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Autore: Neal C_    02/06/2011    7 recensioni
Virginia Foster si trasferisce in una cittadina anonima, Rodeo, in California. Abituata ad essere sempre la prima della classe neppure alla Pinole Valley High School si smentisce e così non può rifiutare una richiesta della cordinatrice del suo corso: aiutare un compagno di classe particolarmente refrattario allo studio, con la testa perennemente nella musica, spesso assente e in continuo conflitto con i professori a cui si rivolge con linguaggio piuttosto colorito, contestando tutto.
Saprà rimettergli la testa a posto o verrà trascinata nel suo mondo di insoddisfazione, di ribellione e continuo rifiuto?
Ha solo cinque mesi per convincerlo* che la scuola non è tutta da buttare, lei che nei libri e nella cultura ci naviga fin da bambina.
*(Armstrong abbandonerà il liceo il 16 febbraio 1990, il giorno prima di compiere diciott'anni.)
[Rating Giallo: linguaggio colorito]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Billie J. Armstrong, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Virginia Foster 1989-2004'
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Dalle stelle alle stalle


Rodeo, California

31.08.1989

Dalle stelle alle stalle.  Ma perchè ci siamo trasferiti in questo posto dimenticato da Dio?
Ricordo ancora l'espressioni eccitate delle mie compagne di classe.
Lasciavo Berlino e andavo in America. Wow l'America!
Quanto rimpiango casa mia.
Tutto questo semplicemente perchè a mamma mancava la sua adorata California.
Tra sette mesi nascerà  Franz e mamma vuole assolutamente che cresca dove è cresciuta lei.
Mio padre ormai lavora in America da una vita e quindi ha insistito perchè la mamma torni  in California:  è più che contento di poterci vedere più di una volta al mese.
Ha una cattedra di Epidemiologia alla "School of Public Health", un dipartimento della UCLA, "Univesity of California, Los Angeles".
In effetti è grazie a lui che possiamo permetterci una vita come si deve perchè la mamma non lavora.
Scrive su un paio di settimanali, organizza corsi di giornalismo in inglese e tedesco ma questo è tutto.  La trovavo quasi sempre a casa, quando tornavo da scuola.
Ma adesso tutto cambia.
Adesso siamo in questo posto terrificante. Fa caldo, è afoso, sembra una periferia o una campagna. Le strade mi sembrano tutte uguali, tutte villette con il prato all'italiana, non c'è nessuno in giro, una desolazione!
Ci fermiamo con la macchina davanti a casa.
2388 Ramona Street.
Oddio, sembra davvero di stare in una di quelle ridicole commedie americane strappalacrime tipo "Io & Marley" o  nei telefilm tipo "Desperate Housewives".
Qualcosa mi dice che la mia vita sarà una palla.

******************

La nostra casa è totalmente anonima, un blocco di cartongesso e mattoncini basso, grigiastro con le imposte di legno bianche e le finestre con i battenti.
Mein Gott! *
Per non parlare di quest'orrida porta che sembra quella della baita di Heidi: ha due pannelli, uno superiore e uno inferiore e si possono tenere aperti o chiusi separatamente.
Alle finestre ci sono delle orride tendine panna a fiorellini beige, poi c'è il tetto tegolato, tanto per aumentare il rischio di rimanerci secchi, varcando la porta di casa.
Ma che carino il camino!
Sono sicura che la mamma non vedrà l'ora di provarlo, pretendendo che l'aiuti e rovinandomi così la serata.
E, invece di avere delle finestre sul tetto, come tutte le abitazioni normali, ha due specie di casettine con il tetto spiovente, con finestra sulla fiancata. Sembrano due grossi funghi che rendono tutto più schifosamente americano.
Immancabile il garage al lato, forse l'unica cosa buona che questa casupola abbia.
Almeno là posso conservare le mie bici e l'honda di papà.
Ma che ho fatto di male in questa vita, in quelle precedenti, in quelle successivo o in qualunque altra per meritarmi questo?

"Virginia! Was  machst du?  Heraus mit dir! " *


Ecco la mamma che diventa isterica.
Calma. Lei è incinta, ha tutte le ragioni per essere isterica.
E io sono incazzata con lei...non ce le ho anche io?

“Sofort” *

Mi caccio fuori dall’auto, una Opel Zafira metallizzata*, che ci etichetta subito come  “famiglia felice e incasinata, piena di robaccia sempre fra i piedi”. Per ora siamo ancora solo tre con un quarto in arrivo, non è granché come famiglia.
Mio padre sta già armeggiando con bagagliaio, stipato di valigie, due comodini, lampade varie, tende, tessuti, bustone  di asciugamani, piumini, copri piumini, federe, scatole di cartone con piatti, posate, zuppiere e vettovaglie varie.
L’unica cosa che mancano sono i libri. Quelli li consegna l’impresa dei trasporti internazionali.
 Non sarebbero entrati nemmeno in quindici Opel Zafira e poi sono la cosa più preziosa per i miei.
Ad esempio, io mi chiamo Virginia come Virginia Woolf, scrittrice dell’Inghilterra Vittoriana, grazie all’entusiasmo giovanile di una cara mamma femminista.
Virginia Foster.
A parte la storia del mio nome, direi che il mio cognome è di quanto più anonimo ci sia. Meglio così.

“Tesoro, comincia con gli scatoloni dei piatti...”

Magnifico. Sono davvero gentilissimi a chiedermi se mi piace il posto, se penso che mi ambienterò bene, se sono contenta di essere in America...
Sto oltrepassando la soglia di casa con uno scatolone in mano e un espressione tetra sul volto quando sento Josh Foster chiedermi, con uno di quei suoi sorrisi bianchi a trentadue denti:

“Allora, Vig, che ne pensi? Non è magnifica?”

Ma và a quel paese, và.

“Mhmm...”

Non voglio aggiungere altro. Intorno a me un orrenda carta da parati beige e bianca, in tinta con le tendine.
Almeno la casa è arredata. Un salone spazioso con camino in pietra, due divani e due poltrone a fiorellini, sempre stile tendina,  sul davanzale della finestra dei vasetti di gerani bianchi e rossi, quelli lunghi, bassi e in terracotta.
Mi sento male.
Passo alla cucina, arredata con un bancone bianco e gli sgabelli, con al centro una lunga tavola ovale da pranzo e l’ennesima orribile incerata a fiori.
Oddio ma chi è il deficiente che ha arredato questa casa? In cucina la carta da parati no!
 E a terra piastrelle beige chiaro.
Calma, Vig.
Appoggio lo scatolone per terra in cucina e decido di fare un giro prima di tornare ad aiutare mamma e papà.
Due bagni al piano terra, con piastrelle rigorosamente a fiorellini, uno piccolo bianco e l’altro beige.
Tutto questo beige mi farà vomitare prima o poi.
Un ripostiglio che sembra la mia camera da letto a Berlino.
MA A CHE CAVOLO SERVE UN RIPOSTIGLIO DI 2 X 6 METRIQUADRI?!?!?!?
Mio Dio, che spreco di spazi.
Salgo al piano superiore, la zona letto. Finalmente una cosa decente in tutta la casa!
La scala di legno: è senza fiorellini, è un bel legno scuro, color mogano e non color cacca, liscio al tatto e persino lucido dove non è impolverato. Un miraggio.
Il piano di sopra si riduce ad un corridoio con cinque camere da letto.
La mia è quella in fondo.
 Passi la carta da parati: la distruggerò appena posso.
Passi il letto a castello di legno di casa Heidi: costringerò la mamma a cambiarmelo.
Passi la scrivania per bambinetti delle medie: devo proprio cercare un negozio di arredamento.
Ma la Moquette...NO!

“MUUUUTTIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!!!!!!!!!!!” *

Urlo come una pazza. Mi precipito per le scale alla ricerca di mia madre, con gli occhi assetati di sangue.

“MAMMA! C’è LA MOQUETTE IN CAMERA MIA! CHE CACCHIO CI FA LA MOQUETTE IN CAMERA MIA?”

“Tesoro, non urlare, per favore, ho mal di testa. Vai ad aiutare tuo padre, io mi stendo un attimo.”

*************

Dopo sei ore di lavoro questa casa sembra un po’ meno americana e un po’ più incasinata.
Io proprio non capisco. Mamma sembra adorare questa casa. Mio padre adora mia madre e quindi della casa gliene importa poco. Ma sono tutti e due ciechi?

“Vig, tesoro, vieni qui”

Mia madre mi abbraccia e sorride come una bambina il giorno del suo compleanno.

“Mamma, tu vivevi qui?”

Mi fa un sorriso furbetto e fa cenno di sederci sul divano. Un divano a fiorellini. Censuriamo.

“Due strade più avanti. Mi sembra di essere tornata bambina. Anche io abitavo in una di queste villette un po’...rustiche”

Alla faccia del rustico!

“Ma ho la sensazione...insomma non era un po’ monotona come vita?”

“Affatto! Avevo un gruppo di amici con cui andavo in giro per la città, dalle tre del pomeriggio alle otto di sera. Poi mi toccava tornare dalla nonna altrimenti c’erano i paccheri del nonno ad aspettarmi.”

“Avevi tanti amici?”
“Si, ma i miei migliori amici erano Joe Richardson e Katia Dawson. E poi ovviamente c’era il mio ragazzo, Max Callaghan. Eravamo i Last Days ed eravamo unitissimi.”
“Last...che?”
“Formammo una band blues-jazz.”
“Una band?!?! Sul serio?!?”

Mi girai a guardarla. Non stava scherzando. Perché non mi aveva mai detto queste cose?
Lei era assolutamente rilassata, con la schiena appoggiata allo schienale del divano e guardava nel vuoto con un sorriso ebete sulla faccia.

“Katia era la voce, io ero la seconda voce e l’elettrica, Joe era la troba, Max era il piano e ogni tanto abbiamo anche ingaggiato Jamie perché fosse il nostro sassofono.”
“Oddio, mamma, Jamie?!?! Quel Jamie?!?!”
“Si tesoro, Jamie Falker, il tuo padrino. Quello che ha fatto incontrare me e Josh.”
“Ma lui...non faceva il conservatorio a Los Angeles?”
“Infatti componeva per noi durante l’inverno e veniva a suonare con noi d’estate.”

Oddio. Questo voleva dire che anche d’estate mia madre era rinchiusa in questa cittadina sperduta nel far west?

“Ma...non andavate in vacanza d’estate?”
“Tesoro, i miei erano squattrinati e io avevo i miei amici. Non avevo possibilità né voglia di andare in vacanza. Il nostro sogno era raggiungere Jamie a Los Angeles e suonare in un vero locale. Sai com’è... Ai miei tempi non ce n'erano molti come ora, ci voleva più di un qualsiasi bar per fare un concerto. Noi suonavamo in piazza davanti a tutti.”

Pazzesco. Sto conoscendo mia madre. O forse si sta facendo uno strano film. Forse è questo posto malefico che le fa questo effetto.

“Ma non ti vergognavi?”
“All’inizio da morire. Poi pian piano cominciavamo ad avere qualche fan. In realtà ho avuto davvero poco tempo per abituarmi, è durata un annetto e mezzo. Poi sono partiti tutti, me compresa.”
“E dove sei andata?”

Scoppia a ridere e, con il pugno, mi picchietta sulla tempia.

“E dove sarei potuta andare? A Berlino ovviamente! Accompagnai Jamie e poi andai a studiare Lettere alla Frei Universität. Per il resto... niente di nuovo.”

Era chiuso il discorso. Si capiva dal suo tono sbrigativo.
Danielle Foster si alza e a passo svelto si dirige in cucina mentre mugugna fra sé e sé.

“Stasera che si mangia...”
“Pizza!”

Salto in piedi.
Io AMO la pizza.
Il mio sogno è fare un giro gastronomico dell’Italia.
Beh, in realtà amo mangiare, in generale. Sono una di quelle secche secche, con un metabolismo accelerato che fa invidia a un colibrì e, soprattutto, a tutte le ragazze che ho conosciuto.
Quindi mangio qualsiasi cosa mi capiti a tiro in quantità mostruose.
Wihlelmina Meyer, in terza media, mi chiese ben tre volte che dieta facessi per mantenermi sempre così “in forma”. Però basta mezzo bicchiere di Champagne per farmi ubriacare.
Tanto non berrei mai mezzo bicchiere di Champagne né altre schifezze alcoliche.
Non mi piacciono, sono amare e pungono la lingua.

“Uhm...in effetti non è che ci sia qualcos’altro in casa.”

Ho vinto. Mamma sta prendendo il telefono e l’elenco.

“Amore...sarebbe bene che cominciassimo a comunicare solo in inglese così ti abitui. Poi c’è la scuola...”

Ecco mia madre che attacca a parlare il suo perfetto inglese con accento americano.
Ordina la pizza, si fa una chiacchierata con un certo Frank che deve essere un amico di vecchia data, forse un suo compagno ai tempi del liceo.

“Mamma, per me una quattro stagioni, mezza al pomodoro e mozzarella, una coca e un pezzo di torta di mele.”

Mamma blatera che è una bellezza. Decisamente un vecchio compagno di liceo.
Quando mette giù il telefono sembra emozionatissima.

“Vig, domani ti accompagnano a scuola Frank e Dominick.”
“Chi?”

Ok, se mi vedessi allo specchio potrei dire di aver fatto la mia solita faccia allarmata, quella di chi fiuta guai.

“Frank era il mio compagno di corso al Liceo. Allora non pensavo sarebbe rimasto qui, e tanto meno che avrebbe gestito una pizzeria. Aveva tutte le carte in regola per espatriare e andare a studiare ingegneria da qualche parte. E Dominick è ovviamente il figlio ed un tuo compagno di scuola! ”

Adesso comincia a mettermi ansia questo fatto della scuola. Guardo l’orologio sul muro. Sono ancora le nove e mezzo. Ho ancora una notte prima di dovermi preoccupare di fare amicizie o di risultare simpatica a chicchessia.

“Tesoro, come ti vesti?”

Sbuffo.

“E che ne so...”

Cosa pensa che potrei mettermi per il mio primo giorno di scuola in California?
Odio le domande a sproposito.

“Mettiti quella camicetta bianca che ti sta così bene, un paio di jeans, quelli scuri a sigaretta e sopra una giacchetta di cotone, quella blu. È andata?”

Alla fine farò come dice lei.
Non è il mio ideale di abbigliamento perfetto ma è la vecchia tattica della “brava ragazza innocente”.
Almeno finchè non mi danno l'uniforme.


“Ti ho lasciato una lista dei tuoi compagni di corso sulla scrivania. Siete diciassette se non mi sbaglio.”

Adesso si che mi sta esasperando.

“Mamma! E piantala! Non è mica la prima volta che metto piede in una scuola.”
“Oh non ti preoccupare anche io ero emozionatissima! Non andare a letto troppo tardi, mi raccomando.
Devi essere in forma!”

Mi sono stufata di sentire luoghi comuni.
Salirò in camera e tornerò a leggere  “il profumo”.
E non avrò un concentrato di ansia mammesca addosso per tutta la serata.

“Non ti preoccupare. Vado subito a letto.”

Le rubo un bacio e in fretta mi arrampico sulle scale.
Dal corridoio posso sentire mio padre che russa in camera.
Poveretto, si è svegliato alle quattro del mattino, ha preso il volo per Berlino, ci ha aiutato a mettere a posto le ultime cose e poi ha volato con noi  a Los Angeles e ha guidato  fino a qui. E, con qualche mio aiuto, è stato lui a rendere vivibile questa casa.
Mi chiudo in camera, mi butto sul letto e mi metto a sfogliare Suskind.
Non ho voglia di leggere.
Mi tremano un po’ le mani e vorrei poter chiamare Hanna ma lei in questo momento starà ancora dormendo e mi ucciderebbe.
E poi non si chiama la gente alle sei della mattina.
Lancio un’occhiata ai fogli di carta poggiati sulla scrivania. Non ho molta curiosità di conoscere i miei compagni ma non ho nient’altro da fare quindi, pigramente mi allungo fino alla scrivania e afferro i fogli.

Allen Leona
Anderson Charlie
Armstrong Billie Joe
Baker Charles
Barbera Collin
Campbell Anthony
Carter Josephine
Collins Fanny
Diaz Manuela
Edwards Michael
Foster Virginia
Green Thomas
Lopez Alejandra
Morgan Margarita
Numba Malika
Phillips Jack
Ramirez Sabina

 Il diciassette porta sfortuna.
Ricordo che questo è il mio ultimo pensiero prima di chiudere gli occhi.
Poi il buio.

Glossario

* Mein Gott! : oh mio Dio!
* "Virginia! Was  machst du?  Heraus mit dir! :  Virginia! Che stai facendo? Vieni fuori di lì!
* Sofort:  eccomi
* “MUUUUTTIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!!!!!!!!!!!” :  MAMIIIIIIIII!!!!!!!!!!!

 L’angolo dell’autrice

Ci ripensavo l’altro ieri e mi è venuta voglia di scriverla!
Diciamo che mi sono ispirata a quella che è una tendenza diffusa, almeno nella scuola italiana, cioè quella di mettere gli studenti più scarsi accanto a quelli più  brillanti perché si stabilisca una specie di solidarietà.
Purtroppo so ben poco della scuola americana e tutta la mia istruzione sulle High School viene da  programmi televisivi americani (si, anche cose come High School Musical... acqua passata <.<) e da qualche informazione che ho cercato sul web. Non ho la pretesa di scrivere da esperta della scuola americana ma in una fan fiction, ogni tanto bisogna saper perdonare!
Per il resto spero di non risultare incoerente o troppo poco verosimile. Ma siamo ancora agli inizi, è un po’ presto per cose del genere.
A titolo informativo: prima di scrivere mi sono andata a guardare su google map qualche strada di Rodeo e di Berlino giusto per avere una vaga idea di com’è l’atmosfera da quelle parte (beh, in parte Berlino fa parte delle mie esperienze personali quindi almeno su quella non dovrei fare gaff di sorta).
Ho controllato che negli anni ‘50-60 il jazz fosse almeno un po’ conosciuto in America, almeno quanto bastasse perché giovani musicisti della generazione precedente agli anni ‘80 si cimentassero in questo genere, benché sia decisamente più complicato del rock.
A proposito di Virginia Woolf che ho citato vi riporto qua un interessante articolo su lei e le sue manie.
Se vi interessa... xD
E, a proposito del libro che Vig sta leggendo,  “il profumo” di Suskind, sappiate che è meraviglioso, lo consiglio a tutti, perché attraverso le parole descrive gli odori e il senso dell’olfatto di un profumiere, nella Francia del XVIII secolo.
Beeeene! Spero di avervi interessato almeno un pochino!
Anche se vi avverto che non posso assicurare aggiornamenti costanti per questa ff.
Vediamo se ha più  successo della One-shot sul concerto xD
Auf wiedersehen,

Misa


p.s *Piccolo ANACRONISMO. Prima o poi rimedierò <.<


Postfazione alla prima modifica

è la seconda volta che scrivo questa dannata postfazione che il pc prima non mi ha salvato e che non ho salvato, da brava idiota.
Dunque, volevo ritornare sul discorso della scuola americana (non sono un'esperta, forse sono tutte c*****e ecc.) poichè ho pensato che la High School americana non deve essere molto diversa dal college inglese e potevo sfruttare una mia breve esperienza in quel contesto per rendere più realistica questa storiella xD
Inanzitutto ho sostituito il "classe" con "corso", perchè ricordo bene che le classi non erano fisse. Ognuno riceveva un'orario che coincideva con un gruppo di altre venti persone massimo e quindi, le classi non erano mai più numerose di quindici-venti alunni (vedete come sono civili gli inglesi! Se penso alle nostre classi di trenta-quaranta alunni mi viene il voltastomaco <.<). Erano gli studenti a doversi muovere per cercare la classe in cui si teneva la loro lezione e ovviamente i posti non erano fissi. Facevano a chi arrivava primo!
Questa è anche un'introduzione al secondo capitolo: il primo giorno di scuola.

  
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