la sensazione di esser investigato fin nell’intimo. Si sentiva nudo davanti all’algido portamento di quella che sarebbe diventata la sua signora entro un paio d’ore.
Per un attimo, un solo attimo, ebbe l’impressione di esser stato scoperto e nulla sul viso di lei gli diede modo di non pensarlo.
Fu un minuto lunghissimo quello che tenne legati i loro sguardi, prima che la connessione venisse sciolta da un improvviso suonare di tamburelli e battere di mani.
La osservò alzarsi rigida e impostata, elegante nel suo raffinato abito di velluto verde scuro, per seguire giù dal palco lady Elizabeth e le altre undici fanciulle fuori dalla sala. Senza perdere contegno, fru Catherine attese che le sue damigelle accettassero delle coroncine simili alla sua ma decorate con bacche rosse e che se le appuntassero sul capo, prima di seguirle nel freddo della notte fuori dalla sala del banchetto.
- ehi, inglese. Sono passati quarantasette anni da quando Giovanni non è più sul trono. Sei rimasto un po’ indietro con le cronache o sbaglio?-
A parlare era stata la voce del suo vicino che lo stava osservando divertito dietro una ciocca scomposta di capelli biondi che gli ricadevano sul volto. Sempre sorridendo, alzò il boccale di birra nella sua direzione e bevve alla sua salute.
Se c’erano quattro cose che gli mancavano del suo tempo, erano le posate, i libri di storia, Wikipedia e gli ansiolitici.
 

 
 
 
Re Riccardo Cuor di Leone
Robin Hood con Russel Crowe
Robin Hood con Kevin Kostner


Per chi fosse interessato a capire gli antefatti della storia che sto scrivendo, vi avviso che esiste un film "Arn, l'ultimo cavaliere"... lo trovate in streaming. 
   
 
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