E la notte finisce
La notte d'estate è la culla dei suoni più disparati. Godric's Hollow è un
piccolo paese, circondato dalla brughiera; se apre la finestra Gellert sente
chiaramente l'odore umido del caldo estivo nell'aria, e tutti i suoni quieti
degli animali notturni, più lontano.
E un frullare di ali, prima leggero, poi sempre più intenso man mano che il gufo
si avvicina risoluto alla sua finestra.
E' un animale fedele, pensa Gellert non senza una certa ironia, fedele ed
instancabile. Ormai è passata mezzanotte, e il povero uccello non fa che andare
e venire da una finestra all'altra, da un ragazzo chiuso in camera all'altro,
fin da dopo la cena di quella sera. Se le notti precedenti sono di qualche
indicazione, potrà riposare solo quando il cielo comincerà a tingersi di chiaro
all'orizzonte, e i primi raggi lontani del sole si perderanno nel freddo
dell'alba.
Ma mancano ancora molte ore, e molte lettere, a quel momento. Per ora il gufo
deve accontentarsi di posare un attimo le zampe sulla scrivania di Gellert,
rinfrescarsi con un po' dell'acqua che lui gli ha lasciato lì apposta, e magari
dormire qualche istante con la testa sotto l'ala, mentre Gellert legge
l'ennesima lettera e, con mano ferma a dispetto dell'ora tarda, si getta nella
risposta, scrivendo con la fretta di un uomo inseguito per mettere su carta i
suoi pensieri prima di perderne la forma migliore nel caos della sua mente
acuta.
Albus parla dei Doni con il desiderio di un bambino che anela alle braccia della
madre. Gellert si perde un istante a contemplare i profili dei tetti fuori dalla
sua finestra, mentre cerca di conciliare quella visione pulita e dolce con il
potere che sembra fluire dal suo proprio desiderio.
Sono così incredibilmente diversi.
Eppure per qualche strana alchimia si sono incontrati; e hanno imparato
un'abitudine di giornate passate insieme e di notti in cui l'inchiostro copre la
distanza tra le loro case.
Gellert fatica a spiegarsi quell'attrazione. Però la vive in pieno, senza
negarsene un momento; non importa se domattina scenderà a far colazione con sua
zia, le bacerà la guancia raggrinzita e prontamente si addormenterà nel piatto.
Il sonno sembra così una perdita di tempo, e Gellert sorride ricordando gli
occhi pesti e stanchi, e così azzurri da dargli le vertigini, di Albus quella
mattina. Ricorda il momento in cui li ha baciati, come se sentisse ancora il
gusto del suo stupore sulle labbra.
Ci sarà tempo un'altra notte per dormire, pensa Gellert, riprendendo a scrivere.
Ogni momento ed ogni parola con Albus è preziosa, e i suoi stessi occhi
cerchiati, la mattina nello specchio, non sono altro che il simbolo dolce di
quel legame.
Magari domani si addormenteranno di nuovo, come è già capitato, all'ombra di un
vecchio albero, con Albus che chiude gli occhi appoggiato alla sua spalla e
Gellert che lo segue nel sonno, risvegliandosi ore dopo con l'amico che gli
accarezza i capelli. Andrà bene.
Adesso Gellert scrive riga dopo riga, sciogliendo i dubbi, aprendo nuove
domande, tenendo viva con tutta la sua arte quella conversazione e quel legame
per una notte ancora. Non ne ha mai abbastanza.
Poi sveglia il povero gufo fin troppo sfruttato, che arruffa le penne per un
attimo, prima di arrendersi a fare il suo lavoro. Lo guarda partire e portare ad
Albus l'ennesima lettera che lo costringerà ad una risposta.
Gellert sa che andranno avanti tutta la notte a scriversi, di nuovo. Sorride tra
sé, e si siede di nuovo alla finestra ad ascoltare i suoni della notte estiva, e
non riesce, per quanto ci provi, ad immaginare qualcosa di meglio.
La notte d'autunno è la culla dei ricordi più amari. L'Europa si illumina di
fuochi e grida, anche se nella sua stanza non filtra il minimo rumore di tutta
quella guerra.
Albus è lontano, ormai. Gellert continua da anni a spingersi oltre ed oltre
lungo la strada che avevano scritto insieme, ma talvolta, quando la pioggia che
batte sul tetto è l'unico suono tutto intorno, e nessun gufo la sfida per
recarsi alla sua finestra, si sente come se la sua attesa fosse vana. Conta le
notti che passano e gli segnano il viso, implacabili e solitarie, senza Albus al
suo fianco. Qualche volta dubita che lo rivedrà, nella malinconia inevitabile di
quella stagione.
Non è mai stato un uomo da abbattersi davanti al tempo necessario per
conquistare quello che vuole; lo prova inevitabilmente la Bacchetta nella sua
mano e l'Europa che lentamente china il capo davanti al suo potere.
Eppure si rigira inquieto nel letto per ore, senza potersi impedire di pensare,
nel profondo del buio di fuori, a cosa farà se Albus non torna da lui.
Di giorno Albus tornerà sicuramente; di giorno c'è comunque tanto lavoro da fare
da bastargli per non perdersi nella spirale di quella disperazione. Di giorno
tutto è sicuro.
Ma la notte sfuma i contorni delle sue certezze, e Gellert si chiede, davvero,
quale fosse il potere di Albus che gliela faceva amare tanto, quando erano
ragazzi a Godric's Hollow. Rimpiange se stesso, poco più di un bambino, seduto a
gambe incrociate sul lettuccio nella sua camera spoglia da ospite, mentre
leggeva e rileggeva le parole sicure di Albus, le sue promesse e i suoi piani
per un futuro che non si è mai realizzato. Si guarda allo specchio, ormai uomo,
ormai oltre quegli anni dorati, e si vede segnato dalle notti di veglia, e le
occhiaie sul suo viso parlano solo di distanza e solitudine.
Non lo trova affatto giusto; di giorno la sua rabbia per quell'esilio rimane
sopita, mentre il mondo conosce la sua forza implacabile.
Ma ancora per ore Gellert sa che si rigirerà nel letto, che tenterà di spiegare
a se stesso di dover essere felice per i successi che ha conseguito, e tenterà
inutilmente di seppellire la nostalgia di lunghi capelli rossi sotto una spessa
coperta di riposo.
E non riuscirà comunque a prendere sonno se non per sognare, ancora e sempre, di
Albus.
La notte d'inverno è fredda come il corpo di un uomo morto. Nurmengard si
impone su tutti i pensieri, e costringe Gellert ad una veglia inquieta che tenga
a bada ancora un poco la paura.
Gli ululati sono l'unico suono a fargli compagnia. Non si sente altro, in quelle
notti, se non il frusciare degli alberi mossi dal vento e il silenzio gelido
della neve alta, fuori dalla sua prigione. Suoni che fanno paura, ed è stato lui
stesso a volerli così.
Gellert conta le notti una ad una; di giorno c'è sempre un'attesa a distrarlo,
una lettera che potrebbe arrivare da un momento all'altro, e che raramente lo
delude. Gellert sogghigna, in una parodia dei sorrisi affascinanti di un tempo;
è un vecchio uomo, legato ancora e per sempre ad un altro vecchio uomo, per sua
fortuna così generoso da non lasciarlo andare.
E' ironico e meritato quel tormento. Dietro le sue palpebre, quando tenta di
chiuderle e spera, contro ogni logica, di dormire sereno per una notte appena,
c'è inesorabile l'immagine di Albus, ritto e fiero davanti a lui quando l'ha
visto per l'ultima volta, poco prima che sulla punta della sua bacchetta si
infrangessero i sogni e i piani di Gellert. Lo ricorda bellissimo, e stranamente
trova che quell'età matura e potente gli doni di più dello splendore della
giovinezza. Si chiede come Albus sia rimasto immune dal tormento della loro
distanza per anni.
E poi si domanda incessantemente come sia Albus da vecchio. Non la sua mente,
che vede tutti i giorni riflessa nelle sue lettere preziose, ma le sue mani. Non
riesce ad immaginare nemmeno con tutta la sua fantasia che siano ancora calde e
morbide come quando erano ragazzi, e come quando presero le sue per tirarlo in
piedi, dopo il duello e la sconfitta. E i suoi occhi, che immagina finalmente
riposati e segnati dalle rughe del riso, e scintillanti di azzurro come sempre.
Gellert ha freddo, ma non è colpa della prigione. E' colpa di anni di mancanza,
della sua stanchezza di vecchio uomo, abbandonato come un relitto a marcire in
prigione. E della notte che ormai conosce a menadito, dell'attesa che comincia
inevitabile con lo scendere del buio, della sua incapacità di attendere il nuovo
giorno chiudendo gli occhi e lasciando scivolare via le ore nel sonno.
Si stringe nella coperta, un patetico vecchio stanco, e fissa il riflesso chiaro
della luna sulla neve, fuori dalla finestra. Pensa ad Albus come un'ossessione;
pensa alle sue lettere, alle sue parole ed elenca tra sé quello che gli dirà la
mattina. Pensa a quell'infinita conversazione che ha ritrovato tra le mura di
quella cella, e non ammette, se non per un brevissimo momento, di preferirla al
potere a cui l'aveva sacrificata.
Tiene a bada la paura delle ore più buie a Nurmengard e il freddo della notte, e
aspetta come sempre di sognare ancora l'alba che schiarisce i tetti di Godric's
Hollow, e la pergamena che scricchiola sotto la mano liscia di un ragazzo, e
naturalmente sempre Albus.
La notte di primavera è implacabile ed intensa, quando irrompe nella sua
cella con la figura scura del suo assassino. Gellert vorrebbe alzarsi e
concedersi l'orgoglio di affrontare entrambi in piedi, come l'uomo che è stato
in passato. Ma le gambe non vogliono reggerlo, e forse è meglio così.
Ha sempre pensato che la morte l'avrebbe trovato di notte; e quasi gli sembra di
aver trascorso la vita ad attenderla sveglio, in un'infinita sequela di momenti
preziosi, per non farsi cogliere indifeso nel sonno.
Così si siede, e va bene, pensa tra sé; non darà a Voldemort la soddisfazione di
scomodarsi per lui.
La vede per la prima volta, quell'ombra di un uomo che pure ha segnato di
lontano la sua vita, che si è preso quella preziosissima di Albus.
Non gli deve nulla, pensa guardandolo, nemmeno un briciolo di onestà.
-Io non l'ho mai avuta- gli dice, sorridendogli senza più nessuna paura, nessuno
ricordo e nessuna attesa ad impedirgli di godersi la notte. Non l'ho mai
avuta, pensa davvero, l'ho custodita malamente finché non è capitata in
mani migliori, e così sarà per te. Per un istante le sue dita si
contraggono, ma non a cercare il fantasma di una bacchetta dimenticata; a
cercare la mano ormai sepolta di Albus, il conforto della sua presenza in quegli
ultimi istanti della sua ultima notte.
La rabbia di Voldemort è così sciocca, nota Gellert con distacco, mentre quello
minaccia di morte un uomo che non attende altro.
-Allora uccidimi, Voldemort, io accetto volentieri la morte!- proclama, e
sorride, capendo d'improvviso di aver vinto una battaglia, se pure contro se
stesso. Nemmeno si stupisce quando gli sembra di sentire vagamente la presenza
di una mano impalpabile nella sua. E' bello ed è giusto, e Voldemort non capirà
mai.
Guarda il suo viso disgustoso da rettile, e pensa con un residuo implacabile di
orgoglio che no, Gellert Grindelwald è stato tante cose, ma mai quell'orrore
vuoto. Voldemort non ha mai goduto dei suoni della notte nell'attesa di leggere
dei sogni del suo amore; non ha mai sofferto per un ricordo doloroso e dolce
insieme; e non si è permesso di invecchiare consolandosi all'idea che ci fosse
qualcuno, seppure lontano, a preoccuparsi ogni giorno della sua redenzione.
Non ha che pietà per lui, e disprezzo.
-... ci sono tante cose che non capisci...- gli dice, in un'eco precisa delle
parole di Albus, e sente come un sorriso che si posa sulla sua pelle.
In un momento percepisce chiaramente ogni istante, ogni dettaglio ed ogni
ricordo della sua vita, e si stupisce solo un poco di percepirli pieni d'amore:
un amore carico delle promesse di due ragazzi che si erano trovati, degli errori
di due uomini che si erano persi e della nostalgia di due vecchi che si tenevano
a distanza. Ma vero e splendente e dopotutto, adesso, l'unica cosa che conti
davvero.
Tutto diventa chiaro.
Si sente pieno di una forza infinita.
-Tu non vincerai, non puoi vincere!- dice a Voldemort, e da lì è un attimo prima
che lui levi la bacchetta e gliela punti contro. Gellert chiude gli occhi,
pregustando il riposo.
-Avada Kedavra!-
E la notte finisce.
Questa fic è stata scritta per
l'ultima settimana
del COW-T di
maridichallenge .
In seguito ha partecipato al contest
25 Hours
Contest, indetto da Wynne_Sabia sul forum, classificandosi terza a pari
merito e guadagnandosi
questo bellissimo
bannerino.
Questo è il giudizio che ha ricevuto:
3° Classificate a parimerito:
[...]
e...
miki_tr con “E la notte finisce”
Grammatica: 9/10
Stile: 10/10
Originalità: 10/10
Caratterizzazione: 10/10
Gradimento personale: 10/10
Totale: 49/50
Allora, sulla grammatica ho solo delle piccolezze da farti notare: non metti la
maiuscola nè dopo I puntini di sospensione, nè dopo il discorso diretto, e con
il verbo sognare secondo me sarebbe stato meglio dire “Sognare Albus”, non
“Sognare di Albus”.
Per il resto, come vedi, è tutto perfetto!
La tua storia emoziona, studia un carattere complesso e contorto in modo
eccellente!
Complimentissimi!