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Autore: ele_lele    16/06/2011    1 recensioni
Aveva vent’anni e già conosceva il dolore.
Aveva vent’anni e già conosceva la solitudine.
Aveva vent’anni e già conosceva la morte.
Ma non sapeva cosa fare davanti a quello spettacolo divino e infingardo che la natura beffarda gli aveva messo davanti.
[Aveva vent’anni e non sapeva cosa volesse dire amare.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IcarusII
  A Mirya, che ha letto con pazienza questa storia tempo fa e che non ha mai spesso di ingoraggiarmi ad andare avanti.                         
                          A Gaia che sopporta tutte le mie parole e i miei discorsi insensati e riesce sempre a cogliere il nocciolo del problema.
                         Ad Angelo, che ha letto la mia storia con le lacrime agli occhi ed in silenzio.
                         A tutte le Miryavigliose (e meravigliose) persone che per me ci sono sempre.
                                                   Grazie, di cuore.
              Grazie in particolare a samy88, che, involontariamente, mi ha fatto da Beta.

                                                  



ICARUS

Diceva di chiamarsi Corinna e di provenire dalle calde terre del Sud, ma aprendo il piccolo blocco dei disegni che teneva nella borsa si leggeva “Proprietà di Corinna Robins”, evincendo così le origini nordiche della sua famiglia.

Aveva i capelli color del grano e occhi color delle gemme di primavera talmente spaventati da sembrare un passerotto caduto dal nido in un tentativo precoce e sconsiderato di volo.

[Ma lui non era uno sparviero pronto a ghermirla tra i suoi artigli acuminati. ]

Le labbra vermiglie erano come un pugno nell’occhio tra il candore immacolato della pelle candida come fragile porcellana, appena socchiuse in una posa involontariamente sensuale e maliziosa, tanto che se lei l’avesse inteso, probabilmente le avrebbe serrate fino a far defluire il sangue e a renderle pallide ed esangui.

[No, lui non era un rapace in attesa di catturare la sua preda, lui era il vento che tentava d’incoraggiarla ad aprire ancora le ali e lasciarsi trasportare, libera e leggera, su correnti invisibili e verso strade infinite.]

Il tremulo sole del crepuscolo pareva baluginare sui suoi tratti delicati, come esitando impercettibilmente e sfocando i suoi contorni, rendendola più simile a una creatura immaginaria e leggendaria che a un’umana e le ombre della stanza parevano vibrare di vita propria come attratte e respinte al tempo stesso in una straziante danza infernale e sensuale con la luce che i suoi capelli parevano emanare.

Lui sedeva immobile su una sedia alquanto scomoda, la schiena rigida e l’espressione composta di chi ormai è avvezzo a una situazione del genere.

Aveva vent’anni e già conosceva il dolore.

Aveva vent’anni e già conosceva la solitudine.

Aveva vent’anni e già conosceva la morte.

Ma non sapeva cosa fare davanti a quello spettacolo divino e infingardo che la natura beffarda gli aveva messo davanti.

[Aveva vent’anni e non sapeva cosa volesse dire amare.]

I suoi occhi fissavano quelli vacui di lei rivolti al soffitto come se in realtà non vedessero calcinacci e stucco ma nuvole e stelle, uccelli che volavano e il sole, la luna e le gocce di pioggia.

- Mi chiamo Angelo- le disse piano, come quando si confessa un segreto troppo grande da tenere tutto per sé e si sente l’incontrollabile necessità di condividerne il peso con qualcuno.

Lei non diene segno d’aver udito alcunché, le palpebre immote e le iridi immobili.

- L’ospedale ormai è la mia seconda casa. Presto sarò medico qui… - continuò lui con un tono pacato nella voce come di chi ha tutto il tempo di fare qualcosa e, sapendone di averne, se ne prende tutto il necessario per prendersela comoda.

La ragazza continuò a restare immobile.

Le tende chiare si muovevano come animate di vita propria, menzogneri fantasmi che rispolveravano le paure dell’infanzia così lontana e così vicina da sembrare solo un’illusione, mentre il vento sussurrava parole dolci in una lingua ormai dimenticata.

Gli occhi dolci color cioccolata di lui si perdevano tra i lembi nascosti del lenzuolo, immaginando, senza doversi poi sforzare troppo, pieghe morbide e carni dolci, sognando sospiri profusi al lume di candela e alla luce voltafaccia della luna, assaporando baci proibiti mai dati e mai chiesti, mai negati e mai pretesi, mai offerti e mai ricevuti.

[Baci che neppure sapeva di aver il diritto di sognare, ingenuo nella sua gioventù, navigato nella sua inesperienza.]

La stanza dove stavano era bianca e spoglia, asettica e terribilmente fredda, tanto che anche lui, abituato com’era, parve percepire lo stesso brivido di freddo che scosse lei per mancanza di familiarità e di “casa” di quel posto.

Angelo si alzò di scatto, improvvisamente teso come una corda di violino pronta a vibrare la più intensa delle sue note così come a rompersi, rovinando una composizione unica mai scritta e mai udita prima, impossibile da ripetere perché suonata da un musicista sordo a un pubblico inesistente.

Abbozzò il capo in un cenno vago di saluto e si girò verso la porta, le falcate ampie e decise, lo sguardo duro di chi non ha voglia di soffrire ancora, le mani strette a pugno per impedirsi di versare ancora le lacrime che avevano solcato le sue guance da bambino, molti anni prima.

La porta si aprì e si richiuse poco dopo, lasciando la stanza in un irreale silenzio.

La ragazza era ancora immobile nel suo letto a fissare il soffitto, udendo le promesse del vento sulla pelle e scrutando impaziente le nuvole immaginare in un cielo falsamente blu.

 

 

 

 

 

L’aveva vista solo una volta ma era bastata per innamorarsi follemente di lei.

Certo, ancora non sapeva che quello che provava era amore, ma senza volerlo si ritrovava tutti i pomeriggi, finito il turno in Ospedale, nella sua stanza.

Nessuno era ancora venuto a trovarla, nessuno aveva denunciato la sua scomparsa, nessuno si era interessato delle sue condizioni.

Eppure, si disse Angelo, le guance rosse d’indignazione e stupore, doveva avere pressappoco la sua stessa età o forse poco meno, ed era quasi impossibile che non avesse né amici né parenti che venissero a informarsi del suo stato di salute.

Lei, in quei pomeriggi, non gli aveva mai rivolto la parola, i lunghi capelli biondi sempre elegantemente legati in una treccia e gli occhi spalancati e immobili a osservare un cielo che solo lei riusciva a scorgere oltre lo spesso muro del soffitto.

Rimaneva immobile per ore e ore, le stesse ore che lui rimaneva con lei a raccontarle la sua giornata, a condividere con lei la sua vita, lui che aveva una famiglia ma come lei era altrettanto solo, lui come lei che aveva degli amici che erano troppo lontani da lui, lui che come lei non aveva bisogno della carità di nessuno per vivere e poteva benissimo fare a meno dell’affetto di chiunque, di un parente così come di uno sconosciuto.

[Lui che, come lei, aveva dei sogni troppo lontani; un cielo di stelle soffocato da una prigione di soffitto che sarebbe crollata al primo terremoto ma che non l’avrebbe mai lasciata libera di raggiungere quelle stelle.]

-Dicono che domani pioverà. Piove sempre nei giorni migliori, prima o poi. Io odio la pioggia.

Gli occhi di lei si spalancarono come quelli di un fedele durante la messa di Natale che sente una blasfemia e scattò fulminea a guardarlo.

La prigione sicura nelle quale l’avevano rinchiusa brillava come oro fuso nei suoi occhi chiari, come un torrente torbido dopo un acquazzone estivo troppo violento che spazza via la terra dai campi e inonda le strade, distrugge tutto ciò che ha sulla sua strada non curandosi di cosa intralcia il suo percorso.

[Il suo cammino è l’infinita distruzione altrui per la propria sopravvivenza.]

In quegli occhi verdi si leggeva un amore infinito per la pioggia gelida e per il vento freddo del Nord, che tanto le ricordava di una casa che aveva solo osato sognare.

-Io amo la pioggia.

La voce arrochita di chi non è avvezzo a farne uso se non sporadicamente aveva il sentore caldo delle fragranze dei frutti estivi delle regioni delle quali spergiurava di essere natia, come mango dolce e miele pregiato, sapeva di zucchero grezzo e dolci fatti in casa.

Erano le prime parole che diceva da quando l’avevano portata in ospedale in una calda giornata di sole.

Erano le sue prime parole e le diceva a lui.

[E gli diceva che amava la pioggia.

Il suo modo per dirgli che le mancava una casa che non aveva mai avuto in quel posto soleggiato e caldo.]

Nessuno dei due disse altro per il resto del pomeriggio, fino a quando il cielo si oscurò e iniziarono a brillare le prime stelle pallide.

Solo allora Angelo se ne andò, lo zaino in spalla e le mani in tanca, con l’andatura incerta di chi va verso l’infinito ma non è ancora sicuro di ciò che sta facendo, senza sapere che indietro non potrà comunque più tornare.

Senza sapere che l’infinito era sempre più vicino e che tanto non l’avrebbe raggiunto mai, sfiorandolo appena con i polpastrelli callosi delle mani e lasciandoselo sfuggire tra le dita come sabbia.

[Lei era sabbia.]

Giunto nel parcheggio dell’Ospedale se ne stette un po’ immobile, a respirare, così, semplicemente, sorprendendosi che quella funzione vitale lo colpisse così tanto nel profondo.

Se Lei vedeva in modo differente, percepiva le cose in modo differente, chissà se respirava anche in un altro modo.

Scosse il capo e con un sorriso bonario aprì lo sportello della macchina che aveva comperato l’anno precedente da un rivenditore di auto usate, salì e partì.

Solo a metà strada che ricordò di allacciare la cintura di sicurezza.

E fu allora che capì.

Corinna era proprio come lui.

Come tutti loro.

Solo che lei viaggiava a una velocità inimmaginabile, contromano e per giunta senza cintura di sicurezza.

Non che la sua fosse una mancanza, lei non aveva proprio mezze misure.

[Lei non aveva proprio nessuna speranza.]

Ma questo ancora lui non poteva saperlo e, allacciata la cintura e assimilato la notizia shoccante che gli aveva fatto paragonare la ragazza in ospedale a una macchina lanciata a una folle velocità, ripartì cauto verso la sua abitazione, non sognando altro che un letto morbido come il corpo in cui sognava inconsciamente di affondare, e accogliente come solo le braccia di un amante sanno essere.

 

 

 

 

Il mattino ha l’oro in bocca, diceva un proverbio.

Angelo storse in naso con un’espressione schifata alla sola idea che a qualcuno potesse ancora venire in mente di farsi fare un dente d’oro.

Appena parcheggiò l’auto color antracite notò che il cielo era coperto da tante nubi, così basse da sembrare palpabili.

Mentre s’incamminava verso l’ingresso dell’Ospedale, allungò scioccamente un braccio verso l’altro, nel vano tentativo di riuscire a toccarle.

Fu surreale.

Ovviamente non riuscì nella sua impresa, piuttosto avrebbe avuto molte più possibilità Don Chisciotte di abbattere tutti i mulini a vento, ma gli si attaccò addosso quella sensazione di brividi continui lungo la spina dorsale che lo fece desistere dal continuare a rivolgere lo sguardo verso l’altro e lo fece affrettare il passo per entrare nelle mura sicure dell’Ospedale.

[Tra le mura di quella prigione in cui lei stava a poco a poco morendo…]

Il resto della mattinata trascorse tranquillo e senza problemi, tanto che riuscì quasi, se non a dimenticarsi almeno ad ignorare,la sensazione di disagio che l’aveva colto quella stessa mattina.

 

 

 

Ormai  pensava solo per citazioni e pregava un qualsiasi Dio disposto ad ascoltarla di esaudire la sua preghiera di ricordare la parte finale della “Ballata del carcere di Reading” dell’amato Wilde.

L’aveva ripetuta come una litania per tutta la mattina, sottovoce, come un’attrice consumata e una spettatrice annoiata dallo spettacolo ripetuto fin troppe volte e mai portato a termine per via di un imprevisto.

-”…E così facciamo arrugginire la ferrea catena della Vita, degradati e soli: e alcuni bestemmiano…- la voce incolore e piatta di chi, come fosse solo un rituale quello che si apprestava a concludere, ripeteva senza posa in sussurri spezzati e fragili come soffioni al vento, quelle parole di fama illusoria, sopravvissute al loro scrittore, così vere da essere degradanti per chiunque le leggesse senza la necessaria intensità e passione -… altri piangono …- un lamento insopportabile si levò da fuori la finestra; il vento ululava, scuotendo le cime degli alberi del giardinetto accanto al parcheggio, creando suggestive ombre e tenebrosi riflessi nelle iridi chiare della ragazza che si era alzata ed era ancorata saldamente, con le mani tanto pallide e magre da sembrare quelle di un cadavere, alla finestra  -… e altri non mandano un sol lamento …-.

Così com’era iniziato, terminò.

Sembrava di respirare aria rarefatta tanto era difficile far entrare l’ossigeno necessario alla vita nei polmoni, mentre lei se ne stava a guardare fuori senza espressione alcuna dipinta sul volto scarno e scavato dalla solitudine e dal dolore, incurante di tutto, per niente spaventata dal pandemonio che fino a pochi attimi prima pareva si fosse scatenato all’esterno.

-… ma le eterne Leggi di Dio sono clementi e spezzano il cuore di pientra.-

 

 

Angelo finì di mangiare il suo panino con l’arrostino di tacchino in fretta e furia, bevendo lunghe sorsate d’acqua per non soffocarsi con la carne e rischiando così di soffocarsi con l’acqua.

Il finimondo sembrava essersi placato così come il vento che aveva smesso di ululare senza posa e si era acquietato almeno apparentemente, lasciandoli tutti soli nell’insopportabile silenzio che segue una tempesta.

[O ne precede una…]

Si diresse turbato verso i bagni pubblici riservati a tutti coloro che facevano tirocinio lì prima di entrare effettivamente in servizio come medici: era stato sempre un ottimo studente, il primo della classe, voti altissimi, ma ora si chiedeva se per esserlo non avesse dovuto pagare un prezzo troppo alto.

Insomma, se il gioco fosse valso la candela, o lo scotto fosse davvero troppo anche per uno come lui.

Entrò nel terzo cubicolo a sinistra, e sul muro grigio e spoglio brillava una frase scritta con un pennarello rosso.

“Con le sbarre oscurano la graziosa luna e accecano il sole gentile: e fanno bene a nascondere il loro Inferno (…)!”

Strizzò gli occhi.

Sotto non c’erano né firme né segni particolari che potessero suggerirgli chi fosse ad aver detto una cosa simile, ma le lettere erano prive di fronzoli e di ghirigori, come se chi avesse scritto quella frase, tanto familiare nella sua memoria, fosse stato troppo stanco per abbellire anche una verità scomoda con svolazzi d’inchiostro scarlatto come il sangue e ammirevoli ghirigori.

Sciacquandosi le mani al lavabo davanti la vetrata che dava sul cortile d’ingresso, una tunica vermiglia attirò la sua attenzione e altre parole tornarono a galla e si trovò inconsapevolmente a ripeterle tra sé e sé.

 

 

 

-”L’uomo in rosso che recita la legge gli concesse tre settimane di vita, tre misere settimane per curarsi l’anima dal conflitto delle sua anima, e lavare ogni traccia di sangue dalla mano che strinse in coltello. E con lacrime di sangue lavò la mano (…) perché solo il sangue cancella il sangue, e solo le lacrime sanno guarire”-.

Le mani giunte tra loro all’altezza dei reni e lo sguardo fisso, senza neppure muovere un muscolo aveva osservato l’uomo arrivare ed entrare in ospedale.

Non l’avrebbe atteso, non ora che tutto era perfetto.

Sentiva il peccato di sangue gravarle addosso; il ventre che avrebbe dovuto essere rigonfio era mortalmente piatto, e silenziose lacrime amare solcarono le sue nivee gote, così silenziosamente e delicatamente che lei non si accorse di aver iniziato a piangere fin quando una stilla salata non le cadde sul dorso della fragile mano.

[Mano che aveva brandito una penna e firmato fogli su fogli per dare un consenso di morte, così come si brandisce una spada davanti a un condannato.]

Immaginava quelle scarpe pregiate di vernice nera salire i gradini uno ad uno, come un principe divora la distanza per salire sulla torre dalla sua bella, così lui si avvicinava sempre di più a lei.

[Ma lei non era mai stata una principessa, e lui non indossava vesti cerulee …]

Le vennero alla mente gli occhi color cioccolato del giovane che le aveva fatto compagnia in quegli ultimi giorni amari.

Angelo, aveva detto di chiamarsi.

E forse un angelo lo era davvero; ogni volta che era in sua compagnia, dimenticava quel senso di vuoto e di oppressione che le attanagliava il petto durante il resto del tempo e le impediva di dimenticare.

[Ma lei non poteva dimenticare.

 Aveva peccato e amato il suo peccato, e poi si era odiata, odiando il suo peccato e odiandosi per averlo amato.]

Gli occhi socchiusi, verdi gemme che spiavano di nascosto il mondo attraverso ciglia pallide e fragili come tutto di lei, erano appena appannati da un sottile velo di lacrime.

Piangeva.

Piangeva come se volesse versare tutte assieme le lacrime che aveva trattenuto da troppo tempo a quella parte, sotto i raggi irrisori del sole e la coltre vellutata e soffocante del cielo stellato.

Piangeva come se avesse davvero un motivo valido per farlo se non un ricordo o un’illusione, un rimpianto da ragazzina che aveva commesso un errore come tutte le ventenni.

Ma che non aveva saputo accettarne le conseguenze e aveva preferito negare il negabile fino a quando non era stato troppo tardi.

[Fino a quando quella penna non le era sembrata l’unica salvezza.]

I denti perlacei affondarono nelle labbra scarlatte, recidendo la tenera pelle e facendo sgorgare stille di sangue color del rubino, mentre con mani tremanti apriva i vetri delle finestre, lo sguardo vitreo e sicuro di chi non ha nulla da perdere o forse tutto.

Il vento soffiò improvviso scompigliandole i capelli  e facendo gonfiare le tende candide verso di lei, come le braccia tese di un amante che non accetta un rifiuto.

L’odore di mare le parve si sentisse fin da lì, seppur lontano miglia e miglia, e le sembrò che si confondesse con il profumo del sottobosco e dei tronchi degli alberi nodosi e cupi delle terre che avevano visto nascere i suoi avi ma non lei.

Un vento freddo che veniva a riscuotere il prezzo della sua azione e al tempo stesso veniva a salvarla, asciugando le lacrime bollenti sulle sue gote e alzando la sua veste candida fin sopra al ginocchio spigoloso.

-”L’uomo aveva ucciso la cosa che amava e per questo doveva morire”.

La cantilena di una pazza, ecco cosa sembrava.

L’eterno dondolare di un’altalena senza che riuscisse mai a fermarsi e a trovare un equilibrio.

[Ma lei non aveva vie di mezzo, brandiva penne come fossero spade e dispensava baci come fossero fiori di campo raccolti per diletto e per caso ancora tra le sue mani delicate.]

 

 

 

Il ticchettio del tacco ligneo delle scarpe di vernice era udibile da lontano e Angelo, che aveva appena finito il suo turno e si accingeva a salire per andare a trovare Corinna come tutti i pomeriggi, s’incantò a fissare un uomo di mezza età che saliva, con sorprendente agilità, rampa dopo rampa, senza neppure un accenno di sudore o il lucido annuncio della fronte perlata che dichiarasse la fatica fatta per arrivare al quinto piano senza l’ascensore.

Nonostante un mantello rosso gli coprisse le spalle e avesse un cappuccio del medesimo colore tirato sul capo, s’intravedevano da sotto di esso crini biondi come l’oro colato e il dolce miele, ricordo di terre lontane e di sole tiepido e discreto, mare grosso e burrascoso e tenere giunchiglie intrecciate in molli coroncine da portare sul capo come ornamento infantile.

L’uomo lo fissò con i suoi glaciali occhi cerulei, chiari come il cielo in primavera, profondi come l’ingannevole Mare del Nord, gelidi come l’assenza di un amore, duri come la mancanza di speranza.

[Occhi di chi si concede di piangere solo quando anche la luna manca nel cielo per non vedere il riflesso argenteo delle proprie lacrime cadere giù, verso terra, e che al mattino, sotto la luce dorata e tiepida del sole, ha lo stesso cipiglio duro e severo che aveva prima di andare a coricarsi in solitudine.]

Notò con stizza che anche l’uomo saliva e, cogliendo di sfuggita la solita coda davanti all’ascensore, decise di procedere anche lui a piedi.

I passi erano leggeri ed eleganti anche se le falcate lunghe e decise, di chi non ammette repliche ed errori, di chi non impartisce punizioni perché  sa che nessuno mai oserebbe disubbidire alle sue leggi.

[E invece si era sbagliato, perché lei l’aveva fatto.]

Lei, che portava il nome che era lo stendardo della femminilità, lei, la fanciulla per antonomasia.

Lei.

Semplicemente lei.

Corinna Robins.

 

 

I piedi erano infestati di piccole cicatrici scure, tagli rimarginati grazie alle cure amorose e pazienti delle infermiere che si erano prese cura di lei, e del Tempo che aveva guarito tutte le ferite tranne la più profonda e dolorosa.

Sul letto candido una ciocca recisa di capelli chiari troneggiava adagiata mollemente sul cuscino, macchiato di quello che, a prima vista, sembrava sangue.

Aveva rivolto parole liete e riconoscenti a quel Dio che le aveva fatto ricordare le ultime battute della “Ballata del carcere di Reading”, facendole inumidire nuovamente gli occhi e sfocare la vista.

Non aveva pregato.

Non l’aveva fatto allora né l’avrebbe fatto adesso.

Il cornicione sotto i piedi nudi le faceva salire i brividi alla schiena, ma lei non desisteva dal suo intento e non accennava a muoversi da lì.

Quel poco di colore che aveva ripreso a fatica in quei giorni di degenza forzata era sparito definitivamente dal suo incarnato, rendendola simile al fantasma che l’accompagnava incessantemente da ormai troppo tempo.

Abbassò lo sguardo solo per fissare l’asta delle bandiera del paese che sventolava con forza sotto di sé, molti gradini più giù, dove forze gli angeli e i demoni non arrivavano a abbracciare gli umani col loro immortale candore e gli spiriti non si manifestavano agli occhi indiscreti di chi nelle vene aveva sangue e non ambrosia.

Aprì le braccia in un gesto infantile e scontato che ricordò quello di una ragazzina che si getta a capofitto tra le gonne della madre dopo l’ennesimo litigio con la migliore amica.

Poi, in meno di un battito di ciglia, proprio mentre la porta si apriva per far entrare Angelo e l’uomo bardato di rosso, lei spariva, inghiottita dal vento gelido di quella casa che aveva azzardato sognare pretendendo di disobbedire a regole ferree e ordini non scritti ma impartiti con fermezza impareggiabile.

Mentre i due uomini passavano l’ingresso lasciandolo alle proprie spalle, lei cadeva, precipitando verso quello che sapeva essere l’Inferno del paradiso, il tallone d’Achille che non le avrebbe permesso di vivere la vita terrena, la lama che lei stessa aveva scelto di conficcarsi nel petto per paura che qualcun altro potesse farlo al posto suo.

[Senza sapere che nessuno mai avrebbe osato attaccare un angelo neppure in quel limbo di terra dimenticato da Dio.

Senza immaginare  che per la prima volta l’uomo vestito di rosso versava una lacrima di giorno piangendo per quello che perdeva e le sue labbra mormoravano sottovoce la parola -figlia.

Senza curarsi degli occhi sbarrati di terrore di Angelo che la guardava precipitare e incassava meccanicamente come una preghiera le parole che il padre della ragazza ripeteva per lei, ora che lei non poteva più.]

-”E ogni uomo uccide la cosa che ama, tutti lo devono sapere, qualcuno con uno sguardo amaro- duro e freddo come il suo -qualcuno con una parola di lusinga- come quelle che le infermiere avevano rivolto alla bellezza eterea ed effimera della ragazza, senza sapere che lei viveva quel dono più come una maledizione che come una manna del cielo -il codardo lo fa con un bacio- [Baci che neppure sapeva di aver il diritto di sognare, ingenuo nella sua gioventù, navigato nella sua inesperienza.]  -l’uomo coraggioso con una spada!- e con un ultimo sguardo al corpo di sua figlia straziato dal volo simile a quello di Icaro, si voltò.

Negli occhi la morte di chi ha perso tutto, uscì dalla stanza dell’Ospedale per mai più farvi ritorno.

Se ne tornò nelle gelide lande del Nord dalle quali era venuto, scortato forse solo dal vento freddo e dalle nuvole portatrici di tempesta.

Corinna, come un’eroina delle tragedie di Shakespeare, era morta in un folle volo.

Le lacrime gelate sulle gote bianche come la neve e le mani macchiate di sangue scarlatto.


Note dell’autrice e citazioni:

- Il titolo, Icarus, è un riferimento alla mitologia Greca. Dedalo, padre di Icarus, era considerato un grande architetto e inventore, a seguito di uno scandalo fu esiliato da Atene a Creta. Minosse, il re, ordinò a Dedalo di costruire un labirinto per rinchiudervi al suo interno il Minotauro (altra figura mitologica Greca). Rinchiuso assieme al figlio Icaro come punzione dal re nel labirinto, in quanto Arianna  era riuscita ad uscire indenne grazie al famoso filo, Dedalo costuì delle ali con penne e cera, e ne donò un paio al figlio raccomandandosi di non avvicinarsi troppo al sole. Ma Icaro, avventato,non seguì gli avvertimenti del padre, volò troppo in alto e il sole sciolse la cera delle ali facendolo precipitare in mare e morire.

- "Aveva peccato e amato il suo peccato"  è un rimando alla celeberrima frase "Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente".

-  Qui ( http://www.oscarwildecollection.com/ ) potete trovare La Ballata del Carcere di Reading, di O.WIlde in Inglese, mentre qui (http://wilde.altervista.org/ballatadelcarcere.htm ) la potete leggere in Italiano.
   
 
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