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Autore: devilrose1982    15/06/2011    1 recensioni
"una torcia che le illuminava dal basso la maschera sul viso, era un ghigno, un ghigno nero e bianco, plastificato, un ghigno che rappresentava un urlo o la faccia sgomenta di chi voleva urlare..."
Non farò il nome del protagonista, ma c'è un chiaro riferimento nella seconda parte della storia che solo in pochi appassionati coglieranno!
Genere: Demenziale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quindici minuti mi dividevano da lui
Lui, il mio sogno proibito degli ultimi tre anni.
Ho ancora scolpito nella mente il ricordo della prima volta che lo vidi, un ricordo chiaro, vivio, scolpito per sempre nel marmo della mia memoria, indelebile.
Me ne stavo seduta in presidenza masticando una gomma con gli occhi bassi e l'aria sfuggente, stravaccata su quella scomoda sedia di plastica grigia in quell'asettico stanzone, incurante del resto del mondo, nell'attesa che il preside della nuova scuola mi consegnasse il mio piano di studi.
Poi, come una ventata d'aria fresca in quel torrido pomeriggio di inizio settembre era entrato lui nella stanza.
Una montagna in confronto a me, piccola e minuta.
Era di una bellezza da togliere il fiato, fisico scolpito, occhi profondi e una voce che faceva tremare.
Fu come un fulmine a ciel sereno.
Improvvisamente i miei occhi si erano illuminati di una luce nuova e la mia totale riluttanza verso quella nuova città, quella nuova scuola non esistevano più.
Puff, svanite nel nulla.
Inutile dire che mi ignorò, come se fossi un ectoplasma, come se nemmeno esistessi, come se fossi un organismo etereo, privo di qualsiasi forma.
Tre anni sprecati dietro a lui che ignorava la mia esistenza.
Totalmente.
Perlomeno fino a un mese fa, fino a quella sera di cui ricordavo ben poco, se non una casa piena di gente, perlopiù sconosciuta, la musica assordante e il troppo alcool in circolo nelle vene, i suoi occhi apparsi all’improvviso nel bel mezzo di una festa, la sua sagoma statuaria che pian piano si avvicinava, la sua mano che sfiorava la mia nel tentativo di afferrare il bicchiere dalle mie mani, aveva bevuto continuando a tenere gli occhi fissi nei miei, ancora birra, ancora musica assordante e le sue braccia forti intorno a me, il suo profumo maschio e le sue labbra incollate alle mie, per il resto della notte, una folle notte in cui le nostre lingue avevano danzato una danza primordiale, in cui i nostri corpi si erano uniti, avidi di incontrarsi, avidi di possedersi a vicenda e di non lasciarsi più.
 
 
Passeggiavo avanti e indietro fuori dalla palestra, nell’assurda paura di arrivare in ritardo mi ero presentata con 15 minuti di anticipo, avrei fatto la figura della disperata che non ha niente da fare se non aspettare il suo bello, presi una sigaretta dalla borsa, e la misi in bocca, l’accesi e iniziai ad aspirarne il fumo sperando di sopperire così l'ansia che si era impossessata di me.
Appoggiata al muro esterno del grande edificio in cemento rosso chiusi gli occhi abbagliata dalla luce del sole al tramonto, era quasi la fine di maggio e i raggi del sole mi bruciavano la pelle nonostante fosse ormai quasi sera.
Sentivo in lontananza il rumore dei rimbalzi del grosso pallone da basket rimbombare sul parquet e sbattere contro il ferro, facendolo vibrare a ogni colpo non andato a segno.
Un altro rumore, adesso la palla doveva aver sbattuto contro il tabellone, da quella posizione riuscivo perfettamente a vedere dentro l'edificio senza essere vista da nessuno.
Lui era stupendo, il fisico scolpito, i muscoli guizzanti e perfetti messi in risalto da una canotta aderente, nera e rossa.
Stava da Dio.
Mancavano ancora dieci minuti all'appuntamento, ma lui era già li.
Forse sarei dovuta entrare, perlomeno non avrei dato l’impressione di essere la classica fighetta che si fa aspettare sempre, ma mi piaceva osservarlo in silenzio, senza che lui potesse vedermi.
Mi spostai dalla porta allontanandomi la sua celestiale vista da davanti agli occhi, mi appoggiai con le spalle al muro, chiusi gli occhi facendomi mentalmente coraggio ad affrontare quella situazione, ad incontrare lui.
Spostai la testa all'indietro e iniziai il training autogeno per regolarizzare il respiro e cercare di riportare i miei battiti ad un livello accettabile, era più difficile di quanto pensassi, la vista di pochi minuti prima mi aveva scombussolata all'inverosimile, la vista dei suoi muscoli perfetti, lievemente imperlati dal sudore mi aveva lasciato addosso un senso di... smarrimento.
Era l'ora di farmi coraggio ed entrare là.
Spinsi la porta sul retro col cuore in gola, emozionata al solo pensiero che sarei rimasta lì, sola con lui mi faceva provare un'immenso brivido di gioia.
Che svanì presto.
L'enorme stanzone era vuoto, silenzioso, completamente al buio, non filtrava la luce da fuori, se non un flebile raggio di sole che trapelava timido dal minuscolo oblò da cui fino a cinque minuti lo avevo ammirato in tutto il suo splendore.
Appunto, fino a cinque minuti l'avevo ammirato, dove diavolo era finito adesso?
Sentii dei passi avvicinarsi, pesanti, regolari, girai su me stessa smarrita, non riuscivo a capire da dove provenissero quei passi, venivano dall'angolo più buio della stanza, là dove non riuscivo a scorgere niente a causa dell'oscurità...  "Mark, sei tu?"
Nessuna risposta, solo una risata, rauca, soffocata… spettrale.
E il rumore dei passi che piano piano si avvicinavano sempre di più a me, fino a quando riuscii a distinguere di fronte a me una figura alta, informe, nera e sentii il sangue coagularsi nelle vene.
Le mie gambe tremavano, non riuscivo a muovermi, sentii il cuore bloccarsi di colpo per poi scoppiare e iniziare a battere furiosamente.
Volevo urlare, volevo urlare con tutta la mia forza ma come nel peggiore degli incubi la voce mi moriva in gola, non riusciva ad uscire, soffocata nel petto.
La figura nera si bloccò a pochi passi da me, riuscivo a delinearne i contorni ma non a distinguerne i dettagli, ancora risate oscure.
Teneva in mano una torcia che le illuminava dal basso la maschera sul viso, era un ghigno, un ghigno nero e bianco, plastificato, un ghigno che rappresentava un urlo o la faccia sgomenta di chi voleva urlare.
Come doveva apparire in quel momento il mio viso.
Istintivamente indietreggiai, non appena mi fosse stato possibile sarei scappata, avrei corso senza voltarmi per guardare indietro, senza fermarmi fin quando le mie gambe avrebbero retto.
Indietreggiai di qualche passo fino a quando incapace di muovermi ancora inciampai nel cesto dei palloni da basket cadendo rovinosamente a terra.
Ora ero veramente fottuta.
Mi avrebbe raggiunta in men che non si dica, avrebbe fatto di me qualsiasi cosa, probabilmente, prima di ridurmi in brandelli.
Invece stava lì immobile a fissarmi con quell’orrenda maschera, facendomi rabbrividire sempre di più.
Mi alzi tenendo lo sguardo fisso su di lui, mi ricordo che iniziai a correre mentre la voce finalmente era riuscita ad uscire, pulita, squillante, rabbiosa, un urlo liberatorio si faceva largo dai miei polmoni per liberarsi fuori, stavo correndo con le gambe che rischiavano di spezzarsi ad ogni passo tanto era l’impeto che ci stavo mettendo, urlavo e correvo mentre sentivo i passi pesanti corrermi dietro e una voce che stavo ignorando che sentivo chiamarmi per nome mentre si avvicinava a me, sempre più velocemente, sempre più vicina fino a quando sentii braccia forti, braccia robuste che mi bloccavano, urlai più forte che potevo, incurante del fatto che di lì a quell’ora non passasse mai nessuno che potesse correre in mio aiuto.
Poi quelle braccia strinsero più forte, mi strinsero a se e quella voce calda che mi faceva sussultare ogni volta “Calmati” mi sussurrava mentre il suo respiro caldo mi paralizzava le viscere, sentivo le sue labbra sfiorarmi l’orecchio, un’estasi di sentimenti contrastanti
“Sei un coglione Mark” gli battei sul petto con i pugni, tanta era la rabbia che avevo dentro.
Avrei pianto se non avessi rischiato di fare ancora di più la figura dell’idiota.
Allentò la presa e lo potei ammirare in tutto il suo splendore, visto così da vicino era ancora più bello di quanto ricordassi, certo, un fottuto idiota, ma pur sempre bello da togliere il fiato.
“Dai era solo uno scherzo piccola”
“Non era divertente” risposi imbronciata mentre mi massaggiavo il polso ancora dolorante per il pugno che avevo cercato di assestare contro al suo petto.
Un altro brivido, l’ennesimo della giornata, questa volta dolce, piacevole.
Il brivido che mi dava il suo corpo ogni volta che mi stringeva a se, il brivido che mi davano le sue labbra ogni volta che con impeto si appoggiavano sulle mie.
“Sei un coglione Mark” ripetei cercando di riprendere il fiato dopo quel bacio, stretta nel suo abbraccio.
 
 
 
   
 
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