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Autore: Unsub    20/06/2011    6 recensioni
Due persone completamente agli antipodi, come vivono le medesime emozioni? Cosa ci porta ad innamorarci di una persona? A volte la normalità della vita quotidiana porta un po' di luce in fondo al tunnel.
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Derek Morgan, Nuovo personaggio, Spencer Reid
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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prologo AUTORE: Unsub
TITOLO: A little bit of…
RATING: Giallo
GENERE: sentimentale, fluff.
AVVERTIMENTI: LongFic, What if?
PERSONAGGI: Spencer Reid, Derek Morgan, nuovi personaggi.
DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono(tranne quelli da me inventati), sono di Jeff Davis. Criminal minds appartiene alla CBS. Questa storia non è a scopo di lucro.
NOTE: La storia comincia tra la fine della terza stagione e l’inizio della quarta. Sono due storie d’amore parallele, che ci mostrano quanto diversi siano Morgan e Reid e come lo stesso sentimento possa essere vissuto in modo diametralmente opposto. Per chi mi ha seguito fino ad ora, avvertenze speciali: niente Sarah, niente Chris... niente di tutto ciò.

Prologo

Quantico Virginia, villetta bifamigliare su due piani (fine dell’episodio 18, 3^ stagione)
Dopo una settimana lunga ed impegnativa erano finalmente riusciti a catturare lo psicopatico che tormentava una donna a Silver Spring, nel Maryland. Morgan si soffermò a pensare quanto fosse facile cadere nelle mire di persone squilibrate, che scambiavano un sorriso di cortesia per l’invito a qualcosa di completamente diverso. La vita poteva prendere una svolta inaspettata in qualsiasi momento e per motivi che prescindevano la volontà del singolo individuo, quella donna ne era la prova vivente.
Non aveva incoraggiato l’S.I. in nessun modo, limitandosi a sorridergli freddamente dopo che lui le aveva sistemato il computer. Per quel pazzoide era stato l’inizio di un’ossessione che l’aveva portato a “corteggiare” la donna in modo ossessivo, fino a rapirla convinto di poter cominciare una vita insieme a quella povera sventurata.
Il loro era un lavoro che metteva in evidenza il peggio della gente, il lato oscuro insito negli esseri umani. Persone perfettamente equilibrate e senza colpa alcuna che si ritrovavano immischiate in situazioni fuori dal loro controllo, per un capriccio del destino. Se quel giorno la donna non avesse sorriso per un riflesso condizionato, insito nella società, quello psicopatico non avrebbe mai cominciato a perseguitarla.
Si disse che la vita a volte era buffa, ma non in senso positivo. Clooney, il suo rottweiler, era sdraiato di lato al letto e lo fissava con due occhi imploranti. Probabile che volesse uscire, ma lui non se la sentiva di andare a fare una passeggiata, con buona pace del bestione che muoveva convulsamente il moncone di coda. Morgan sospirò soddisfatto, mentre si rigirava nel letto, deciso a poltrire per tutto il fine settimana, quando due o tre colpi piuttosto forti provenienti dal piano di sopra lo costrinsero suo malgrado ad alzarsi.
Sapeva che, nonostante la sua offerta al proprietario della villetta bifamigliare, l’appartamento sopra il suo era stato venduto a qualcun altro. Sbuffò indispettito, pensando che se il suo nuovo vicino di casa era così rumoroso il sabato mattina alle nove, la loro “convivenza forzata” cominciava decisamente male. Afferrò un paio di jeans e una maglietta, deciso ad affrontare subito il nuovo rumoroso “coinquilino”.
Fece uscire il cane nel cortile posteriore, che era a suo uso esclusivo, e poi si diresse a passo sicuro verso l’ingresso principale. Attraversò a grandi falcate il giardino e fece le scale che conducevano all’altro appartamento, salendo i gradini due alla volta. Era pronto a bussare, quando si rese conto che la porta era solo leggermente accostante e non chiusa. Corrugò la fronte, chiedendosi chi fosse così incosciente da non chiudere bene la porta.
Si rispose che il nuovo inquilino non era solo troppo rumoroso, era anche uno che non leggeva i giornali e non capiva che il mondo era un posto molto pericoloso. Scosse la testa, augurandosi di non dover mai tornare a casa e trovare una chiazza di sangue sul soffitto. Si sentì di nuovo il rumore di qualcosa che cadeva e poi un urlo.
Spalancò la porta e corse dentro, preoccupato che stesse succedendo qualcosa inerente il suo lavoro, all’interno. La scena che si trovò davanti lo lasciò momentaneamente senza fiato e a bocca aperta.
Le pareti erano state tinteggiate di un’improbabile color giallo canarino e al centro della stanza, fra un mucchio di scatoloni ammucchiate, stava una figura avvolta in una salopette di jeans e con uno scatolone rigirato sulla testa.
Tutto intorno al corpo informe, una serie di cianfrusaglie giacevano abbandonate sul telo di plastica trasparente. Rimase fermò con un sopracciglio sollevato ad osservare quella scena al limite del surreale, chiedendosi se il misterioso personaggio si fosse fatto male. Prima che potesse accertarsi di qualcosa, sentì una risata forte ed argentina provenire dallo scatolone.
Vide due mani bianche sollevare il cartone e finalmente comparire una persona, che rideva con le lacrime agli occhi. Era una ragazza abbastanza giovane, dai capelli ramati e con divertenti fossette sulle guance che si notavano ancora di più per via di quella risata che non accennava a calmarsi.
-    Ehi ragazzina? Tutto bene? – chiese chinandosi verso di lei preoccupato.
-    Oh, sì… non si preoccupi, questo genere di incidenti mi capitano spesso – rispose la ragazza puntando su di lui due occhi color nocciola adorni di lunghe ciglia – Sono una vera sbadata… fortunatamente non ho niente di rotto…
I due si guardarono ancora qualche istante, poi Derek, resosi conto dello sguardo interrogativo della giovane ancora seduta per terra, decise che era il caso di presentarsi… voleva sapere a chi stava per fare la ramanzina.
-    Io sono l’inquilino del piano di sotto – cominciò con aria severa.
-    Sì, questa settimana l’ho vista uscire molto presto e rincasare molto tardi – disse la ragazza tirandosi in piedi – Avrei voluto venire a presentarmi, ma lei sembrava andare sempre così di corsa… Mi chiamo Fanny, Fanny McLaren.
L’agente federale scrutò la bianca mano, piccola e delicata, che gli veniva tesa. Esaminò ancora un momento, con aria critica, quell’assurda ragazzina.
-    Io sono Derek Morgan – disse senza stringerle la mano – Le sarei grato se evitasse tutto questo trambusto.
-    Mi dispiace se l’ho disturbata… sto finendo di traslocare – la ragazza, per nulla intimidita, piegò la testa di lato e gli regalò un sorriso dolce – Di solito non sono così rumorosa, glielo posso garantire.
-    Speriamo…  - Morgan non abbandonava ancora il suo cipiglio contrariato – Inoltre per il futuro sarebbe meglio che chiudesse la porta. Si rende conto che poteva entrare chiunque?
-    Beh… ma è entrato lei – di nuovo sorrise – Non dove temere niente da un’agente federale, no?
-    Come fa a sapere…
-    Il vecchio proprietario mi ha detto che le è nell’F.B.I., mi ha garantito che è una persona piuttosto tranquilla e non uno svitato di cui il mondo pullula.
-    Signorina McLaren… - provò di nuovo il moro.
-    Fanny! – squittì la strana ragazza – Visto che siamo vicini, mi puoi chiamare anche per nome.
-    Fanny, forse non ti rendi conto che è pericoloso…
-    Guarda che nessuno può saperlo meglio di me – Fanny mise il broncio e gonfiò le guance.
-    Ah sì? E come mai nessuno conosce il pericolo meglio di te? – suo malgrado Morgan sorrise della buffa espressione della ragazza.
-    Sono anatomo-patologa, lavoro per l’ufficio del medico legale di Washington…
-    E tieni la porta aperta? Dovresti averne viste di cose. E poi non sei un po’ troppo giovane per essere anatomo-patologa? – osservò la ragazza che sembravano giovanissima, sui vent’anni.
-    Ho 28 anni e poi la porta era aperta perché stavo per scendere…
-    E dove andavi di bello? – decisamente quella ragazza era fuori dal mondo.
-    Venivo a presentarmi. Ho visto la tua macchina parcheggiata qui davanti e ho pensato che fosse educato scendere a conoscerti.
-    Ti presenti così a casa delle persone? – Derek la scrutò di nuovo dall’alto in basso – E sei io avessi cattive intenzioni? In fin dei conti sono un estraneo.
-    Beh – la ragazza gli regalò un altro dei suoi sorrisi smaglianti – Un estraneo è solo un amico che non hai mai incontrato prima.
-    Tu sei tutta matta!
Però scoppiò a ridere insieme a lei: decisamente la vita sarebbe stata meno noiosa con l’arrivo di quella nuova improbabile vicina.


Georgetown University, Biblioteca (dopo l’episodio 1 della 4^ stagione)
Spencer era seduto da ore su quella scomoda sedia di legno pesante, sembrava non curarsi di nessuno, tutto preso a sfogliare svogliatamente un poderoso tomo di filosofia. In condizioni normali avrebbe impiegato pochissimo a leggerlo tutto e memorizzarlo, ma il suo formidabile cervello era preso da un’equazione impossibile da risolvere.
Cominciò a osservare intensamente una pagina del libro, senza effettivamente vederla. Troppo informazioni, troppe novità da digerire per potersi concentrare sui suoi studi. In poco più di due settimane aveva visto andare in frantumi il suo sogno segreto: sapeva che era impossibile da realizzare, ma ora si doveva scontrare contro la dura realtà e niente avrebbe cambiato questo fatto.
Quando JJ aveva cominciato a frequentare il detective LaMontagne, circa un anno prima, si era detto che la loro relazione sarebbe finita schiacciata dal peso della lontananza: bastava avere un po’ di pazienza e fare finta di ignorare quello che legava quei due. Nel frattempo avrebbe potuto crogiolarsi nel suo sogno di vedere JJ guardarlo con occhi diversi, la possibilità che lei vedesse più di un amico e collega. Anche quando erano venuti allo scoperto durante il caso a Miami, lui non aveva battuto ciglio: quanto ancora poteva durare quella relazione a distanza?
Poi c’era stato New York… strinse istintivamente i pugni al ricordo di come un pezzo dopo l’altro aveva visto infrangersi i suoi sogni e il suo cuore. Prima la notizia che lei aspettava un figlio dal poliziotto di New Orleans, primo colpo al cuore. In una frazione di secondo si era detto che poteva fingere che fosse suo, in fin dei conti nessuno poteva portargli via il mondo interiore che si era costruito nella mente. Quando aveva sentito Will annunciare di aver chiesto a Jennifer di sposarlo, aveva ingoiato a vuoto. Si era sforzato di abbracciarla ed augurarle il meglio, mentre dentro si sentiva morire.
Si era detto che non tutto era perduto, forse lei avrebbe rifiutato, decidendo di crescere il bambino da sola. La distanza era ancora parecchia, non si poteva portare avanti un matrimonio vivendo in due città diverse a chilometri di distanza, che razza di padre sarebbe stato? Lei sicuramente avrebbe messo al primo posto la priorità del piccolo di avere una figura paterna di riferimento. Quando, alla centrale, avevano consegnato al suo biondo sogno segreto quella busta, aveva provato a convincersi che lui l’avesse lasciata.
In fin dei conti si doveva essere reso conto che quella situazione era assurda. Non poteva essere così stupido, era impossibile continuare in quel modo. Aveva visto lo sguardo della ragazza illuminarsi e si era sentito morire per la seconda volta in poche ore. Che lui le avesse chiesto di lasciare il lavoro e trasferirsi? No, si disse scartando subito l’ipotesi, JJ adorava il suo lavoro e la squadra. Era inconcepibile che li lasciasse per seguire quel tipo.
Aveva trovato il coraggio di chiederle cosa dicesse la lettera e lei, tutta sorridente ed ignara di stare spezzando il cuore del suo “amico”, aveva comunicato che Will lasciava il suo lavoro a New Orleans per trasferirsi a Washington e stare vicino a lei e al bambino. In quel momento si era reso conto che non c’erano più speranze a cui aggrapparsi e aveva preso la decisione di era concentrato sul caso, ingoiando tutta la sua sofferenza.
Alla fine il suo lavoro era abbastanza impegnativo da permettergli di non pensare continuamente al suo sogno d’amore infranto e questo gli permetteva di tirare avanti, più o meno. La parte peggiore erano i week-end liberi, se ne rese conto mentre lasciava che il suo sguardo vagasse per la grande biblioteca del campus universitario. Anche se cercava di concentrarsi sullo studio e chiudere tutto il resto fuori, sapendo di non avendo scadenze precise a cui fare riferimento, il suo cervello si permetteva di divagare ed inseguire quella chimera.
JJ era sempre stata gentile con lui, aveva sempre un sorriso ed una parola di conforto. Per non parlare di quando gli toccava il braccio e stringeva leggermente, per comunicargli tutta la sua partecipazione. Lo chiamava ancora Spence, ma per lui non aveva più quel suono dolce che in passato lo portava a sorridere. Era, ormai, solo il suo nome sulle labbra di qualcuno che non l’avrebbe mai considerato un papabile compagno di vita.
Sbatté le palpebre un paio di volte, rendendosi conto di aver perso mezz’ora inseguendo il flusso di quei pensieri tristi. Doveva rassegnarsi al fatto di essere solo, non aveva nessuno nella sua vita oltre i suoi compagni di squadra. Non ci sarebbe stata nessuna ragazza ad aspettarlo dietro la porta di casa, con un sorriso dolce e un “bentornato” sulle labbra. Il suo piccolo appartamento sarebbe rimasto pieno solo di libri…
Doveva dimenticare JJ e quello che provava per lei, doveva cancellare quelle vane speranze dal suo cuore e concentrarsi sul lavoro e lo studio. Niente più distrazioni romantiche, niente più sogni ad occhi aperti. Lo scontro con la dura realtà era troppo difficile da sopportare.
Un pensiero seguì tutti gli altri. Al mondo c’erano quasi sette miliardi di abitanti, possibile che non ci fosse la ragazza adatta a lui che avrebbe ricambiato i suoi sentimenti? Statisticamente era alquanto improbabile che non ne incontrasse mai almeno una interessata… statisticamente…
Poteva provare, in fin dei conti tentare non costa nulla. Avrebbe dimenticato JJ, che decise di considerare solo un’amica e una collega, e si sarebbe guardato intorno. Poi si diede dello stupido, lui non era mica Morgan. Non era in grado di attaccare bottone con una ragazza senza che questa decidesse all’istante che era uno sfigato senza speranza. Non era brillante e l’unica cosa di cui sapeva parlare erano le statistiche e il suo lavoro. Quale ragazza poteva trovare affascinante uno che parla come un libro stampato?
Aveva bisogno che qualcuno gli regalasse un sorriso, magari anche distratto, ma che gli facesse sentire di non essere invisibile. Voleva che qualcuno gli facesse sentire di esistere, che per un attimo nella sua vita lo facesse sentire protagonista e non mero spettatore degli aventi che si svolgevano tutt’intorno.
Era nella biblioteca della Georgetown e quindi sapeva dove trovarlo quel sorriso. Alzò lo sguardo verso il bancone e lei era lì, come sempre, con una coda di cavallo e quel gesto nervoso con cui si riaggiustava gli occhiali da lettura sul naso. Era giovane e carina, sempre disponibile con tutti e, soprattutto, era una ragazza solare che regalava il suo sorriso a chiunque le rivolgesse la parola.
Poteva avvicinarsi con la scusa di chiedere un’informazione e ricevere quello di cui sentiva il bisogno in quel momento. Era facile, bastava alzarsi e camminare per una diecina di metri. Cercava di trovare una ragione per rivolgerle la parola, frugando disperatamente nei meandri del suo cervello per trovare qualcosa da chiederle. Improvvisamente la ragazza alzò lo sguardò fino ad incrociarlo con quello di lui e si aprì in quel sorriso gioviale che per Reid fu contagioso.
Le sorrise a sua volta, inconsapevolmente, sentiva chiaramente le sue labbra piegarsi all’insù senza che lui avesse impartito quell’ordine alla sua bocca. Fu ricompensato da un sorriso ancora più luminoso da parte della ragazza seguito da qualcosa che Spencer non si era proprio aspettato. Vide un lieve rossore apparire sulle gote di quella ragazza, che prontamente chinò la testa di scatto, girando il viso come alla ricerca di qualcosa.
Aggrottò le sopracciglia stupito, cosa stava succedendo? Forse, si disse, non sorrideva a lui ma a qualche bel ragazzo alle sue spalle. Risposta ovvio, si rimproverò: cosa si era aspettato? Che una ragazza così carina e sicuramente piena di ammiratori, rivolgesse un sorriso del genere a lui? Impossibile, si disse mentre si voltava a cercare il fortunato destinatario di quel rossore improvviso. Si girò e rigirò, facendo correre lo sguardo su tutta la sala.
Si rese conto che in realtà nella sala di lettura erano presenti solo lui e la bella assistente. Guardò l’orologio e si rese conto che era perfettamente normale, visto che ormai si era fatto ora di pranzo, era sabato e gli esami erano ancora lontani. Chi poteva frequentare la biblioteca in quel momento? Solo un caso disperato come lui.
A quel pensiero ne seguì un altro. Se erano solo loro due… quel sorriso e quel rossore erano rivolti a lui e non a qualche fantomatico maschio alfa che si aggirava per quel luogo silenzioso. Ingoiò, spiazzato da quella rivelazione improvvisa, chiedendosi come fosse possibile. Sentì il cellulare che vibrava nella tasca dei pantaloni e lo afferrò, pensando che quello era qualcosa che poteva gestire. Gli facevano meno paura gli S.I. che il dover parlare con una ragazza di cui non conosceva neanche il nome.
Nonostante fosse un anno che frequentava la biblioteca, le aveva rivolto la parola solo un paio di volte, sorprendendosi del sorriso di lei e di quella voce calma e pacata, che trasmetteva sicurezza. Eppure non si era mai presentato, non aveva mai sentito neanche nessuno chiamarla per nome e sulla targhetta che portava appuntata al petto c’era scritto solo Jones. Almeno sapeva il suo cognome.
Il display del cellulare gli stava comunicando che c’era un caso e che doveva presentarsi a Quantico. Rabbrividì al pensiero di doversi trovare nella stessa stanza con JJ, non si sentiva ancora emotivamente pronto ad affrontare la nuova realtà che lo schiacciava con tutto il suo peso. Si alzò avvicinandosi al bancone con i due libri che aveva preso diverse ore prima. La ragazza gli regalò un altro timido sorriso mentre allungava le mani per prenderli.
-    Devo andare via di corsa… - provò a giustificarsi lui.
-    Non si preoccupi, li rimetto a posto io – di nuovo quella voce calda che lo avvolse come in una coperta.
Si incamminò verso l’uscita, aveva lasciato la macchina nel parcheggio dietro la biblioteca. Fortunatamente il traffico di Washington a quell’ora del sabato era quasi inesistente, meditò che con mezz’ora sarebbe potuto arrivare tranquillamente in ufficio. Era appena uscito dalla porta, quando sentì dei tacchi correre sul marmo dell’ingresso. Si voltò, curioso di sapere che potesse disturbare così il silenzio di quel luogo quasi sacro per lui.
Vide la mora assistente correre verso di lui, con la lunga gonna che le svolazzava intorno alle caviglie e i capelli ondeggiare da una parta all’altra della testa, stretti in quella coda che permetteva di scrutare liberamente quel viso dai lineamenti regolari.
-    Dr. Reid – chiamò la ragazza avvicinandosi trafelata e stringendo qualcosa all’altezza del petto con entrambe le mani.
-    Sì? – chiese lui corrucciato, chiedendosi come mai quella ragazza gli rivolgesse la parola di sua spontanea iniziativa e lo inseguisse trafelata.
-    Mi scusi – disse lei fermandosi ad un paio di passi – Ha dimenticato questo.
Dicendo così, allungò le mani aperte verso di lui, mostrando il tesserino dell’università che aveva sbadatamente lasciato sul tavolo dove aveva passato la maggior parte della mattina. Il sorriso della ragazza era incerto e le gote erano leggermente arrossate, se per la corsa o altro lui non sapeva dirlo.
-    Grazie – balbettò imbarazzato allungando la mano – E’ stata molto gentile… signorina Jones.
-    Hope – disse la ragazza abbassando lo sguardo – Mi chiamò Hope.
-    Hope – ripeté Spencer osservandola ancora un attimo – Ancora grazie, io… devo andare.
-    Certo dottor Reid.
Si incamminò confuso da quella scena. Lei sapeva come si chiamava! Si diede dello stupido, sicuramente aveva letto il nome sul tesserino. Mentre camminava lungo il viale se lo rigirò tra le dita e si fermò di colpo rendendosi conto di una cosa. Sul tesserino c’era scritto semplicemente Spencer Reid, non dottore… eppure la ragazza sapeva che lui aveva diritto a quell'appellativo. Si girò verso la biblioteca, interdetto e sconcertato.
Di lei, naturalmente, neanche l’ombra. Era rientrata per riprendere il suo lavoro, era da sciocchi supporre che si fosse fermata per guardarlo andare via. Eppure una parte del suo cervello lo aveva sperato. Per quella ragazza lui esisteva, l’aveva notato, gli aveva regalato uno dei suoi splendidi sorrisi ed era addirittura arrossita quando lui aveva ricambiato quel gesto.
-    Hope… - la brezza gli scompigliò i capelli mentre lui sentiva una sensazione che non sapeva definire, come di attesa – Hope…
   
 
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