Amori
e Dissapori
Bella
Mi
ero preparata con grande, anzi immenso anticipo: non volevo lasciare
niente al
caso.
Avevo persino puntato due
sveglie a un
intervallo di cinque minuti l'una dall'altra, ed entrambe avevano
suonato al
momento giusto.
Alice
Brandon Cullen aveva mantenuto la promessa, e mi aveva salvato la vita
e la
salute mentale offrendomi un lavoro al Ritz una famosa catena di
ristoranti
chic, eleganti e lussuosi della sua famiglia. Lavoro duro, ma grosse
mance.
Non era il giorno adatto per
girarmi e
rimettermi a dormire, insomma.
L'autobus
arrivò incredibilmente in orario e mi lasciò ad
appena due minuti a
piedi
dal classico edificio in ricco stile georgiano dove cinquant'anni prima
avevano
aperto il primo, favoloso ristorante. Per una volta nella vita, era
andato
tutto secondo i piani.
C'era
pure il sole.
"Scusi?"
mi voltai e vidi una madre esausta, intralciata da un bambino di tre
anni, un
bebè e un passeggino, che si divincolava per scendere
dall'autobus. "Mi
darebbe una mano, per favore?"
Con
un'espressione che diceva ‘oggi niente può andarmi
storto’, presi il passeggino
e feci scattare l'apertura, come avevo fatto centinaia di altre volte
quando
dovevo badare ai figli dei miei amici.
Ma
il passeggino non si limitò ad aprirsi: spalancò
le fauci come una tigre affamata,
e... assaggiò un pezzo dei miei collant. Appena mi chinai
per constatare il
danno, il piccolo marmocchio di tre anni mi spalmò
generosamente addosso il
biscotto che stava masticando: una grossa macchia beige
si materializzò sulla giacca.
Avevo
già perso l'equilibrio, quando una motocicletta
sfiorò il marciapiede per
evitare il traffico e completò l'opera buttandomi per terra.
Poteva
andare peggio... no?
Dopotutto
potevo finire sotto un autobus.
Non
tutto era perduto, pensai mentre mi ricomponevo. Ero in anticipo,
quindi con un
po' di fortuna sarei riuscita a sgattaiolare nel bagno del personale,
pulirmi e
mettermi il paio di collant di ricambio che avevo infilato nella borsa
per puro
caso, prima che mi vedesse il signor Cullen. Raccolsi una ciocca di
capelli che
era uscita dalla forcina e la fissai dietro l'orecchio, poi suonai il
campanello sul cancello di ferro battuto dell'entrata posteriore;
dall'interno
qualcuno mi aprì.
Solo
allora realizzai la verità che avrei dovuto capire nel
momento in cui il passeggino
m'aveva aggredita: la mia fortuna era rimasta sull'autobus, come un
ombrello
dimenticato. Una mancanza di cui non ci si accorge fin quando non
scoppia a
piovere. E ora ne avevo proprio bisogno.
Il
sole splendeva, adesso. Ma quando l'uomo che mi sbarrava la strada
verso il
bagno si voltò, avrei giurato di aver sentito lo scoppio di
un tuono.
Forse
perché aveva una somiglianza più che vaga col
diavolo in persona.
Aveva
una massa di folti
capelli, di un rosso
luminoso, il naso diceva che i suoi antenati un giorno avevano dominato
il
mondo intero. Aveva delle sopracciglia altezzose, scure e dritte, ma
neanche la
curva sensuale del labbro inferiore riusciva a cancellare l'impressione
che
fosse molto più
abituato
a dare ordini piuttosto che riceverli.
Gli
mancavano un paio di corna, anche se dei capelli così folti
sarebbero riusciti
a nascondere.
Gli
occhi, che avevano il colore dell’erba in fiore, potevano
addolcire un po' la sua
espressione, ma in quel momento mi stavano squadrando con un lungo
sguardo critico
che passò dalle calze bucate alla macchia di biscotto che mi
decorava il seno
sinistro; fino ai capelli, che sentivo sfuggire da tutte le parti dalle
forcine
allentate dalla caduta.
"Bella
Swan" disse in fretta, prima che lui potesse dare voce a quelli che
chiaramente
erano i suoi pensieri. Lo guardai dritto negli occhi e gli diedi la
mano con
l'aria di una donna che, nonostante l'apparenza, sa il fatto suo. Ma
lui non la
strinse, la ignorò completamente.
Saggia
mossa, pensai rendendomi conto solo allora che nel tentativo di
salvarmi avevo
messo la mano in una chiazza d'olio.
"È
il mio primo giorno" aggiunsi con meno sicurezza di qualche attimo
prima.
"No,
signorina Swan, non credo proprio" rispose accennando al mio aspetto
con
un leggero movimento della mano.
Per
un attimo rimasi incantata dal delicato e sensuale accento di lui, che
avrebbe
convinto chiunque a fare qualsiasi cosa. Poi compresi che cosa aveva
detto in
realtà.
No?
Come
no?
Non avevo intenzione di
darmi per vinta, e
permettere a quel demone con le gambe lunghe di mandarmi via senza
neanche darmi
la possibilità di spiegarmi. Quel lavoro era troppo
importante, era
l'opportunità per rimettermi in piedi e dimostrare alla mia famiglia che non ero una
fallita
senza
speranza. Una chance per ricominciare a vivere.
Mi giunse all'orecchio il
suono familiare di una
cucina che si preparava a servire centinaia di clienti e, buttando
là un nome,
dissi: "Alice Cullen può garantire per me"
Alice
era lo chef del Ritz; ci eravamo conosciute quando era stata invitata a
tenere
un seminario alla scuola di ristorazione. Io non
partecipavo alla lezione: ero stata
esclusa per via di un pasticcio che avevo combinato con una scultura di
ghiaccio, ma avevo trovato Alice nel bagno degli studenti che vomitava
dal nervosismo.
Dopo averle portato del ginger ale, l'avevo distratta raccontandole una
storiella: Alice avevo riso così tanto che aveva deciso di
portarmi con sé in
classe come sua assistente, cosa che lasciò il direttore
impotente di fronte al
fatto compiuto.
"Oppure
può chiamare il signor Jasper. Il colloquio l'ho fatto con
lui" continuai
pensando che a quel punto della giornata Alice doveva già
averne fin sopra i
capelli di me.
"Il
signor Jasper è
fuori per lavoro ed
Alice è presso una convention: organizza il banchetto per il
presidente."
Come
a dire: cosa mi faceva pensare che uno dei due avesse tempo da perdere
per togliere
le castagne dal fuoco per me?
"Emmett
Cullen è nel suo ufficio. Forse preferisce avere questa
conversazione con
lui", mi propose con una punta di perfido divertimento.
"No!"
avevo conosciuto Emmett quando ero venuta per il colloquio: era
spaventoso.
Tutto il contrario di suo fratello, che aveva un debole per i
sorrisini.
"No, sono sicura che è impegnato."
"Allora
mi dispiace, signorina Swan, ma ci sono rimasto solo io."
Okay.
Se hai soltanto limoni, l'unica cosa che puoi fare è una
limonata,
dicono.
Provai con un "sorrisino": "E lei è?"
"Edward
Mansen. Non sarò un Cullen, ma il signor Jasper Cullen
è mio cugino. Questo fa
di me un'alternativa accettabile?"
Seducente
sarcasmo, pensai, ma allora non era semplicemente un cameriere
arrogante con
un'ansia di potere. E neanche il direttore di un ristorante con
un'ansia di
potere.
Era della famiglia.
"Per
il pranzo di oggi dirigo io questo ristorante" continuò lui
senza neanche aspettare
che facessi un cenno di conferma. "E lei, signorina Swan, è
in uno stato
inadeguato persino per pulire il pavimento, figuriamoci servire a
tavola i
clienti che abbiamo qui!"
"Signor
Mansen... Edward" dissi facendo
appello a tutte le mie risorse e ricominciando a sfoderare il sorriso
che aveva
funzionato così bene con Jasper Cullen. Poi, con un ampio
gesto che abbracciò
il mio aspetto inzaccherato, mi rivolsi al senso di fair play
dell'uomo.
“Non
crederà che di solito esco di casa così, vero?"
"Non
è questo il punto" rispose lui, sempre più
irremovibile.
"Invece
sì!" protestai scattando. In effetti, ammisi subito dopo
,aveva ragione
lui.
"Be',
no... non lo è, ma ho avuto un incidente."
La
fronte di lui si corrugò e le sopracciglia si abbassarono
verso il centro, enfatizzando
l'espressione da diavolo e concentrando l'attenzione sui suoi occhi. Mi accorsi in quel momento
che erano solcati
da lampeggianti striature dorate.
"Che
incidente? È ferita?"
"Ferita?
Oh, no..."
La
domanda mi provocò un sincero sorriso di sorpresa: in fondo,
anche lui era
umano.
"Ho
solo litigato con un passeggino." Tirai su la gamba, apparentemente per
mostrare il danno ma consapevole che quella era una delle mie
qualità fisiche
più apprezzabili. In quel preciso istante,però,
mi resi conto che il passeggino
non avevo preso solo il nylon delle calze.
"Sta
sanguinando." L'espressione di lui si addolcì e il diavolo
assunse un ruolo
diverso: tentazione allo stato puro.
"Oh,
no!" esclamai esasperata, non solo come risposta alla osservazionedi
lui.
Gli uomini, erano banditi dalla mia vita. Poi, utilizzando la
preoccupazione di
lui a mio vantaggio, dissi: "Cioè, non
tanto..."
mi strofinai un gomito. "Solo un piccolo colpo quando sono caduta dal
marciapiede,
nient'altro. La moto mi ha sfiorato appena..." mi fermai di colpo,
appena mi
accorse che stava spargendo olio su tutta la manica della camicetta.
Ero
sul punto di dirgli che doveva solo darmi una lavata e sarei stata
pronta a
iniziare, ma decisi di risparmiare il fiato.
Edward
Mansen, accidenti a lui!
Avevo
ragione. Nessuno, in possesso delle proprie facoltà mentali,
avrebbe permesso a
un disastro come me di praticare l'insidiosa arte di servire il cibo in
un
ristorante pieno di ricconi e celebrità.
"Okay"
mormorai quindi sconsolata.
"Okay?"
ripeté lui con accento cockney. Assolutamente meraviglioso.
"Ci
rinuncio. Andrò da McDonald’s, là
cercano sempre qualcuno."
Edward
La
guardai sistemarsi un ricciolo bruno a forma di cavatappi, che era
sfuggito
alla forcina: in realtà si stava imbrattando ancora di
più la faccia, mentre se
lo arrotolava dietro l'orecchio con la mano piena d'olio.
Era
davvero un disastro!
Alla
notizia che era stato Jasper ad assumerla, la mia prima reazione era
stata di
stupore vero e proprio. La seconda era stata l'istinto di rispedirla a
casa.
Perdere un giorno di paga e, soprattutto un giorno di mance, le avrebbe
permesso di riflettere sugli standard richiesti al personale di un
ristorante
come il Ritz.
La
terza, invece... la terza era stata puramente fisica. Quando lei mi
aveva sorriso
- con il sorriso sincero, non quello calcolato per cercare di
incantarmi -mi ero
sentito invadere tutto il corpo da un calore che faceva invidia al sole
di settembre.
Una virile reazione naturale che mi fece capire molto bene come mai mio
cugino Jasper,
per il quale conoscere belle donne era diventato un lavoro, l'avevo
assunta.
"Aspetta."
Lei
si fermò, si guardò indietro e si
spostò un altro ricciolo ribelle dalla faccia.
Aveva
idea di quanto fosse sensuale quel gesto?
Sì,
ovviamente. Proprio come il primo sorriso, anche quella era una mossa
calcolata
per catturare la mia attenzione e tenermi in pugno.
Funzionava.
"Come?"
chiese Bella. Poi, vedendo che non rispondevo: "Non mi dica che rivuole
indietro
la divisa?"
Deglutii,
cercando di scacciare l'immagine di lei che se la toglieva, un pezzo
alla
volta, lasciandola cadere ai suoi piedi.
"Non
ce n'è motivo. Ormai è buona solo per spolverare"
risposi facendo di tutto
per risultare sarcastico.
Quella
ragazza era una grana.
Avrei
dovuto fare un favore a tutti e mandarla via, ma un mese dopo sarei
ritornato
in Italia a prendere il posto di mio padre, ed assumere il ruolo per
cui ero
nato. In trappola...
Quest'ultima
parola rotolò nella mia mente con la pesantezza di un
macigno. Ma la fermai.
Dovevo concentrarmi sul problema che mi stava davanti.
La
signorina Bella Swan.
Il
suo atteggiamento strafottente sembrava dire ‘non me ne
importa niente’, ‘alla
faccia tua’, ma al di là di questo vidi il crollo
di una speranza, che mosse
qualcosa di molto profondo dentro di me. Qualcosa che non riuscivo a
soffocare.
"Venga"
dissi voltandomi bruscamente. Camminando verso la stanza del
guardaroba,
dovetti resistere alla tentazione di girarmi e controllare se lei
avesse
obbedito.
Sì,
per fortuna lei m'aveva seguito.
"Un'inserviente
le troverà qualcosa per disinfettare la ferita, e le
darà una divisa pulita.
Quando sarà di nuovo presentabile, venga in sala e si faccia
vedere da Michael,
il capo cameriere." Stava quasi per sorridere. "L'avverto subito: lui
non si lascerà impressionare da un sorrisino e, a differenza
di me, non le darà
una seconda occasione."
"Non
se ne pentirà, Edward " disse lei in uno slancio improvviso.
Quindi si corresse:
"Cioè no... signor Mansen".
"Faccia
in modo che sia così" la ammonii secco. "Altrimenti se ne
pentirà lei".