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Autore: _hurricane    11/06/2011    26 recensioni
Kurt pensò che il Seattle Grace Hospital fosse un posto davvero speciale. I medici erano molto gentili e disponibili, e soprattutto sembravano nascondere decine di segreti e relazioni clandestine che avrebbe volentieri cercato di smascherare. La sua stanza era tranquilla ed appartata, e i fiori freschi che Blaine gli aveva lasciato sul comodino l’avevano riempita di un bellissimo e dolce profumo di primavera.
Kurt pensò che quello fosse il posto giusto per morire.
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“Adesso devi proprio dirlo. Dimmi addio, Blaine. E fallo bene, perché l’ultima cosa che voglio vedere prima di lasciare questo mondo è il tuo sorriso”.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Non chiedetemi perchè l'ho scritta, perchè proprio non lo so. So solo che l'idea è balenata dal nulla e mi è rimasta in testa per tutto il giorno, e alla fine la mia vena tragica ha avuto il sopravvento. Vi chiedo scusa in anticipo, non odiatemi.



“Buongiorno tesoro! Sei bellissimo come al solito!” disse Blaine entrando sorridente nella piccola stanza bianca, per poi avvicinarsi al letto di Kurt e dargli un bacio sulla guancia. Prese i fiori di qualche giorno prima dal loro vaso e li sostituì con un mazzo nuovo, appena comprato. Kurt lo guardò sorridendo appena e disse: “Non sei obbligato a mentire per me, amore”.

Blaine, dopo aver gettato i fiori ormai appassiti nel cestino accanto alla porta, si mise a sedere alla sua solita postazione, accanto al letto, e gli prese la mano piena di piccoli tubicini trasparenti. Iniziò a darle baci leggeri, percorrendo con le labbra il palmo e poi ogni singolo dito. Kurt rise, a causa della lieve ma piacevole sensazione di solletico.

“Infatti non sto mentendo” – rispose il ragazzo moro, appoggiando la guancia alla mano dell’altro, – “sei bellissimo”. Kurt si lasciò convincere dallo sguardo sognante del suo fidanzato, nonostante fosse assolutamente certo del contrario. Soltanto Blaine, che lo amava in un modo folle ed incondizionato, poteva dire una cosa del genere ad uno che aveva perso i capelli ed il colorito delle guance dopo due cicli di chemioterapia, e addirittura dirla credendoci.

“Che cosa ti va di fare oggi?” riprese Blaine con tono allegro.

“Non lo so… oh, ora ricordo. Volevo tanto sapere quale colore sarà di moda quest’estate, ma in questa TV non si vedono i canali satellitari delle sfilate. Non è che potresti cercare in sala d’attesa qualche rivista recente?”

“Ma certo amore” rispose Blaine, enfatizzando quella parola come se non l’avesse mai detta prima. In realtà, la usava più o meno cinquanta volte al giorno, e aveva sempre paura che fossero troppo poche. Viveva con la paura che ogni volta potesse essere l’ultima. Si alzò dalla sedia e uscì dalla stanza a passo svelto, desideroso di tornare al più presto da Kurt.

Passarono alcuni minuti, e Kurt si ricordò che era ora del giro di controllo mattutino. Puntuali come sempre, il dottor Sheperd e la dottoressa Grey fecero capolino nella stanza, lui con in mano la sua cartella clinica e lei con vari fogli, probabilmente risultati di esami. Kurt aveva già saputo dalle infermiere che i due erano sposati, e ogni volta che li vedeva entrare tenendosi per mano per poi separarsi, con l’intento di sembrare più professionali, non poteva fare a meno di intenerirsi. Alcune volte si accorgeva delle loro occhiate complici, mentre si incrociavano per caso nel corridoio che poteva intravedere dalla porta. Pensava che fossero davvero una bella coppia.

“Allora, come stiamo oggi?” disse l’affascinante neurochirurgo dai capelli neri e sempre perfetti, pur senza il minimo accenno di gel. Più di una volta Blaine si era dilungato su quanto ne fosse invidioso.

“Beh, come sempre direi” rispose Kurt accennando un sorriso. Guardò il medico e poi sua moglie, domandandosi perché erano rimasti in silenzio. Da quando era stato trasferito in quell’ospedale, visto che era considerato uno dei migliori degli Stati Uniti, non li aveva mai visti esitare così. Riuscivano sempre a trovare qualcosa di ironico da dire, per tirarlo su o semplicemente per far passare il tempo durante le frequenti trasfusioni, o mentre gli mettevano la flebo, per distrarlo. Alzò un sopracciglio, preoccupato.

“Kurt, dobbiamo dirti una cosa” disse Meredith Grey facendo un passo verso il bordo del letto. Lei ormai lo chiamava per nome: lui glielo aveva praticamente imposto. Sentirsi chiamare “Signor Hummel” lo faceva sentire vecchio, e creava una certa confusione quando c’era anche suo padre nella stanza. Il ragazzo la guardò e deglutì: quella era l’espressione che aveva sempre temuto.

“Purtroppo il ciclo che hai appena terminato non ha funzionato e… il cancro è ricomparso. C’è una componente genetica molto forte ereditata da tua madre, perciò è più difficile sconfiggerlo”. La dottoressa scandì le parole lentamente, in modo da non doverle più ripetere. Abbassò lo sguardo, sinceramente dispiaciuta per quel ragazzo al quale stava iniziando a volere bene.

“Oh” – rispose Kurt seccamente, stringendo i pugni sotto le lenzuola, – “e quindi cosa posso fare?”

Meredith e Derek si lanciarono un’occhiata, e fu lui a rispondere: “Il nuovo tumore non è operabile, è in una parte troppo interna del cervello. Dovresti fare un altro ciclo di chemio, ma… voglio essere sincero con te, Kurt. Credo sia… credo sia inutile che tu soffra oltre. Ho parlato con l’oncologo, lui consiglia di rimanere qui per farti monitorare, ma niente di più. Ovviamente, sta a te decidere”.

Kurt abbassò lo sguardo, cercando di trattenere le lacrime. Doveva essere forte, per Blaine, suo padre e la sua famiglia: lo aveva promesso a sé stesso. “Quanto… quanto mi resta?” chiese risoluto, anche se le sagome dei due dottori iniziavano ad essere appannate.

“Non possiamo dirlo con certezza. Un… un mese, credo. Un mese al massimo” rispose Derek in tono piatto, cercando di mantenere le distanze come si imponeva sempre di fare, quando doveva dare notizie del genere. Non poter essere in grado di fare nulla lo infastidiva, lo faceva sentire inutile, e vedere vite spezzarsi così, soltanto perché il destino lo aveva deciso, era troppo da sopportare già di per sé, senza che si affezionasse.

Kurt si portò una mano alla bocca ed iniziò a singhiozzare silenziosamente; poi si girò dall’altro lato, cercando di soffocare il pianto con il cuscino. I due dottori si guardarono, e senza farsi sentire abbandonarono la stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Il ragazzo strinse la federa con le unghie, nel tentativo di non gridare per la rabbia, la frustrazione e il rimpianto per tutte le cose che non avrebbe potuto fare. Cercò dentro sé stesso la forza di calmarsi, riportando il respiro affannato ad un ritmo più normale. Blaine sarebbe tornato a momenti, e suo padre li avrebbe raggiunti nel pomeriggio insieme a Finn e Carol, per dargli il cambio e farlo dormire un po’. Non poteva permettersi le lacrime. Se le asciugò velocemente con il retro del cuscino, così che nessuno potesse vederne i segni.

“Cavolo, è stata una vera impresa!” disse Blaine entrando dalla porta con un blocco di riviste sotto braccio. Le poggiò sul comodino di Kurt, accanto al vaso con i fiori, e si sedette nuovamente. “Non le leggi?” disse poi, vedendo che l’altro non accennava neanche a guardarle. Kurt chiuse gli occhi e sospirò.

“Blaine” disse semplicemente, una volta che li ebbe riaperti. Il ragazzo, che gli aveva già preso la mano, gliela strinse forte e si irrigidì. Kurt potè sentire i muscoli del suo braccio tendersi, ogni singola fibra del suo corpo letteralmente terrorizzata. “Blaine, dobbiamo dirci addio”.

Il moro sgranò gli occhi, lasciando che una grossa lacrima gli rigasse il viso. Istintivamente si ritrasse, ma senza lasciare la mano pallida del compagno. Iniziò a guardare in tutte le direzioni, come per cercare un appiglio che non c’era. “C-cosa stai dicendo Kurt?” rispose allarmato, con voce debole.

“Forse non avrei dovuto dirtelo. Ti prego, perdonami Blaine. E’ solo che… volevo che tu avessi l’occasione di dirlo. Perché forse, se riuscirai a dirlo, riuscirai anche ad andare avanti e io me ne andrò sapendo che sarà così. Perciò dillo, Blaine. Dimmi addio. Ti prego”. Anche le guance smunte di Kurt ormai erano rigate da una scia di lacrime salate. Si morse il labbro inferiore, sforzandosi di non singhiozzare, perché sapeva che facendolo avrebbe distrutto Blaine ancora di più, per quanto fosse umanamente possibile.

“I-io non… io…” biascicò Blaine mentre affondava il viso tra le lenzuola candide, accanto alla mano di Kurt, che iniziò ad accarezzargli i capelli con l’altra.

“Non puoi lasciarmi” ripeteva Blaine quasi convulsamente, la voce attutita dal materasso. “Non puoi lasciarmi. Non puoi. Non puoi lasciarmi, Kurt!” esplose, alzando nuovamente il viso e mostrando gli occhi arrossati.

Kurt si voltò verso la finestra, per non doverlo più guardare. Faceva male, più male di qualsiasi tipo di radiazione o di ago piantato nella carne. Faceva così male, da fargli mancare il respiro nel petto. “Ho un mese, un mese al massimo” – rispose senza girarsi, cercando di assumere un tono controllato, - “e voglio che tu sia preparato, Blaine. Non voglio che tu rimanga… spiazzato. Voglio che tu viva. Ti prego, ti prego Blaine. Promettimelo. Promettimi che vivrai, che vivrai per me”.

Blaine iniziò a singhiozzare senza controllo, e Kurt non riuscì più a mantenere lo sguardo altrove. Si fiondò su di lui e gli prese il viso tra le mani, costringendolo a guardarlo dritto nei suoi occhi chiarissimi – quelli, almeno quelli, erano rimasti invariati nonostante tutto. All’improvviso smise di sentirsi debole, a contatto con il calore di quelle guance piene di vita, una vita tutta da vivere. Lo baciò, baciando così anche le sue lacrime e sperando di poterle portare via tutte, con il semplice tocco delle sue labbra. Ma sapeva che purtroppo non sarebbe stato così.

 

* * *

 

Passò una settimana. Ne passarono due. Kurt impose a Blaine e suo padre di non chiamare nessun altro: non avrebbe sopportato di vedere tutti i membri del Glee Club di qualche anno prima riuniti intorno al suo letto, in preda allo sconforto. Erano andati a trovarlo spesso, quando era ancora all’ospedale di Lima, e un’ultima volta prima che venisse trasferito. Si disse che avrebbe scritto una lettera da spedire ad ognuno di loro, sperando che gli avrebbero perdonato quel segreto taciuto.

Quella mattina, Kurt si svegliò con una sensazione strana. Era come se vedesse il mondo intorno a lui in modo diverso, da un’altra prospettiva: all’improvviso tutto sembrava lontano, distante. Era come se potesse guardare le cose dal di fuori: il suo corpo scarno e dimagrito, i fiori onnipresenti sul comodino e Blaine, la sua testa dai capelli scompigliati appoggiata sul letto mentre dormiva ancora, dopo essersi addormentato sulla sedia la notte prima. Sempre con quella sensazione addosso, si guardò intorno in cerca di suo padre. Essendo molto mattiniero, sicuramente era andato a prendere un caffè al bar. Sorrise: era contento che trovasse la forza di mangiare, bere, fare qualsiasi cosa che fosse lontanamente normale e ordinaria. Era così che avrebbe dovuto essere.

“Blaine…” – disse piano, scuotendolo per le spalle, - “…Blaine, svegliati”. Il ragazzo mugugnò per qualche secondo, e a poco a poco si svegliò. Si stropicciò gli occhi impastati, ma essendo sempre sul “chi va là” si mise subito a sedere, preoccupato.

“Adesso devi proprio dirlo. Dimmi addio, Blaine. E fallo bene, perché l’ultima cosa che voglio vedere prima di lasciare questo mondo è il tuo sorriso”.

Blaine lo guardò fisso per quasi due minuti, durante i quali gli occhi gli diventarono così lucidi da rendere impossibile distinguere le pupille dal resto. Fece uno sforzo enorme per trattenere le lacrime e ricacciarle indietro; ci era quasi riuscito, quando una lo tradì e scivolò veloce fino al suo mento. Se la asciugò con un dito, deciso ad esaudire quel bellissimo, ultimo desiderio. Si schiarì la voce, per dare sfogo a tutto ciò che gli passava per la testa: non avrebbe avuto un’altra occasione.

“Non sai quante cose avrei voluto fare con te” iniziò, prendendo Kurt per mano. “Ti avrei chiesto di sposarmi in un modo stupidissimo e surreale, come nelle commedie romantiche in cui tutto va a finire bene. Magari ti avrei fatto trovare l’anello dentro un bicchiere di champagne, o in una fetta di torta con panna e fragole. Oppure avrei inventato una canzone terribilmente sdolcinata da poterti cantare, accompagnato da un suonatore di violino. E poi, se tu mi avessi detto sì” – a quel punto, Kurt lo guardò alzando un sopracciglio, – “avrei organizzato la luna di miele in giro per l’Europa. Ti avrei portato a vedere Londra, Parigi, Milano, ti avrei portato ovunque tu avessi desiderato. Avrei comprato una casa in montagna, di quelle con il parquet e il caminetto a legna, come piacciono a te. E tutti i giorni, tutti i santi giorni, avrei trovato il modo di dimostrarti che ti amo. E adesso… vivrò con il rimpianto di non aver potuto fare nessuna di queste cose”.

Kurt lo guardò negli occhi, sorridendo nonostante le lacrime impossibili da trattenere mentre Blaine parlava. “Non è vero,” – rispose tranquillo – “hai fatto quella più importante. Non c’è stato giorno, da quando mi hai baciato per la prima volta, in cui non sono stato sicuro di essere amato da te. Perciò non avere rimpianti Blaine. E adesso, sorridi”. Con la mano libera dalla sua stretta, gli accarezzò una guancia, aspettando che lo facesse.

Il ragazzo lo accontentò, pur non mostrando i denti – era impossibile. Però riuscì a far sorridere anche Kurt, che si ritenne soddisfatto e si riappoggiò al cuscino, lasciando la guancia di Blaine. Questi abbassò lo sguardo, avvilito. “Non… non sono pronto Kurt. Non sono pronto a dirlo”.

Ma non ricevette risposta. Invece della voce debole ma sempre squillante di Kurt, sentì il suono assordante e insopportabile del monitor accanto al suo letto. Alzò lo sguardo: una linea bianca e piatta scorreva indifferente sullo schermo. Blaine scattò in piedi di colpo, facendo cadere la sedia sul pavimento.

“Kurt! KURT!” iniziò a gridare prendendolo per le spalle e scuotendolo con forza. “Non sono pronto, non sono pronto Kurt! Dammi un altro giorno, un’altra ora, un minuto, ti prego! KURT!”

Si chiese come mai nessuno intervenisse, ma poi, in un fugace attimo di lucidità, si ricordò che Kurt aveva firmato il documento per non essere rianimato, nonostante lui fosse contrario: egoisticamente, avrebbe preferito “tenerlo in vita” anche da vegetale. Perché almeno, in quel modo non avrebbe mai dovuto dire quella parola. Gli prese il viso con tutte e due le mani e se lo strinse forte al petto, cercando di formulare quelle poche lettere così dannatamente semplici. Ma più si sforzava, più gli si bloccavano in gola, a metà, come se persino il suo organismo si fosse opposto per non fargliele pronunciare. Il suono insistente delle macchine gli penetrò nel cervello, nel cuore, mentre affondava la testa tra la spalla e il collo di Kurt cercando di non sentirlo. Ma era inutile.

La persona che amava di più al mondo non c’era più.

   
 
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