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Autore: egovincitomnia    09/06/2011    1 recensioni
Era semplicemente freddo in quella notte, che sembrava assuefarsi di quel sibilo confuso che proveniva dai polmoni di quel pover'uomo costretto ad una scomoda sedia traballante.
Storia classificata 2^ al contest "Gli Argomenti Scomodi" indetto da LaNoiaIncombe.
Genere: Dark, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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No one left blame

No one left to blame.


Era semplicemente freddo in quella notte, che sembrava assuefarsi di quel sibilo confuso che proveniva dai polmoni di quel pover'uomo costretto ad una scomoda sedia traballante.
La stanza era buia, nonostante un filo di luce speranzosa filtrasse attraverso le pesanti tende nere.
La giornata ormai aveva perso la sua florida brillantezza, le luci distratte delle auto si scontravano con le gocce di pioggia che lente bagnavano l'ambiente all'esterno, anche i cani avevano perso la voglia e le forze di abbaiare sotto quel cielo pesante.
Anche lui non aveva più voce in gola e speranza nel cuore per implorare aiuto.
La sua unica compagnia era la figura zoppicante del terrore che gli appannava i sensi, gli stringeva la cassa toracica intorno al cuore e ai polmoni, impedendogli il respiro, che fino a quel momento gli era sembrato così poco importante da incatramarlo con le sigarette.

Voltava la testa ritmicamente a destra e a sinistra per capire dove fosse la porta d'entrata, la sua unica possibilità di uscire, ma l'oscurità fitta gli feriva solo gli occhi sforzati.
Un attimo, una fenditura nel buio s'accese e si spense, e quando il sipario si scosse, lui non poteva che partecipare a quella buffa recita ch'era il giorno che lui aveva identificato come la sua fine, senza la possibilità di un perdono o di una tranquilla ritirata.
La figura lo slegò velocemente, l'uomo si allontanò dalla sedia, percorse la strada che lo divideva dalla finestra annaspando e guardò giù per la strada. Non c'era nient'altro che le stesse pigre auto che proseguivano per la loro via.
Una mano gli si posò sulla spalla con convinzione, e l'aria si fermò nel gelo di quella stanza – i minuti scricchiolarono sotto i passi incerti dell'uomo, che fu costretto a cadere perché le sue gambe non erano più in grado di sostenere il peso di quella paura.
Lui, il secondo arrivato nella stanza, non si mosse. Rimase con una guancia parzialmente illuminata dalla luce di uno dei lampioni al di fuori del vetro appannato. Sembrava che non respirasse nemmeno, a differenza dell'altro che era così fastidioso.

Il vento morse profondamente la quiete esterna, e con lo stesso suono di prima, gli alberi s'inclinarono sotto gli ululati dell'aria.
«Dammi la mano.» proferì la voce roca e profonda uscita dall'ombra avvolta nell'oscurità.
E atterrito, John si limitò a mettere la sua tremante estremità in quella dell'altro. Lo aiutò ad alzarsi, e lo portò nuovamente alla stessa, snervante sedia di prima. Lo costrinse a sedersi con una pressione sulle spalle, e gli si appoggiò con i gomiti sulle scapole.
«Chi sei? Cosa vuoi da me?» esalò quello seduto, cercando di mantenere la voce più ferma che avesse potuto.
«Siamo curiosi.» ridacchiò l'altro «Ma hai il diritto di sapere chi sono. Jaques Vince Cox, piacere. E quello che voglio da te... è comprensione.»
Si mosse rapidamente, Jaques, ed accese la fredda luce al neon che rivelò il suo volto.
Un uomo biondo, con gli occhi di un tenue color nocciola. I lineamenti morbidi, gli zigomi alti, un fisico nella media. Quello che rimase impresso negli occhi di John Casbury come su pellicola, fu la sanità mentale che fluì via in un solo istante dalle iridi dell'altro, sostituita dalla follia, durante la loro breve conversazione.
«Ti ho osservato molto, a lavoro, a casa, da Chatrine. Smagliante, con tutti, anche con tua moglie.
Ma quello che ti chiedo ora è, come può un uomo, vigliacco e pieno di rimorsi per natura, proseguire a macchiare la sua anima di peccati?»
«Non credo in Dio.» rispose l'altro mantenendosi composto.
«Ti ho chiesto se credi in Dio?» chiese nuovamente l'altro, avvicinandosi al suo viso, e baciandogli delicatamente le labbra scottanti.
«Non mi sono macchiato di alcun peccato.»
«Ah, no? Allora, non era forse adulterio quello che hai consumato prima che ti prelevassi per questa piccola visita? O forse, non era guidata dall'ira quella soffiata sugli orari irregolari del tuo collega?»
Sbuffò un semplice “cosa te ne frega?” e fu quello il momento in cui gli occhi di Jaques persero quanto di umano avessero mai potuto avere.
Il biondo gli si avvicinò, lo prese per la stessa mano che aveva usato per condurlo sulla sedia, e lo fece uscire per una piccola porta che John non aveva notato fino a quel momento, poiché dipinta dello stesso colore perlaceo delle pareti.
Il nuovo locale era più piccolo del primo, ma era sufficiente a contenere il lettino che vi regnava in mezzo. Jaques intimò il suo compagno a sedervisi, e come incantato da un ossequioso rispetto, Casbury eseguì.
«Ti chiedo di nuovo, amico mio, come hai potuto continuare a macchiare la tua anima di peccati?»
«Non credo che esistano i peccati. Dovrei essere religioso per crederlo.»
Lo esortò a sdraiarsi, e John quasi divertito da quella pantomima che per il momento era innocua, lo fece con aria di sfida.
«E dunque tu non credi a niente...»
«Esattamente. A niente che non riguardi me.» L'interruppe sorridendo beffardo il moro.
Cox arricciò il naso, «Tu, quindi, non hai mai pregato?»
«Da piccolo, quando mi costringevano ad andare in chiesa.»
L'altro si lasciò scappare un sorriso, e si chinò sotto il lettino ad estrarre un piccolo tubetto di plastica che tenne aderente alla propria coscia, iniziò poi a fermare i polsi di quello sdraiato.
«Lo sai che differenza c'è fra questo posto e la chiesa in cui andavi quando eri piccolo?»
John lo guardò stranito, e sussurrò di non saperlo, cercando di liberarsi gli arti.
«Qui pregherai per davvero.»
Il bisturi che fino a quel momento era stato scaldato dalla coscia di Jaques aderì velocemente alla bocca dello stomaco di Casbury, che fu costretto a soffocare la richiesta di spiegazioni in un urlo disperato.
«Ipocrita.
Ti ho osservato predicare buoni propositi, parlare di fedeltà, abbracciare tua moglie, e venti minuti dopo andare a letto con l'altra.» finì d'incidere, e il ventre era bianco mentre una sottile linea rossa lo attraversava, in attesa.
Pochi secondi, e l'odore del sangue si diffuse in tutta la stanza.
«Perché?» riuscì appena a proferire l'altro, prima di inarcare la schiena in una contrazione dolorosa che aprì ancora di più quel taglio netto.
«Meriti la morte. Ti sto dando quello che meriti. Ti piace il concetto di 'merito', no?» Jaques si leccò le labbra e affondò nelle viscere dell'altro le mani, e le estrasse rapidamente.
Prelevò, dallo stesso punto dove aveva preso l'arma bianca, del sale e ne liberò alcuni cristalli nel corpo vivo dell'altro.

Casbury ipotizzò per un momento che se lo meritasse, prima che l'osmosi prendesse a corrodergli i tessuti.
Nei suoi ultimi attimi, mentre il suo Giudice gli stava infliggendo la pena capitale, voltò le sue memorie a quello che il tempo gli permise.
Aveva visto Chatrine, e avevano passato quindici minuti in paradiso, come sempre, da quando andavano a letto insieme. Provava qualcosa per lei? Forse. Ma era una bella donna, e questo gli bastava.
Il lavoro... aveva fatto licenziare quel suo collega. Quel mattino, sua moglie lo aveva baciato e gli aveva detto che non vedeva l'ora di rivederlo quella sera.
E pian piano, focalizzò la presenza di sfondo di Jaques, in ogni angolo, fra la folla.
Come aveva potuto non rendersene conto?
Che stupido.
Il suo corpo si contrasse per l'ultima e più sofferente volta, mentre sentiva distintamente che qualcosa, sul suo lato destro gli stava venendo estratto da quella sagoma che con il passare del tempo si era fatta così sfocata.
Il suo urlo di dolore gli parve lontano, come se non fosse nemmeno uscito dalla sua stessa bocca.

Vedo ancora una luce.

   
 
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