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Autore: Margaret Gaiottina    17/06/2011    1 recensioni
Dorinda Martini detta Icy è una donna cristallo, occhi color acquamarina, capelli neri, carattere duro come il diamante. Che succede quando una donna così incontra un morto, un essere che proviene dalle profondità della terra?
Genere: Drammatico, Erotico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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«Attenta Icy, stai andando addosso alla guardia.»

Mi risvegliai all’improvviso, Teresa aveva ragione, stavo andando dritta verso il mitragliatore di una delle guardie che presidiava la teca. Nella ex cappella di Palazzo Crossbow, la casa di moda famosa in tutto il mondo, veniva esposta al pubblico per la prima volta la coppa di Mnemosyne. Il cubo di vetro che custodiva l’oggetto si trovava su un altare a poca distanza dalla parete dell’abside ed era sorvegliato da quattro guardie armate fino ai denti. Due a destra e due a sinistra. E tutto per una specie di piatto concavo di una ventina di centimetri di diametro. Ma d’altra parte eravamo lì per quello, per contemplare quel piccolo reperto tutto d’oro, tanto prezioso da dover essere difeso come un fortino dall’assalto dei beduini.

Se avevo appena rischiato di caracollare addosso a una guardia era perché avrei dovuto evitare di bere champagne a digiuno. Già la testa iniziava a ondeggiare, anche se ero ancora in quella fase piacevole di leggerezza e spensieratezza che ti regala il primo calice. Solo in quel modo, ultimamente, riuscivo ad allentare un po’ il freno e sciogliermi. Le Jimmi Choo che avevo ai piedi iniziavano a reclamare la mia attenzione: guardai in giù, un vero supplizio non c’era che dire. Ma anche l’abbigliamento faceva parte degli obblighi derivanti dalla posizione che ricoprivo alla Crossbow. Teresa, collega e sedicente amica, in quel momento, mi stava stranamente incollata come un’etichetta. Teresa Gaviraghi era l’addetta ad istruire le cause per plagio e contraffazione a tutela della Crossbow Fashion ed essendo la contemperazione costi benefici un calcolo squisitamente economico, le sue cause prima di essere intentate dovevano passare da me. Non l’avevo propriamente al mio fianco. Come sua abitudine stava rispetto a me un pelo più indietro. E tuttavia con la coda dell’occhio potevo tenere sotto controllo il corpicino magro e abbrustolito, frutto di anni di diete, fitness e solarium. Quella sera sfoggiava un total look in cui la “D” e la “G” gettavano lampi dorati su un vestito strizzato. Muoveva spesso il polso scuotendo l’orologio, anche questo “Dolce e Gabbana”, gettando lampi di luce riflessa sulla volta affrescata. Gli occhi grigi e vicini sembravano inseguire i giochi di luce. Sempre standomi appiccicata teneva infatti reclinata all’indietro la nuca dai capelli raccolti e platinati ma lo sguardo non si soffermava su niente in particolare. Teresa non osservava gli affreschi. Senza farsi notare, lanciava sbirciatine verso la sottoscritta.  Era in attesa che facessi qualche gaffe con l’altro sesso. Poi con Micol, avrebbe riso di “Icy” la fredda.

«Non hai tutta questa dedizione quando siamo in ufficio», notai con voce più stridula di quanto avrei voluto.

Teresa accostò le labbra al bicchiere fingendo di bagnarsi la bocca e fece spallucce: «Che palle quest’anticaglia. Ci perdiamo tutto il “movimento”. Torniamo di laaaa?»

Per “di là”, con cantilena milanese, Teresa intendeva lo showroom al di là del chiostro. La multinazionale della moda di piazza Santi Apostoli quella sera aveva dato il meglio di sé. Lo showroom di palazzo Crossbow era al massimo del suo sfolgorio di stucchi dorati e barocchi, vetrate piombate a losanga, colonne bianche, nicchie dove rifulgevano  abiti scultura dai colori sgargianti che si riflettevano sui marmi preziosi e intarsiati dei pavimenti. Tutto questo, in quel momento sembrava lontano secoli dalla cappella angusta e antica che ci circondava.

Mi guardai intorno e vidi Micol, mia collega “in seconda”, profilarsi all’ingresso del piccolo oratorio.

Ancheggiava in un miniabito mozzafiato evidenziando il corpo tutto curve pericolose, con una certa tendenza ad arrotondarsi sui fianchi. Reggeva due bicchieri, uno dei quali lo sollevò nella mia direzione offrendomelo. Micol Lambert era l’addetta alle cause per diffamazione e anche le sue azioni legali erano sottoposte alla mia preventiva valutazione di opportunità. Era sulla quarantina, ben portati ovviamente. I capelli vaporosi erano mesciati di rosso al punto giusto e sulle labbra appena ritoccate riluceva un  rossetto carminio: totale mancanza di autorevolezza. Era un problema. Spingeva spesso la controparte a resistere in giudizio. Era un’altra che non si poneva nemmeno il problema di sembrare una professionista credibile.

Le indicai con un gesto del bicchiere di offrire il secondo calice a Teresa. Io avevo già fatto il pieno.

«Guarda, neh, - cinguettò Teresa -, Micol è una “giusta”. Non porta i pantaloni, lei, e ha scelto un …un abito da cocktail. Non questa tristezza mia cara», aggiunse percorrendomi dall’alto in basso con gli occhi piccoli e grigi.

Strinsi le labbra per reprimere una rispostaccia. «Sì, grande autorevolezza!», commentai a mezza bocca.

«Cosa ne capirai mai di moda!» Teresa si scostò per avvicinarsi alla teca.

In quel momento la piccola folla di persone che aveva circondato l’espositore si era dissolta attratta all’esterno dalla musica che risuonava dallo showroom nell’altra ala del palazzo.

In quella specie di cripta dove ci trovavamo, anche noi avevamo finalmente accesso all’oggetto misterioso.

Teresa strinse un po’ gli occhi e stirò le labbra sottili in un ghigno:

«Crossbow impazzisce per questo coso.»

«È una coppa.» A forza di sentire la storia, l’avevo imparata bene.

Il disco d’oro risplendeva come un piccolo sole. Era una ciotola piatta con una sporgenza che si elevava proprio nel mezzo. Il tutto era scolpito ad altorilievo. La sporgenza era in realtà una donna elegantemente vestita assisa su un trono, circondata da uomini e donne alternati come in un girotondo, tutt’intorno.

«Ma non sarà un tantino esagerato: addirittura il mitra?» Micol indicò la canna plumbea che sporgeva verso di noi.

«Non credo proprio, con quello che l’ha pagata da Sotheby’s», replicai.

«Quanto?»

«Un milione di euro, c’era scritto sul giornale», dissi impettita mentre tenevo gli occhi incollati sulla teca.

«Che assurdità, neh! Tutti questi soldi per un piatto…»

«Dorinda, tu che sai sempre tutto, com’ è possibile che una roba del genere valga così tanto?»

Mi strinsi nelle spalle. Micol era l’unica che a volte faceva lo sforzo di usare il mio vero nome. Tutti mi chiamavano “Icy”. «Be’ è pur sempre una coppa d’oro molto antica, dicono che risalga addirittura ai primi secoli dopo Cristo. Sempre che sia vero», borbottai.

Mi avvicinai anche io un po’. Da quella distanza non vedevo ancora bene le decorazioni. Le donne e gli uomini intorno alla dea, avevano abbigliamenti e gesti diversi. Chi teneva le mani aperte, chi incrociate sul petto. Erano i dettagli a incuriosire. Si trattava di sedici figure, avevo letto da qualche parte, ma era impossibile capire quando terminasse il giro. Ogni volta comparivano particolari che inizialmente non avevo notato.

Con la coda dell’occhio captai un movimento ai margini del campo visivo e mi scossi. Avevo la sensazione che fosse passato parecchio tempo. Quella coppa aveva uno strano potere. Un po’ stordita mi girai sulla sinistra. Qualcosa di scuro sbucava da dietro una grande statua posta di lato all’altare. Non si era trattato di un movimento brusco o improvviso ma fluido e quasi invisibile.

Solo allora alzai lo sguardo e mi colpì la stranezza della situazione. I pochi visitatori che sostavano nella cappella al nostro arrivo erano spariti del tutto e anche Micol e Teresa se ne erano andate.

Ero ancora annebbiata e tanto presa a chiedermi come fossero scomparsi tutti senza che io me ne accorgessi che sulle prime non mi avvidi di ciò che aveva cominciato ad accadere.

Qualcosa, che in realtà era qualcuno, stava avanzando sinuoso sul pavimento nella penombra tra il piccolo altare laterale e quello della teca, alle spalle delle guardie che sorvegliavano la coppa. Era un uomo, diamine, sulle prime mi era sembrato un animale. Tutto vestito di nero con abiti aderenti e un berretto scuro calato sugli occhi. Il suo corpo si contraeva in un movimento simile a un’onda, rapido e sicuro come se fosse un rettile in caccia, con l’addome teso sotto un paio di spalle possenti.

“Muoversi”: era difficile affermare che si muovesse. Il fatto era che un attimo prima avanzava e poi era sparito di nuovo dietro l’altare della teca. Ero quasi certa di aver avuto un’allucinazione quando sentii la bocca prosciugarsi.

L’intruso con un unico movimento sicuro sbucò da dietro l’altare e aggredì alle spalle una delle guardie passandogli un braccio intorno alla gola.

La guardia crollò a terra in un grido soffocato.

Altri due sorveglianti si girarono in direzione dell’assalitore, mentre quello aggredito si accasciava.

Mentre una delle guardie superstiti sollevava la mitraglietta verso lo sconosciuto, questo gli aveva già piantato la mano allo stomaco.

Il secondo agente colpito si raggomitolò tenendosi il ventre e le ginocchia si piegarono sotto il suo peso. Quando cadde a terra di schiena le braccia si aprirono, rivelando i palmi delle mani, rossi e brillanti di sangue.

Lo sconosciuto colpì il braccio del terzo addetto alla sorveglianza che gli si era avventato contro. E lo fece servendosi del calcio di una pistola. Sembrava avere una scorta inesauribile di mosse. Sgusciava letteralmente dalle mani degli uomini in divisa. Non avevo mai visto una cosa del genere, sembrava un film o un combattimento finto. Non era possibile che quell’uomo si muovesse in modo insieme tanto impercettibile e tanto letale.

Indietreggiai di un passo. Mi trovavo nel posto sbagliato al momento sbagliato senza trovare neppure la voce per gridare. Ero rimasta da sola nella piccola navata a tu per tu con il rapinatore. Voleva la coppa? Che se la prendesse pure!

La sensazione che prima ci fossero quattro, vigilanti sembrava sbagliata. I corpi a terra degli uomini in divisa erano solo tre.

«Fermo.» Una voce si levò alle mie spalle, quasi a rispondermi. Non feci in tempo a voltarmi. Ero paralizzata dal terrore e l’uomo alle mie spalle era troppo veloce. Qualsiasi cosa dovesse succedere sarebbe accaduta.

Mi sentii stringere il braccio da una morsa che mi fece ruotare a forza di 180 gradi. Quella stessa presa mi imprigionò e mi attirò contro il corpo di un uomo, schiacciandomi la faccia. Era un uomo basso e sentivo sotto la pelle del viso la stoffa ruvida della giacca, il freddo dei bottoni. Puzzava di naftalina e di sudore. L’unico occhio che riuscivo ad aprire vedeva la superficie bluastra di un’uniforme. Mi ritrovavo con il naso compresso contro la divisa del quarto agente, quello che avevo perso di vista. Quello che avrebbe dovuto proteggermi e che invece…

«Getta le armi», la voce rimbombò nel petto dell’uomo che mi stringeva. Ne sentivo il battito forsennato del cuore contro l’orecchio, o forse il cuore era il mio e stava volando via.

La voce dell’agente si fece sentire di nuovo, era stridula, impaurita: «Getta il coltello. Alza le mani.»

Il respiro mi si fermò e non solo perché avevo il viso compresso. Il vigilante si stava facendo scudo col mio corpo. Ma il rapinatore non ci avrebbe certo impiegato molto a levarmi di mezzo.

Il corpo dell’agente fu scosso da un tremito. Anche se cercava di sembrare spavaldo capivo che era disperato e accendeva il mio terrore come una miccia. Sarei stata la prima a beccarmi una pugnalata o una pallottola.

Gli istanti trascorsero silenziosi e lunghissimi. Con la faccia schiacciata, non potevo sapere cosa stesse accadendo alle mie spalle. Nessuno sparo. Eppure durante i pochi secondi in cui lo avevo guardato, lo sconosciuto non mi era sembrato uno che si arrendesse, tutt’altro. Avrei voluto mormorare una preghiera, ma non mi veniva in mente nulla, neanche una parola.

Trattenni il respiro e strinsi gli occhi. Ero incapace anche di piangere. La divisa dell’agente che mi teneva stretta sarebbe stata l’ultima cosa che avrei visto e poi puff, basta, chiuso, null’altro. Il tipo che aveva accoltellato tre guardie in dieci secondi non si sarebbe fermato davanti alla mia vita.

Poi ci fu lo sparo. Secco, come di una pistola, non a raffica.

Sentii piano piano la presa allentarsi. Gridai, mi divincolai come una furia dalla stretta che ancora mi ostacolava e, finalmente libera, potei girarmi e guardare.

Io ero viva e così pure l’agente che si era fatto scudo di me ma tre agenti e il ladro erano morti. Il ladro era riverso nel sangue sul pavimento, in posizione innaturale, immobile. I capelli color cenere e lunghi sulla fronte gli coprivano gli occhi, il corpo era abbandonato. Aveva mezza faccia devastata da un colpo in pieno viso.

Mi avvicinai all’uomo a terra senza neppure chiedermi se fosse morto davvero. Non aveva sparato. Si era fatto ammazzare per non uccidere un’emerita sconosciuta di cui non aveva visto neppure la faccia.

Portai le mani alla bocca. Le gambe mi tremavano e mi veniva da vomitare. L’orrore, la pietà e il sollievo presero a contendersi quel po’ di autocontrollo che mi restava.

Barcollai all’indietro scansando qualcuno, forse il vigilante superstite, quello che aveva rischiato di farmi ammazzare.

Le voci cominciarono a ronzare tutto intorno. Molte persone stavano affluendo nella sala. Urla di fronte ai corpi per terra, voci maschili concitate impartivano ordini severi. Qualcuno si avvicinava curioso, altri arretravano spaventati. Qualcun altro dovette mettermi una sedia dietro le ginocchia e una mano assecondò i miei movimenti fino a quando non mi trovai seduta.

«Sono l’ispettore Isacco Gatto.»

Alzai gli occhi giusto nel momento in cui si metteva davanti a me un tipo con l’aria da ragazzo. Le mani sui fianchi, mostrava la fondina in un gesto un po’ arrogante e anche un tantino intimidatorio.

Per poco non gli scoppiai a ridere in faccia. Un po’ il nervosismo, un po’ il cognome ridicolo. Erano passate ore da quando tutto era successo, ore estenuanti, di attesa, trascorse a trangugiare cognac che Micol e Teresa insistevano per farmi bere. Ero distrutta e dovevo avere un aspetto a dir poco sfatto e quella era l’unica cosa buona, almeno il tizio non avrebbe fatto il cretino. Lo guardai meglio.

Non era poi così ragazzo come mi era sembrato a prima vista.

Gatto si volse intorno con aria un po’ scocciata e occhi vispi, poi si allontanò per prendere una sedia anche lui e si mise accanto a me. Rimasi in silenzio.

«Come si chiama?»

«Dorinda Martini.»

«Perché si trovava qui stasera, signora Martini.»

Mi raddrizzai nelle spalle per quanto mi era possibile vista la situazione: dovevo rispondere proprio? Ero talmente stanca.

«Sono una dipendente, sono responsabile finanziario della Crossbow fashion», dicendolo cercai con gli occhi Steve Crossbow. Stava un po’ distante per il momento, ma avrei giurato che di lì a poco avrebbe rubato la scena a chiunque si fosse permesso di conquistare un po’ di attenzione nel suo regno, me compresa.

«Cosa è successo?»

Che domanda del cavolo. Racchiudere quegli attimi in un giro di parole era impossibile, soprattutto perché ciò che aveva osato fare quell’uomo era così assurdo, non era normale insomma!

Deglutii. Meglio andare con calma, cominciare dall’inizio: «Ero proprio qui con Micol Lambert e Teresa Gaviraghi, le mie colleghe.»

Crossbow, che intanto doveva essersi avvicinato, si materializzò accanto a me e mise una mano sulla mia. Potevo avvertire il tocco freddo e la pelle raggrinzita da novantenne.

«Ringraziando gli Dei, la coppa è salva.»

Fu un gracidio insopportabile.

Non avevo parole per descrivere come mi sentivo. Quattro persone di avevano rimesso la vita.  Io ero appena scampata alla morte. E quel vecchio rimbambito pensava alla coppa. Intanto la guardia che mi aveva usato come ostaggio veniva scortata fuori da alcuni agenti. Sperai lo stessero conducendo verso il carcere a vita, anche se ne dubitavo. Lo sentii spiegare di aver sparato “a colpo singolo” perché disponeva di una sola mano per azionare la mitraglietta. Certo, con l’altra mano bloccava me! Avevo voglia di strillare.

Il signor Crossbow sfoggiava la solita chioma impomatata bionda e quel sorriso lucidato: ogni volta che lo vedevo pensavo alla dentiera che la sera doveva galleggiare in un bicchiere sul suo comodino.

«È lei, la mitica. L’araba fenice di tutti gli archeologi, la coppa che faceva parte del tesoro di Pietroasa.»

Trattenni a stento uno sbuffo nonostante l’adrenalina che ancora mi scorreva in corpo: come se Pietroasa fosse dietro casa dell’ispettore Gatto! Per noi dipendenti era tutto un altro paio di maniche, avevamo sentito tutti quanti quella storia un centinaio di volte, il signor Crossbow non faceva altro che raccontarla ed era diventata la favola della ditta.

L’espressione dell’ispettore Gatto mi fece supporre di aver indovinato e lui non ne sapeva un bel nulla.

«La coppa che qualsiasi uomo vorrebbe possedere. La coppa dell’immortalità. Adoro...”Mnemosyne”!»

Il signor Crossbow era partito per la tangente perché si accostò con le mani alla teca di vetro antiproiettile e si ipnotizzò quasi davanti a quell’oggetto che si diceva essere fabbricato in oro degli Urali. Evidentemente anche dopo duemila anni l’oro, anche se proveniente dai misteriosi Urali, restava tale e quale all’oro della catenina che mi era stata regalata da mia nonna.

«Le coppe del tesoro erano due», spiegò Crossbow. Si era ripreso dalla trance e ora guardava l’ispettore negli occhi.

«”Due”, in che senso?»

«Sì, due. Il tesoro di Pietroasa comprendeva, insieme ad altra chincaglieria di valore, ben due coppe, - continuò Crossbow - non solo la coppa di Pietroasa ma anche la coppa di Mnemosyne. Il tesoro fu scoperto per caso nell’Ottocento e poi trafugato da uno studente di teologia dal museo delle antichità di Bucarest. I preziosi furono ritrovati all’interno del pianoforte dello studente, ma, a quel punto, purtroppo, c’era solo una delle coppe.»

«Sarebbe la cofana di qua?» L’ispettore Gatto indicò con un gesto del pollice la coppa alle sue spalle. Alzai gli occhi al cielo: che signorilità!

Crossbow lo liquidò con un cenno della mano. «Ma no! C’era l’altra! Questa è la coppa di Mnemosyne, quella scomparsa.»

L’Ispettore evidentemente era un po’ duro di comprendonio ma alla fine ci arrivò: «Ok, ma lei come l’ha avuta? »

Crossbow si raddrizzò in tutta la sua altezza ed assunse un piglio fiero: «Me la sono aggiudicata da Sotheby’s quindici giorni fa, carissimo ispettore. Un opportuno investimento e una equipe di prim’ordine verranno a capo del suo segreto. Non è emozionante?»

Seguì un breve silenzio durante il quale Gatto annotò veloce qualcosa a mano su di un piccolo blocco. Poi lo richiuse e assottigliò lo sguardo verso di me.

«Non credevo che Kuja si sarebbe fatto beccare.» Non ce l’aveva propriamente con me anche se sembrava fissarmi, pareva piuttosto che parlasse da solo. Anche se vibrava nella sua voce qualcosa di vagamente accusatorio.

«Chi?»

«Kuja.» L’Ispettore indicò col mento la salma del rapinatore che era stata coperta con un lenzuolo in attesa di essere messa nel sarcofago posato accanto. Se la stavano portando via quelli della polizia mortuaria. «Era un boia, uno che faceva le cose pulite e, cazzo, non lo avevamo mai beccato, mai.»

Be’ l’avevano beccato stavolta.

“Kuja”, che nome curioso.

Mi venne voglia di andare a sollevare il lenzuolo per vedere la faccia dell’uomo che non aveva avuto la prontezza di fare fuoco su di me e ci aveva rimesso la vita. In quell’attimo un senso di gelo mi oppresse il petto e il pensiero ritornò: sacrificarsi così per una sconosciuta, e chissà se quel Kuja aveva qualcuno che lo aspettava a casa, se…

L’ispettore Gatto sembrò leggermi nel pensiero. «Era un mercenario signora Martini, capace di liquidare tutti in questa stanza pur di arrivare al risultato. Mi stupisco che non lo abbia fatto, insomma che…» All’improvviso sembrava quasi pentito di ciò che stava dicendo, ma oramai avevo intuito il senso e avevo anche colto con chiarezza la sua insinuazione.

«Che non mi abbia uccisa.»

«Si può dire così...», espirò l’Ispettore senza spostare gli occhi dalla sigaretta che si stava rollando metodico. Era già la terza da quando aveva cominciato a interrogarmi.

Mi venne un bisogno improvviso di fare qualcosa, un peso iniziava a gravare sulla mia coscienza e avevo l’impressione che più passava il tempo più l’angoscia aumentava.

Non riuscivo a tenere le mani ferme in grembo, le contorcevo tormentando un fazzoletto che qualcuno mi aveva dato mentre gli occhi mi si gonfiavano contro la mia volontà per un’ondata di emozioni che gorgogliavano a fior di pelle. Andava tutto a rovescio. Il mio ex marito che era stato un grandissimo stronzo; la guardia, che avrebbe dovuto proteggermi, che invece aveva messo a rischio la mia vita; e l’uomo invece, che aveva fatto il più grande atto di generosità che avessi mai ricevuto, ora era un corpo freddo dentro un sarcofago di metallo grigio. Tutto a rovescio. E non avevo neppure potuto dirgli un grazie.

«Quando ci sarà il funerale?», chiesi d’impulso.

Finalmente l’ispettore se la sfilò dalle labbra quella cazzo di sigaretta.

«Dipende dal magistrato, ma credo presto.» Mi fissò a lungo.

«Posso chiederle di avvertirmi?» Frugai nella borsetta alla ricerca di un bigliettino da visita. «Mi faccia sapere, la prego.»

Dovetti rispondere a un altro paio di domande sul come e quando e poi finalmente fui libera di andarmene.

Teresa aveva insistito per accompagnarmi ed era stata davvero dura convincere lei e Micol che potevo farcela da sola ad arrivare a casa.

Avevo un gran bisogno d’aria, di schiarirmi le idee. Non sarei nemmeno voluta andare a quella maledetta festa, fin dall’inizio non volevo.

Me l’aveva detto Anita che sarebbe stata una serata movimentata. L’indomani le avrei tirato le orecchie perché o non aveva scelto l’aggettivo giusto o doveva cambiare foglie di tè per leggere i fondi.

Presi per il Pantheon e poi per piazza Navona. Roma era magica a quell’ora, come sempre ogni notte, mai del tutto deserta da aver paura, mai affollata da dare fastidio, semplicemente perfetta. Poi, dopo ciò che avevo passato, il mondo mi sembrava scintillante e meraviglioso come non mai. Non sapevo cosa avrebbe potuto riuscire a spaventarmi in futuro dopo un’esperienza simile. Avevo visto la morte in faccia.

Eppure, grazie a quel Kuja, non ero morta.

Se fosse stato così spietato come diceva l’ispettore Gatto, Kuja o come accidenti si chiamava avrebbe fatto fuoco su di me senza pensarci. Invece no. Ed era morto. Sentii di nuovo una stretta al petto. Doveva essere qualcosa di simile a quando si provoca un incidente con la macchina e l’altro guidatore muore, un senso di responsabilità e di colpa tremendi, anche se non te la sei andata a cercare.

Arrivai a Via dei Coronari maledicendo i sampietrini, infilai la chiave nel portoncino di legno e lo chiusi alle mie spalle. Nella portineria una vaga luce proveniva dal retro, indicava che Armando era ancora sveglio a guardare la tv.

Iniziai a salire i gradini di marmo consumati, ma dopo i primi quattro tolsi le Jimmi Choo e proseguii scalza, il tacco era ormai quasi andato. Avvertii il freddo sotto i piedi che mi arrivò dritto al cervello. Ero sul pianerottolo del secondo piano quando sentii lo scrocco di una serratura:

«Psss …Dorinda. »

Mi voltai nient’affatto stupita verso la porta a fianco alla targhetta con su scritto “Anita Davidova, spiritista”.

Dalla porta schiusa emerse la giovane russa, di bassa statura a differenza delle sue conterranee e con capelli neri come pece. Sapevo che non era una che andava a letto a orari normali, ma Anita era ancora truccata come se fosse pronta per uscire anziché andare a dormire. Mi avvicinai.

«Che ci fai ancora in piedi a quest’ora?»

Assottigliai le palpebre scuotendo la testa con disapprovazione. Quella ragazza faceva troppo spesso le ore piccole, come faceva a studiare di giorno se non dormiva la notte! Era un mistero.

La venticinquenne mi guardò con un sorrisetto furbo stirato sulle labbra tinte di un rossetto color prugna, quasi nero. Ma il sorriso le morì in faccia non appena gli occhi mi inquadrarono, dovevo essere un cencio.

Lo sguardo bistrato si incupì sotto le sopracciglia aggrottate.

«Cosa ha successo?» Anita continuava la sua guerra privata contro i verbi ausiliari della lingua italiana.

«Oh guarda, è una cosa talmente lunga… E poi nessuno lo sa meglio di te!»

Anita tentò di passarsi una mano sui capelli corti che erano spinosi per via del gel che li irrigidiva. Poi li sfiorò appena come per sincerarsi che tutti gli aculei pungessero nel modo giusto: «Vabbe’ non mi interessano le cose secondarie, raccontami il fatto importante della serata!»

Per un attimo la guardai perplessa pensando per la prima volta che forse qualcosa la intuiva davvero. Si pagava gli studi di ingegneria meccanica con la lettura delle carte e altre amenità simili. Una cosa nata per fare previsioni sui fidanzati delle amiche era diventata una specie di fonte di reddito.

Sbuffai. «Cosa vuoi sapere entro …- guardai l’orologio – …cinque secondi?»

Mi sorrise come una bambina davanti alle caramelle.

«Solo una cosa: lo ha incontrato stasera il tuo Re di coppe?»

   
 
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