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Autore: _ L a l a    05/06/2011    4 recensioni
Il cofanetto era in velluto rosso.
L’aveva regalato mamma a Lucy, per il suo sedicesimo compleanno, forse nella speranza che la figlia minore iniziasse a truccarsi e a portare gioielli, come una vera signora. Ma Lucy rimaneva sempre Lucy, qualsiasi cosa tu le regalassi, ed il cofanetto era diventato lo scrigno in cui lei custodiva tutti i suoi ricordi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Susan Pevensie
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Pandora – la speranza è l’ultima a morire.

 

Il cofanetto era in velluto rosso.

L’aveva regalato mamma a Lucy, per il suo sedicesimo compleanno, forse nella speranza che la figlia minore iniziasse a truccarsi e a portare gioielli, come una vera signora. Ma Lucy rimaneva sempre Lucy, qualsiasi cosa tu le regalassi, ed il cofanetto era diventato lo scrigno in cui lei custodiva tutti i suoi ricordi.

L’ho trovato l’altro giorno, nella cassapanca di Edmund e Peter, chissà chi l’ha messo lì.

Non so perché ho aperto il cassettone, soprattutto dopo così tanti anni. Forse credevo che tirar fuori qualcosa di loro mi avrebbe dato l’illusione di poterli riavere indietro, anche solo per un attimo.

La grande cassa era, una volta, di legno lucido e scuro. Edmund e Peter facevano a turno per pulirla, ci tenevano tantissimo. Ora tutta la sua lucentezza era andata perduta, come i proprietari d’altronde, e gli angoli erano smussati, quasi qualcuno si fosse impegnato a limarli. C’era ancora il lucchetto, Edmund e Peter l’avevano attaccato quando avevano scoperto mamma a frugarci dentro, ma la chiave non serviva più, con quella serratura arrugginita: mi è bastato forzarla un po’, e si è aperta con un unico cigolio di protesta.

Ho sollevato il coperchio senza difficoltà, facendo attenzione a non aprirlo con troppa violenza, infondo era anni che nessuno lo faceva. Non l’avevo aperto nemmeno per il funerale: spalancare la cassa mi sembrava quasi come scassinare una piramide, un sacrilegio, a quei tempi. Purtroppo, zio Harold e zia Alberta non la pensavano allo stesso modo. Sono certa che non abbiano tolto niente e che non abbiano nemmeno curiosato, ma l’hanno riempita di oggetti di Eustace e Lucy, per evitare che occupassero troppo spazio. O per evitare di doversi ricordare la perdita che avevano subito, ritrovandosi in casa cose che appartenevano al passato.

 Un nugolo di polvere ha accompagnato l’apertura della cassapanca,  insieme all’odore acre di chiuso. Per un attimo il polverone mi ha offuscato la vista, e ho seriamente creduto che non sarei più riuscita a distinguere niente, che tutti quei granellini fastidiosi avrebbero invaso il mondo come una macchia scura. Poi ho tossito un paio di volte, mi sono sfregata gli occhi e la stanza intorno a me era rimasta invariata, solo qualche soffice batuffolo grigio che danzava nell’aria stantia della stanza.

Mi sono alzata e ho quasi corso fino alla finestra, spalancando le imposte scricchiolanti che erano rimaste chiuse per fin troppo tempo.

Ho socchiuso gli occhi.

La camera era diventata improvvisamente luminosa, come in quelle mattine primaverili in cui mamma apriva le persiane con un colpo energico e metteva sottosopra la stanza, cercando di ripulire il disordine di Edmund e Peter. Anche in quelle mattinate la polvere danzava nell’aria, dando uno spiacevole pizzicorio al naso e alla gola. Veniva subito cacciata via, però, dalla ventata d’aria fresca che le imposte spalancate lasciavano passare, e tossire diventava solo un modo per nascondere le risate, alla vista di tutte le schifezze che mamma scovava negli angoli della stanza.

Sono tornata alla cassapanca e vi ho sbirciato dentro. Non pensavo che dentro un cassettone ci potessero essere tanti ricordi messi assieme. Soprattutto se quei ricordi erano legati a Narnia.

Dopo la morte dei miei fratelli, avevo iniziato ad odiare Narnia. Attribuire le colpe a qualcun altro era più semplice che addossarsele: se la loro fede in Narnia non li avesse guidati su quel treno, per portare chissà quali anelli a chissà chi, sarebbero potuti essere ancora qui.

Ma era ovvio che la mia convinzione non avrebbe retto a lungo: infondo, non avevo mai smesso di credere in Narnia, e pian piano avevo ripreso coscienza di ciò che ero stata. La Regina, Susan la Dolce. Non credo di aver accettato subito la cosa; ma, cautamente, in un lasso di tempo indefinito, un nuovo pensiero aveva preso strada nella mia testa:

se io fossi stata con loro.

A quel punto, attribuire la colpa a Narnia era inutile. Sapevo perfettamente, l’avevo sempre saputo, che i miei tre fratelli ora vivevano felici a Narnia, a godersi quella pace che tanto meritavano. Ma io? Io ero ancora qui, e tutto questo perché avevo dimenticato Narnia, lasciandomi trascinare dalla corrente di questo mondo. La colpa era decisamente mia, e non potevo più fare nulla per rimediare.

La prima cosa che ho tirato fuori dal cassettone, era un libro. Ovviamente di Edmund, Peter non ha mai avuto una gran passione per la lettura, e i libri di Eustace e Lucy sono finiti in qualche scatolone abbandonato nella camera che era dei miei.

Non aveva titolo alcuno e le pagine erano completamente bianche: mi sono stupita della singolarità di quel volume, chiedendomi da dove Edmund l’avesse tirato fuori. Ho sfogliato le pagine una ad una, ed ho trovato un disegno magnifico, dipinto proprio sull’ultima pagina: delle ninfe e dei fauni che ballavano in cerchio attorno ad uno scoppiettante fuoco, gli alberi tutti intorno a loro e una gigantesca luna piena ad illuminare la notte.

L’immagine mi sembrava stranamente familiare, eppure nessuno dei miei fratelli poteva averla disegnata in quanto nessuno di loro era mai stato troppo bravo a districarsi tra colori e pennelli, e nemmeno Eustace per quel che ne sapevo.

Dopo la morte dei miei familiari, ricordare qualcosa – qualsiasi cosa – mi provocava un dolore incredibile: anche il più banale degli oggetti riusciva a rammentarmi momenti vissuti con persone che amavo e che non c’erano più. Ma ora, beh ora ci avevo fatto l’abitudine, e essermi ricordata di Narnia aveva decisamente aiutato.

Quindi, quando ho visto l’illustrazione del libro, ho pensato subito a Narnia. Possibile che Ed, in chissà quale modo, fosse riuscito a portare via un libro dalla biblioteca di Cair Paravel? Da quel che ricordavo tutte le volte che eravamo tornati indietro non aveva nulla, con sé.  Che gliel’avesse dato Caspian, l’ultima volta che si erano incontrati? Probabile. Ma perché mai dargli un volume completamente privo di parole?

 L’unica spiegazione possibile era che nel nostro mondo, i libri narniani, non si possono leggere. Rimane solo una traccia, un segno, a ricordarci che quel volume è appartenuto ad un altro luogo e che ora è qui, ed essendo qui ha perso la sua funzione. Perché il confine tra i mondi non è invalicabile, ma varcarlo comporta un cambiamento.

Anche pensare a Caspian, dopo tutto quel tempo, faceva maledettamente male. Ci sono stati giorni in cui ho pensato che fosse colpa sua. Se io non mi fossi innamorata di lui, a Narnia, forse avrei sofferto meno e creduto di più.  Anche per questo andai in America. L’intento non era precisamente quello di dimenticarmi di Narnia, ma almeno Caspian volevo lasciarmelo alle spalle, dato che non l’avrei mai più rivisto. 

L’America era stata una grande avventura, un modo per ritrovare quella stabilità che io e Peter avevamo perso dopo essercene andati da Narnia. Lasciare in Inghilterra Lucy ed Edmund non era stato facile. Loro erano sempre stati i fratellini più piccoli da difendere e consigliare, e lasciarli in balia di Eustace non ci piaceva affatto. In qualche modo, però, mi rendo conto che Lucy ed Edmund sono forse stati i più fortunati.

Lucy ha sempre avuto un legame speciale con Narnia, ed Edmund non poteva certo dimenticarsi dei suoi errori e dei suoi cambiamenti. Per loro è stato così semplice, continuare a credere, adattare le proprie vite a questo mondo pur ricordando che era a Narnia, la loro casa.

Per me e Peter, è stato difficile. Ma Peter ha superato la prova, ed ha continuato a credere; io ho lasciato perdere. Perché è più facile chiudere gli occhi e dimenticarsi di quello che è successo, fingere di non sapere nulla.

Ho appoggiato il libro sul letto che era di Edmund sentendo le molle protestare con un cigolio, e mi sono seduta sul parquet ruvido e ormai rovinato della stanza. Sembravano passati secoli dall’ultima volta che avevo messo piede nella camera dei miei fratelli.

Da quando sono morti, la casa è cambiata in modo radicale:  il salotto è stato ridotto drasticamente, per farci entrare una piccola stanza per me ed un bagno, e la cantina è diventata la camera dei miei zii. Si sono trasferiti qui per non lasciarmi sola, dato che nessuno era riuscito a convincermi a cambiare casa. La cucina è sempre la stessa, ma sicuramente meno utilizzata: mamma amava cucinare, al contrario di zia Alberta che compra tutti i giorni qualcosa di già pronto e da scaldare.

L’unica cosa che è rimasta uguale è il piano superiore. Ci sono ancora le nostre camere, ed il bagno, con il lavandino che perde; nessuno si è preso la briga di aggiustarlo. Tutti i mobili e gli armadi, però, sono coperti da grandi teloni bianchi, i letti non hanno più né lenzuola né coperte, il cuscino di Lucy è sparito ed i cassetti sono vuoti, come le mensole e le scrivanie.

Ma quel giorno avrei anche potuto credere che papà avesse tolto tutto perché doveva imbiancare; capitava che, ogni tanto, mamma lo costringesse a dipingere qualche stanza. Mi ricordo quella volta che doveva ridipingere la stanza da letto di Ed e Peter di blu, e Lucy ha voluto a tutti i costi aiutarlo. Avrà avuto sì e no cinque anni. Immergeva completamente le mani nella tanica colma fino all’orlo e poi le appoggiava al muro, lasciando le impronte. Anche Edmund si era unito, dopo qualche minuto di protesta, e aveva cominciato a disegnare omini stilizzati sopra al suo letto, con il pennello fine che usavo per le lezioni di arte, mentre papà, in piedi sulla scala, colorava il soffitto.

Avrei anche potuto crederlo. Mi sarebbe bastato chiudere gli occhi e fingere di essermi addormentata sul divano: li avrei sentiti ridere dal piano di sopra, e magari mamma sarebbe apparsa proprio in quel momento sull’uscio con i sacchetti della spesa e allora Peter sarebbe corso ad aiutarla, mentre Edmund e Lucy avrebbero continuato a schiamazzare e a schizzarsi vernice. Poi mamma avrebbe appoggiato la spesa sul tavolo della cucina, sarebbe venuta a posarmi una carezza delicata sui capelli e avrebbe salito le scale, per osservare come procedevano i lavori; avrebbe trovato Edmund e Lucy completamente ricoperti di tintura e magari papà sarebbe spuntato dalla porta del bagno e l’avrebbe salutata con una risata, alla vista della sua espressione furiosa. L’avrei sentita lamentarsi dei vestiti da buttare, e degli schizzi di vernice sui mobili.

Ma era proprio questo il problema. Sentire.

C’era silenzio, aleggiava su tutto il piano; era innaturale, molto più dell’assenza di oggetti o di persone. Non risuonavano più le risate di Lucy e Peter, i borbottii contrariati di Edmund o i litigi giocosi dei miei. Non c’era più assolutamente nulla, a parte il mio respiro quasi singhiozzante; solo a quel punto mi sono resa conto di essere sul punto di piangere. Così ho frugato un altro po’ dentro la cassa, senza cercare nulla di particolare.

Ho trovato la torcia di Edmund, e l’ho appoggiata accanto al libro, dopo aver constatato che non funzionava più; ma, che mi aspettavo? Erano anni che nessuno la tirava fuori di lì. Se Ed l’avesse saputo si sarebbe arrabbiato a morte.

Un oggetto luccicante ha attirato la mia attenzione, ma era sul fondo così ho rovistato tra i vari oggetti, scostandoli con cura per timore che si polverizzassero tra le mie dita, un po’ perché mi sembravano quasi dei manufatti antichi, un po’ per paura di scoprire che in realtà anche questo era solo un sogno e che non avrei mai avuto il coraggio di salire le scale ed aprire la porta della stanza.

Ho afferrato l’oggetto, scoprendo che in realtà era uno specchio, che mi era sembrato luccicante solo perché aveva probabilmente riflesso la luce del sole che entrava dalla finestra. Un frammento di specchio, per la precisione. Era ancora lucido ed affilato ai bordi; nemmeno un graffio ne interrompeva la superficie liscia. Me lo sono rigirata tra le mani per un minuto buono, poi ho sentito la porta al piano di sotto sbattere.

- ciao Susan! – ha gridato zia Alberta, ed io ho abbandonato il frammento sul pavimento e sono corsa giù di sotto, inciampando sui gradini. Anche Edmund inciampava sempre, soprattutto la mattina appena sveglio.

- buongiorno, zia Alberta – le ho risposto, con un sorriso tirato. Lei mi ha sorriso di rimando, appoggiando frettolosamente i giornali che aveva comprato sul tavolo della cucina.

- che stavi facendo? – mi ha domandato incuriosita, forse notando i vestiti sporchi di polvere.

- nulla di particolare .. – ho risposto, ma lei si era già disinteressata all’argomento.

- mi spiace non poter rimanere a farti compagnia, cara, ma la signora Miles mi aspetta per il thè. Vuoi venire anche tu? Così non sarai costretta a rimanere qua da sola .. –

- no, zia Albera, sto bene così, grazie – le ho risposto, e lei mi ha lanciato un’occhiata dubbiosa. Poi ha alzato le spalle con fare rassegnato, ha controllato di avere tutto nella borsa ed è uscita di casa, con un’ultima raccomandazione:

- se hai bisogno, chiamami pure! Il numero della signora Miles è segnato sul blocco accanto al telefono! –

Ho chiuso l’entrata, e sono passata in cucina a prendere un bicchier d’acqua, prima di salire nuovamente le scale con passo cauto. Avevo lasciato la porta socchiusa, ed un raggio di luce illuminava il pavimento polveroso del corridoio.  Faceva uno strano effetto.

Una volta rientrata ho ripreso in mano lo specchio e ho rimirato quel poco d’immagine di me che la superficie rifletteva. I miei stessi occhi mi osservavano, leggermente arrossati – un po’ per la polvere, un po’ per l’incredibile voglia di piangere.

Peter aveva sempre detto che ho gli occhi uguali a quelli di mamma. Beh, a parte una volta in cui mi disse che li avevo simili a quelli dell’Husky del nostro ex vicino di casa. Ma dopo che mamma l’ebbe messo in punizione per una settimana non lo disse più. Mi ricordo che Edmund lo prese in giro tutto il tempo perché, per una volta tanto, non era lui a non poter uscire di casa o ascoltare la radio.

Zio Harold ha gli stessi occhi della mamma. Non ci avevo mai fatto caso prima, gli occhi della mamma non erano simili a quelli di nessun altro, per me. Ma sono fratelli, non avrebbe dovuto sorprendermi più di tanto; anche Lucy e Peter li avevano uguali, probabilmente ereditati da nonno Henry.

Ma un conto è paragonare mamma a zio Harold, un altro è farlo con zia Alberta.

Zia Alberta non ha nulla, di mia madre. Non ha lo stesso sorriso, né lo stesso tono di voce. Non ha i suoi modi di fare, né le sue espressioni. Se ottengo un successo non lo festeggia come farebbe mamma, se porto a casa un ragazzo non gli fa il terzo grado, se rompo un vaso, non mi urla addosso infuriata, né mi mette in punizione.

Eppure, succede che talvolta io mi ritrovi a cercare in lei qualcosa della figura materna che ho perso, pur sapendo che non vi troverò nemmeno una somiglianza.                                  

Lo specchio ha riflettuto la lacrima che è scesa lungo la mia guancia con apatica freddezza.

Ma nello specchio non ero io, a piangere. Era la me stessa del passato, la persona che ero stata prima di rinnegare Narnia. Quella nello specchio era una Regina, ed io non ero nient’altro che l’ombra di una donna scomparsa da tempo, il personaggio spento di un mondo che era solo il riflesso opaco di un altro.  E c’era un semplice motivo, per spiegare tutto ciò: anche quello specchio, quel frammento di vetro, veniva da Narnia.

Avevamo un corridoio, a Cair Paravel, fatto solo di specchi. Era corto e stretto, ed io e Lucy ci divertivamo a far volteggiare le gonne ogni qual volta passavamo di lì, per il gusto di veder sbocciare tantissimi fiori di stoffa colorata anche nei nostri riflessi. È stato distrutto, come ogni altra parte di Cair Paravel, dalle catapulte telmarine. Chissà che spettacolo, tutti quei frammenti di specchi che danzavano in aria, brillando sotto il sole, per poi cadere a terra con un suono cristallino, simile a pioggia.

Quella minima parte di specchio l’aveva raccolta Peter, quando eravamo tornati a Narnia la seconda volta. Stava frugando tra i cespugli – o qualcosa di simile – e si era tagliato un dito incontrando i bordi ancora affilati dell’oggetto. E ora quel frammento era lì, una sottospecie di reliquia sopravvissuta a mille intemperie e ancora incredibilmente intatta.

Ho appoggiato anche quello accanto al libro e alla torcia. Non sapevo se era il caso di continuare a tirar fuori altri ricordi, visto l’effetto che mi facevano. Ma ormai avevo cominciato, e chiudere la cassapanca in quel momento avrebbe significato non trovare mai più il coraggio di riaprirla.

L’oggetto che ho tirato fuori subito dopo era un barattolo di vetro, la cui superficie era opaca, sporca e graffiata; non si distingueva nulla di ciò che vi stava racchiuso. Era chiuso da un tappo di sughero che ho fatto fatica a togliere poiché si era incastrato. Al suo interno, c’erano i corpi rinsecchiti di diversi scarafaggi.

Ho arricciato il naso, disgustata, pensando che solo Eustace avrebbe tenuto degli scarafaggi nei barattoli. E, infatti, scuotendo leggermente il barattolo, sotto i corpicini mummificati, c’erano gli spilli che mio cugino usava per infilzare gli insetti.

Eustace, nonostante Narnia l’avesse cambiato abbastanza da renderlo simpatico ai nostri occhi, non perse mai questa sua malsana passione ed Edmund si ritrovò a dover convivere con l’inquietante ticchettio delle zampette degli insetti sul vetro dei barattoli per interi mesi. In seguito, nostro cugino ebbe la fortuna di incontrare Jill Pole, che gli rivoluzionò non solo la vita ma, soprattutto,  la stanza.

Non ho mai conosciuto Jill. Probabilmente ero troppo impegnata con le feste e gli inviti a cena, per curarmi della nuova fidanzatina di mio cugino. Lucy la descriveva sempre come una persona meravigliosa, con un carattere forte e determinato.

L’ho vista una sola volta, e di sfuggita per di più, alla festa per i diciott’anni di Edmund. Pensandoci adesso, Ed dev’esserci rimasto male quando sono fuggita via di corsa con la scusa di un appuntamento importante. Stavo per l’appunto evitando tutti gli amici e i parenti chiudendomi la porta alle spalle, quando l’ho vista su vialetto di casa. Mi è sembrata fragile e delicata, al contrario di tutti i discorsi di Lucy, con quegli occhioni blu e i capelli biondi, fini. Aveva delle spalle gracili, mi ricordo che Eustace ci aveva passato sopra un braccio.

Quando lei mi vide, mi regalò un timido sorriso, e fece per presentarsi; ma Eustace la trascinò fino all’entrata, superandomi senza nemmeno guardarmi.

Immagino di essermelo meritata.

Ho richiuso il barattolo, appoggiandolo sul letto accanto al resto.  

Mi sembrava quasi di star frugando nella borsa di Mary Poppins: ogni oggetto che trovavo si rivelava speciale ed unico, ed io mi sentivo sempre più vicina alle lacrime.

 

Un quaderno di appunti macchiato d’umidità e da fiumi di inchiostro che narravano le nostre avventure a Narnia.  

-.. a quel punto Susan mi ha detto: “Peter, solo perché un uomo vestito di rosso e con la barba bianca ti ha regalato una spada, non vuol dire che tu sia un eroe!” Ma se volevo proteggere lei e Lucy, e riportare a casa Edmund, non potevo far altro che diventarlo.. -

La foto del Natale passato a casa del professor Kirke, l’Armadio dietro di noi con accanto un albero addobbato.

- “fate un bel sorriso!” li incoraggiò il fotografo. Tirarono tutti fuori il loro sorriso migliore, ed anche Edmund si trattenne dal fare una boccaccia. Solo Mrs. McReady fece un’espressione seccata, ritta in piedi accanto al Professore, domandandosi per l’ennesima volta per quale assurdo motivo dovevano fare la foto di fianco ad un armadio. -

Il pallone da football che Peter si era fatto firmare da un giocatore professionista in America. Chissà dov’era finito quello di Edmund.

- “uah! Hai visto Susan? Mi ha pure messo la dedica!” s’entusiasmò il biondo “Dici che dovrei comprare un altro pallone e farlo firmare anche per Ed? .. solo che a lui il football non piace..” si chiese subito dopo, osservando ammirato il pallone. Susan sorrise. “il football non gli piace, ma credo apprezzerà comunque il pensiero” -

Il modellino di treno che i miei avevano regalato a Eustace per Natale, l’anno in cui gli zii ospitarono Ed e Lu.

- “cosa dici dovremmo comprare a Eustace?” domandò Susan, lo sguardo che osservava i diversi modellini di macchine , aerei, treni e navi esposti nella vetrina del negozio.  “che ne dici se non gli compriamo niente?” borbottò contrariato Peter, che ancora non credeva che il cugino fosse cambiato. “oh, Peter, non possiamo non regalargli nulla dopo che gli zii hanno ospitato così a lungo Ed e Lucy” lo rimproverò la madre. “aah, quanto vorrei che qualcuno mi regalasse quel trenino!” sospirò sognante Andrew, indicandolo attraverso il vetro. Helen gli lanciò un’occhiata di traverso. “vorrà dire che gli compreremo quello” decise convinta, entrando poi baldanzosa nel negozio, seguita dallo sguardo sorpreso dei due figli maggiori e quello offeso del marito. –

 

Sembravano passati pochi attimi, da quei giorni felici. Eppure, paradossalmente, mi pareva anche che fossero passati secoli.

È stato solo quando ho tolto un grosso telo tutto macchiato dal fondo del cassettone che ho trovato il cofanetto.

Era in velluto rosso, non troppo piccolo ma nemmeno grande, con una piccola serratura dorata a sigillarlo. Lucy teneva sempre la chiave al collo con una catenina, quasi fosse la cosa più preziosa che possedesse.

Eppure, quando ho tentato di aprirlo, s’è aperto senza alcuna resistenza, lasciandomi osservare con sguardo stupito il suo contenuto.

C’era una penna viola mezza scarica, una scatoletta trasparente con dentro gli orecchini d’oro bianco che papà aveva regalato a Lucy sempre per il suo sedicesimo compleanno, qualche foglio piegato e una boccetta.

La stessa boccetta che, anni addietro, Babbo Natale aveva donato a Lucy. Il liquido al suo interno s’era esaurito quando aveva passato il confine tra i due mondi: in questo mondo, i Fiori di Fuoco non esistono e la pozione di Lucy derivava proprio da quelli. Al suo posto, però, era apparsa una sottile polverina dorata.

Accanto alla boccetta, l’orologio a cui Edmund era tanto affezionato. Non ci ha mai voluto rivelare dove l’avesse comprato o chi gliel’avesse donato, ma non se ne separava mai, ed ogni tanto lo tirava fuori di tasca e seguiva il contorno delle lettere sul retro con aria pensosa: “non si può tornare indietro, si può solo andare avanti”.

Le batterie non si erano mai scaricate, nemmeno una volta. Nemmeno ora, hanno smesso: il ticchettio sommesso ha invaso la stanza, sorprendendomi.

L’ho preso in mano, fissando stupita le lancette argentate che si muovevano lungo il quadrante: com’era possibile?

Lo specchio che stava al centro del lato sollevabile del cofanetto era occupato da tantissime foto: foto di Lucy con le sue amiche, dei nostri genitori, di Jill e Eustace .. al centro di tutte queste, però, primeggiava la nostra: la stessa che anch’io tenevo sul comodino, quando ero in America.

Seduti su quella panchina della stazione, stretti nelle nostre divise scolastiche, non eravamo quattro sovrani, solo quattro ragazzini che vivevano nel mondo sbagliato.

E, appiccicato con lo scotch in un angolo della foto, un foglietto bianco a quadretti con la calligrafia ordinata di Peter ad occuparlo: la speranza è l’ultima a morire.

 

 

NdA~

Questa cosa informe non ha senso, eppure la voglio pubblicare lo stesso perché ci tengo.

Ci tengo perché immedesimarmi in Susan non è stato affatto facile, eppure ho voluto provarci lo stesso.

Perché è un mese che sono dietro a scriverla, e finalmente l’ho conclusa.

Non so se è bella o brutta, questo me lo dovete dire voi. A me piace per il semplice motivo che ci ho messo l’anima.

Non so se Susan, alla fine, sia tornata a Narnia o no. Ma credo che, comunque, sia tornata a crederci.

“Quando si è Re o Regine di Narnia, lo si è per sempre.”

L’orologio di Edmund ed il trenino di Eustace sono oggetti già apparsi nella mia raccolta “N o v e n a”.

 

Sappiate che i tempi verbali di questa storia mi hanno mandato in tilt il cervello almeno venti volte, e ringrazio tutti gli dei del cielo che hanno inviato la Lily a farmi da Beta.

Grazie, Zuccherino <3

Null’altro da dire se non che, come sempre, recensioni anche negative sono ben accette u.u

See Ya! <3

_ L a l a

   
 
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