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Autore: Caesar    22/06/2011    1 recensioni
Narciso.
Quando la vanità si consuma nel fuoco.
‹‹La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana.
Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una sull’altra,
ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l’eternità.››
(Oscar Wilde)
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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To/ Ka/lloj

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‹‹La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana.

Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una sull’altra,

ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l’eternità.››

(Oscar Wilde)

 

*****

 

Poteva sentire il vento portare con sé, nel profumo e nei colori, gli ultimi riverberi di quell'estate che oramai si stavano lasciando alle spalle. Narciso riusciva ancora a scorgerla, a tratti, nella carezza che voluttuosa gli sfiorava il viso d’una bellezza quasi divina, mentre passeggiava per boschi altrettanto splendidi e divini. Oppure mentre ascoltava lo scorrere sommesso di fiumi lucenti, dove le correnti s'intrecciavano in tranquilli mulinelli, gorgoglii e fiori bianchi, cascate di spuma; lì dove belle Naiadi – ninfe d'acqua e purezza - si schizzavano ridendo, senza neppure cercare di sottrarsi al suo sguardo.

Erano momenti come quelli – quando si abbandonava al sottile piacere di sedersi all'ombra di una quercia nodosa, o di vagabondare senza meta tra mille sentieri che nessuno aveva mai percorso prima -, erano momenti come quelli in cui amava dirsi che, sì, il mondo intero sembrava davvero plasmato a sua immagine e somiglianza.

Non c'era nulla in quella Natura, così matura e saporita e fulgida, che non gli ricordasse la sua sfolgorante bellezza. Non c'era nulla nel mare ornato di candida spuma, o negli uliveti di bronzo e argento; nulla nella dolcezza di quelle sere profumate – brevi come un secolo e lunghe come un'ora -, o ancora nel concavo blu del cielo estivo, che non gli richiamasse il Bello in ogni sua sfumatura e che, con il Bello, non sussurrasse il suo nome - nell'acqua e nel vento.

Eppure, a volte riusciva quasi a indovinarlo, la sua stessa bellezza gli era estranea: ne avvertiva la presenza, certo, ma non la conosceva; era una consapevolezza appresa per altre bocche e altri sguardi, tramite quella carezza voluttuosa che ora gli bisbigliava all'orecchio. Era una regione inesplorata del suo animo, lande sconosciute e sentieri mai battuti, soli notturni e lune come conchiglie d'argento in un mare d'inchiostro e more; una mora per ogni desiderio mai espresso, una per ogni segreto mai svelato, una per ogni istinto mai seguito. Avventurarvisi sarebbe equivalso ad affrontare la linea dell'orizzonte senza paura di rimanerne sconfitti, a voler conoscere sé stessi senza timore di venir sopraffatti. Sarebbe stato come sfidare l'Ignoto e spalancare le porte di un universo che forse esisteva solo dentro di lui, disprezzare ogni specchio e ogni riflesso, incamminarsi verso un'oscurità composta da stelle e desideri, sogni e paure, amare verità.

Ma tutto questo, Narciso, non lo poteva nemmeno immaginare.

La sua Bellezza gli rimaneva aliena. Poteva scorgerla nel vento, però. O ritrovarne l'immagine distorta nello sguardo di chi – stupido, stupido, stupido – la bramava e la desiderava.                            

Ma lui – lui – non l'avrebbe mai divisa con qualcuno: era troppo bello - e forse anche troppo egoista - per volerla spartire con altri ciò che la Natura gli aveva così giustamente donato.

La sua Bellezza – lo vedeva, lo vedeva e crudelmente ne gioiva – sapeva incendiare il cuore di chiunque la incontrasse, illuminandone lo sguardo, spingendolo a volerla, a volerla disperatamente. Ma – ancora, di nuovo – era troppo bello, e forse anche troppo vanitoso, per concedersi – concederla – a chicchessia.

Li aveva sempre respinti, uno dopo l'altro; e mentre lui sghignazzava e rideva e cantava, loro – stupidi, stupidi, stupidi – si lamentavano e disperavano.

Inutilmente.

Eppure, mentre li guardava e li derideva, non poteva fare a meno di chiedersi per cosa, esattamente, si stessero straziando. A volte aveva perfino la tentazione – una tentazione cui non si era mai abbandonato - di andare da loro e chiederglielo: perché proprio… proprio lui non lo sapeva…

 

*

 

C'erano state donne – e uomini – che erano stati pronti a fare pazzie, pur di poterlo sfiorare per un attimo, o anche solo per sentirne il profumo da lontano. I nomi si sovrapponevano l'un l'altro, si univano e separavano come costellazioni notturne: erano solo poche sillabe da confondere tra mille altre, visi e fattezze che avrebbe dimenticato nello spazio infinito tra l'inizio e la fine della parola “Sempre”.

Però c'era un nome – un viso, un ragazzo – che riusciva a ricordare. Un giovane – come si chiamava? Aminia? Poteva essere? - che l'aveva bramata tanto, la sua bellezza, da uccidersi per non essere riuscito a ottenerla.

‹‹ Ti amo›› sussurrava, e sulla sua bocca le parole scivolavano come dolce miele velenoso.

‹‹ Ti amo e ti desidero›› ripeteva; e nello sguardo aveva la fiamma che incendia l'animo dei folli.

E degli innamorati.

‹‹ Se mi ami›› aveva ribattuto Narciso un giorno, con un sorriso crudele sulle labbra che sapeva essere belle. ‹‹ Se mi ami veramente, ucciditi››.

Ricordava ancora quel giorno, anche se oramai nella sua mente i contorni erano andati sfumando e dei colori rimaneva soltanto un’eco indistinta. Ricordava la spada che gli aveva teso e come lui – stupido, stupido, stupido - l’avesse impugnata tra le mani tremanti.

Poteva ancora avvertire sulla pelle il calore di quella giornata fulgida, vedere la rugiada che riposava sui boccioli di fiori colorati come un velo di neve: ori scintillanti si riversavano su zaffiri blu mare, si mischiavano a rubini rossi come sangue, e pietre d'azzurro, di viola, di bianco. Era un arcobaleno di luce e profumi incatenato alla madre terra, spezie e aromi che accecavano e stordivano.

Poteva ancora sentire il vento bisbigliargli quanto fosse bello, rivedere quello sguardo innamorato – quello sguardo folle – in cui scorgere, anche se distorta, la propria bellezza come in uno specchio d'acqua. Ricordava il filo della lama che si accendeva di fuoco e fiamme di fronte a lui, che – immobile, sghignazzando – si limitava a osservare lo spettacolo che gli veniva generosamente concesso.

L'avrebbe fatto? Avrebbe rinunciato a tutto ciò che possedeva, a tutto ciò che aveva di più caro, per soddisfare un suo capriccio?

Si sarebbe ucciso?

Non lo sapeva. A volte arrivava a pensare che quella follia, da taluni chiamata Amore, non fosse altro che la maledizione crudele di qualche divinità annoiata. Perché solo un dio poteva essere così meschino da infliggere un tale flagello.

Narciso ricordava. Ricordava come, incrociando il suo sguardo indifferente, gli occhi d'Aminia si fossero accesi di una nuova fiamma, in grado d'incenerire ogni pensiero. Ricordava di come avesse alzato la spada e - invocato chissà quale nume in cerca d’una facile vendetta - avesse spento le fiamme della spada in un tributo che profumava di sangue.

Stupido, pensò Narciso mentre osservava il ragazzo cadere a terra. Lui, la propria bellezza, non l'avrebbe divisa con nessuno. Spostò l'attenzione su quell'arcobaleno di profumi e colori, osservandolo affogare in un giardino di fiori insanguinati. Chissà – si era detto pensieroso – forse qualche nume avrebbe davvero dato ascolto alla supplica senza voce di Aminia.

Ma per il momento lui – Narciso – poteva limitarsi a sorridere.

 

***

 

La fonte era limpida, profonda, cristallina; l'acqua sgorgava gelida in brevi cascate di spuma.

Era così splendida nella sua inaudita purezza – lacrime cadute dal cielo, sapore di pioggia – che Narciso non poté trattenersi dall'avvicinarsi: il Bello, quello stesso Bello in cui si ritrovava attimo dopo attimo, non avrebbe mai smesso d'affascinarlo. Ma forse era così per tutti.

A tratti, le ombre leggere degli alberi vi si riflettevano come in uno specchio di vetro, così sfuggevoli e inafferrabili da far dubitare d'averle viste veramente.

Era una calda giornata di fine autunno. Quando Narciso si chinò per dissetarsi, miniature di vascelli dorati solcavano quell'acqua pura e fredda come neve, foglie secche e colorate: non sapeva – non poteva sapere, no – di star correndo incontro al proprio destino.

Il Fato: tra tutti i numi, il più generoso e il più spietato.

Si stava ancora chinando su quella pozza di ghiaccio, quando si fermò all'improvviso: qualcuno – ma chi? - lo stava osservando dall'altra parte di quello specchio lucente.

Chi era?

Chi era quel ragazzo dalla bellezza sfolgorante? Di chi era quella chioma di bronzo incandescente, quello sguardo blu come un mare di notte, quel viso divino?

Non lo sapeva. Poteva solo osservarlo e divorarlo cogli occhi, senza saziarsi mai di quel corpo di marmo liscio, di quei denti bianchi come conchiglie murmuri lavare da chissà quale fiume lontano.

Non aveva mai visto – non avrebbe mai potuto vedere – qualcosa di più bello, o qualcosa che meglio potesse incarnare l'ideale di Bellezza che l'aveva infiammato fin dalla nascita.

Lo amava – realizzò all’improvviso. Amava quelle mani, bianche e lunghe e nervose, che poteva scorgere appena e bastavano a scatenare in lui i desideri più sfrenati; ne amava le braccia muscolose, lo sguardo leggero, l'espressione indecifrabile. Lo amava e lo desiderava disperatamente, in modo così atroce da pensare che una brama tanto bruciante avrebbe potuto strappargli il respiro, o persino il cuore dal petto.

Oh, quant’era bello! Ma chi era? Chi era quell’Eros di carne e sangue, quel bel dio precipitato dall’Olimpo per qualche empio misfatto?

Era interrogativi cui non sapeva dare risposta, punti di domanda che si affollavano nella sua mente senza potersi fermare. Allungò una mano – l’avvicinò all’acqua in un inutile tentativo di sfiorarlo: le sue dita infransero solo lo specchio perfetto d’una lastra di ghiaccio e neve. Spalancò gli occhi.

Ma allora… allora…

… quel ragazzo, quell’uomo, quel dio…

… era forse lui?

Era forse lui stesso quel dio mortale di cui bramava la vista e il tocco?

Era possibile... per tutti gli déi...

… era possibile... ?

No! Mai! Non poteva accettarlo!

Una beffa simile non avrebbe mai potuto sopportarla: proprio lui che non avrebbe mai voluto condividere la propria Bellezza con qualcun altro, non era in grado di condividerla con sé stesso.

Doveva esserci – doveva – una qualche altra spiegazione… forse lo scherzo di qualche dio capriccioso, o forse la follia di un demone spietato...

Eppure… eppure…

Era lui, ormai se ne rendeva conto. Non poteva fingere – oh, ma quanto l’avrebbe desiderato! – non poteva proprio fingere di non riconoscersi nel ragazzo che, disperato, lo stava guardando oltre quella pozza d’acqua.

Oh, Fato crudele! Soffriva ora, soffriva atrocemente. Ora comprendeva la Bellezza, quel Bello ch’aveva sempre inseguito e, ahimè!, non avrebbe mai potuto nemmeno sfiorare.

Comprendeva la propria Bellezza e - peggio ancora - comprendeva sé stesso: aveva sfidato l'Ignoto e aveva perso, aveva spezzato la linea dell'orizzonte solo per venirne annientato.

Era come se la terra si stesse sgretolando sotto i suoi piedi, lasciandolo precipitare per spazi che parevano infiniti. Ora, ora capiva! Le lacrime, la disperazione, quel fuoco che aveva scorto nello sguardo d’Aminia: era atroce brama, desiderio di possesso, venerazione per qualcosa che non si sarebbe mai potuto avere. La Verità, amarissimo calice, lo stava intossicando, gli lacerava la mente, la divideva in migliaia frazioni d’arcobaleno che non avrebbe più saputo far collimare.

Che fare? Che fare ora?

Le dita tremanti, si rese conto, erano corse alla spada che portava sempre con sé: la spada che aveva scagliato Aminia nella Casa di Ade. Aminia, che aveva preferito uccidersi piuttosto che vivere senza Bellezza.

Chissà, forse la morte gli avrebbe concesso di porre fine alle proprie sofferenze; ché una vita come quella che avrebbe dovuto condurre d’allora in poi, così misera e infelice, non avrebbe potuto sopportarla.

Meglio morire, ora e subito. Non c’era spazio per esitazioni, né per rimpianti, né altro; non c’era tempo per parole prive di significato, o per ultimi, inutili pensieri.

Il vento non sussurrava più: non ne aveva più bisogno, adesso, per comprendere la propria Bellezza. Non era più una consapevolezza appresa per altre bocche e altri sguardi: era lì, vivida e presente, un veleno che lo intossicava e uccideva.

Sollevò lo sguardo. La luce di quel pomeriggio incerto lacerava nubi già a brandelli, mari di soffice oscurità e infiniti laghi di foglie che - poco sopra di lui - s'intrecciavano in curiose costellazioni d'oro, rosso e bruno, giallo; il bosco bisbigliava.

Le Naiadi non giocavano più: Narciso non riusciva più a sentire i loro schiamazzi lontani, il gorgoglio placido di qualche fiume. Oramai sapeva: neppure la più splendida distesa d'agrumi e ulivi, la sera più dolce o la più bella collana di spuma che potesse ornare il candido mare, avrebbe mai potuto restituirgli ciò che aveva perso. Aveva cercato la Bellezza per tutta una vita, aveva varcato ogni soglia e attraversato ogni terra e non l'aveva trovata. Ora capiva che tutto ciò che aveva bramato lungo i suoi viaggi, era sempre stato con lui.

Una luce scese su Narciso come una pioggia di stelle, illuminandone la spada di mille riflessi infuocati. Lui rimase immobile un attimo soltanto, il tempo necessario per sfiorare con lo sguardo gli alberi spogliati dall'autunno inoltrato, i pochi fiori sopravissuti al rigore delle ultime settimane, quelle buffe costellazioni di foglie colorate. Il vento sembrava volerlo salutare per un'ultima volta: Narciso ne sentì la carezza e il bacio appassionato, mentre sollevava attorno a lui una danza di petali dalle sfumature improbabili: rossi insanguinati si confondevano a blu cielo, a neri lucidi e ori scintillanti, a verdi scuri e viola splendenti. Era un coro d'addio: se solo avesse teso l'orecchio, forse avrebbe potuto udire il mare mugghiare lontano, spumeggiare contro le scogliere, riversarsi nei fiumi e risalirli, solo per poterlo vedere ancora. Prima che fosse troppo tardi.

Ma era già troppo tardi.

Narciso socchiuse appena le palpebre, sollevando il viso verso i pochi raggi di sole che riuscivano a raggiungerlo attraverso l’oscurità, prima di stringere l'elsa della spada.

La lama affondò in profondità: lacerò carne e muscoli, ossa e tendini spezzò.

Il Bello sfioriva come un fiore di fuoco: divorato da un rogo di sangue, orrore e fiamme silenziose, stravolto dal dolore. Narciso cadde a terra come un idolo trascinato nel fango, un eroe caduto alla fine dell'ultimo atto, ma la sua Bellezza rimase intatta. Lui sperò soltanto di poterla ritrovare ancora, anche là dove non c’era vita, lungo gl’infiniti giardini d'asfodeli in cui avrebbe vagato per l'eternità, o magari nelle torbide acque dell'Acheronte.

E chissà, questa volta forse sarebbe stata davvero sua.

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Un racconto scritto quasi un anno fa, nel caldo di un'estate troppo lunga che - come tutte le altre - se ne è andata troppo presto. Non so perché abbia deciso di pubblicare un lavoro di così vecchio; probabilmente, mi piaceva l'idea che qualcuno potesse commentarlo senza tutti quei condizionamenti che - fatalmente - incatenano coloro che mi conoscono.
Ebbene? Mi sono meritato un commento? ;)
Caesar

   
 
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