To/
Ka/lloj
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‹‹La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana.
Le
filosofie si
disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una
sull’altra,
ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l’eternità.››
(Oscar
Wilde)
*****
Poteva
sentire il vento portare con sé, nel profumo e nei colori,
gli ultimi riverberi di quell'estate che oramai si stavano lasciando
alle
spalle. Narciso riusciva ancora a scorgerla, a tratti, nella carezza
che
voluttuosa gli sfiorava il viso d’una bellezza quasi divina,
mentre passeggiava
per boschi altrettanto splendidi e divini. Oppure mentre ascoltava lo
scorrere
sommesso di fiumi lucenti, dove le correnti s'intrecciavano in
tranquilli
mulinelli, gorgoglii e fiori bianchi, cascate di spuma; lì
dove belle Naiadi –
ninfe d'acqua e purezza - si schizzavano ridendo, senza neppure cercare
di
sottrarsi al suo sguardo.
Erano
momenti come quelli – quando si abbandonava al sottile
piacere
di sedersi all'ombra di una quercia nodosa, o di vagabondare senza meta
tra
mille sentieri che nessuno aveva mai percorso prima -, erano momenti
come
quelli in cui amava dirsi che, sì, il mondo intero sembrava
davvero plasmato a
sua immagine e somiglianza.
Non
c'era nulla in quella Natura, così matura e saporita e
fulgida, che non gli ricordasse la sua sfolgorante bellezza. Non c'era
nulla
nel mare ornato di candida spuma, o negli uliveti di bronzo e argento;
nulla
nella dolcezza di quelle sere profumate – brevi come un
secolo e lunghe come un'ora
-, o ancora nel concavo blu del cielo estivo, che non gli richiamasse
il Bello
in ogni sua sfumatura e che, con il Bello, non sussurrasse il suo nome
-
nell'acqua e nel vento.
Eppure,
a volte riusciva quasi a indovinarlo, la sua stessa
bellezza gli era estranea: ne avvertiva la presenza, certo, ma non la
conosceva; era una consapevolezza appresa per altre bocche e altri
sguardi,
tramite quella carezza voluttuosa che ora gli bisbigliava all'orecchio.
Era una
regione inesplorata del suo animo, lande sconosciute e sentieri mai
battuti,
soli notturni e lune come conchiglie d'argento in un mare d'inchiostro
e more;
una mora per ogni desiderio mai espresso, una per ogni segreto mai
svelato, una
per ogni istinto mai seguito. Avventurarvisi sarebbe equivalso ad
affrontare la
linea dell'orizzonte senza paura di rimanerne sconfitti, a voler
conoscere sé
stessi senza timore di venir sopraffatti. Sarebbe stato come sfidare
l'Ignoto e
spalancare le porte di un universo che forse esisteva solo dentro di
lui,
disprezzare ogni specchio e ogni riflesso, incamminarsi verso
un'oscurità
composta da stelle e desideri, sogni e paure, amare verità.
Ma
tutto questo, Narciso, non lo poteva nemmeno immaginare.
La
sua Bellezza gli rimaneva aliena. Poteva scorgerla nel vento,
però. O ritrovarne l'immagine distorta nello sguardo di chi
– stupido,
stupido, stupido – la bramava e la desiderava.
Ma
lui – lui – non l'avrebbe mai
divisa con qualcuno: era
troppo bello - e forse anche troppo egoista - per volerla spartire con
altri
ciò che la Natura gli aveva così giustamente
donato.
La sua Bellezza – lo vedeva, lo vedeva e crudelmente ne gioiva – sapeva incendiare il cuore di chiunque la incontrasse, illuminandone lo sguardo, spingendolo a volerla, a volerla disperatamente. Ma – ancora, di nuovo – era troppo bello, e forse anche troppo vanitoso, per concedersi – concederla – a chicchessia.
Li aveva sempre respinti, uno dopo l'altro; e mentre lui sghignazzava e rideva e cantava, loro – stupidi, stupidi, stupidi – si lamentavano e disperavano.
Inutilmente.
Eppure, mentre li guardava e li derideva, non poteva fare a meno di chiedersi per cosa, esattamente, si stessero straziando. A volte aveva perfino la tentazione – una tentazione cui non si era mai abbandonato - di andare da loro e chiederglielo: perché proprio… proprio lui non lo sapeva…
*
C'erano
state donne – e uomini – che erano stati pronti a
fare
pazzie, pur di poterlo sfiorare per un attimo, o anche solo per
sentirne il profumo
da lontano. I nomi si sovrapponevano l'un l'altro, si univano e
separavano come
costellazioni notturne: erano solo poche sillabe da confondere tra
mille altre,
visi e fattezze che avrebbe dimenticato nello spazio infinito tra
l'inizio e la
fine della parola “Sempre”.
Però
c'era un nome – un viso, un ragazzo – che riusciva
a
ricordare. Un giovane – come si chiamava? Aminia? Poteva
essere? - che l'aveva
bramata tanto, la sua bellezza, da uccidersi per non essere riuscito a
ottenerla.
‹‹
Ti amo›› sussurrava, e sulla sua bocca le parole
scivolavano
come dolce miele velenoso.
‹‹
Ti amo e ti desidero›› ripeteva; e nello sguardo
aveva la
fiamma che incendia l'animo dei folli.
E
degli innamorati.
‹‹
Se mi ami›› aveva ribattuto Narciso un giorno,
con un sorriso
crudele sulle labbra che sapeva essere belle. ‹‹
Se mi ami veramente,
ucciditi››.
Ricordava
ancora quel giorno, anche se oramai nella sua mente i
contorni erano andati sfumando e dei colori rimaneva soltanto
un’eco indistinta.
Ricordava la spada che gli aveva teso e come lui – stupido, stupido, stupido -
l’avesse impugnata tra le mani
tremanti.
Poteva
ancora avvertire sulla pelle il calore di quella giornata
fulgida, vedere la rugiada che riposava sui boccioli di fiori colorati
come un
velo di neve: ori scintillanti si riversavano su zaffiri blu mare, si
mischiavano a rubini rossi come sangue, e pietre d'azzurro, di viola,
di
bianco. Era un arcobaleno di luce e profumi incatenato alla madre
terra, spezie
e aromi che accecavano e stordivano.
Poteva
ancora sentire il vento bisbigliargli quanto fosse bello,
rivedere quello sguardo innamorato – quello
sguardo folle – in cui scorgere, anche se distorta,
la propria bellezza
come in uno specchio d'acqua. Ricordava il filo della lama che si
accendeva di
fuoco e fiamme di fronte a lui, che – immobile, sghignazzando
– si limitava a
osservare lo spettacolo che gli veniva generosamente concesso.
L'avrebbe
fatto? Avrebbe rinunciato a tutto ciò che possedeva, a
tutto ciò che aveva di più caro, per soddisfare
un suo capriccio?
Si
sarebbe ucciso?
Non
lo sapeva. A volte arrivava a pensare che quella follia, da taluni
chiamata
Amore, non fosse altro che la maledizione crudele di qualche
divinità annoiata.
Perché solo un dio poteva essere così meschino da
infliggere un tale flagello.
Narciso
ricordava. Ricordava come, incrociando il suo sguardo indifferente, gli
occhi
d'Aminia si fossero accesi di una nuova fiamma, in grado d'incenerire
ogni
pensiero. Ricordava di come avesse alzato la spada e - invocato
chissà quale nume
in cerca d’una facile vendetta - avesse spento le fiamme
della spada in un
tributo che profumava di sangue.
Stupido, pensò Narciso mentre osservava il ragazzo cadere a terra. Lui, la propria bellezza, non l'avrebbe divisa con nessuno. Spostò l'attenzione su quell'arcobaleno di profumi e colori, osservandolo affogare in un giardino di fiori insanguinati. Chissà – si era detto pensieroso – forse qualche nume avrebbe davvero dato ascolto alla supplica senza voce di Aminia.
Ma per il momento lui – Narciso – poteva limitarsi a sorridere.
***
La
fonte era limpida, profonda, cristallina; l'acqua sgorgava gelida in
brevi
cascate di spuma.
Era
così splendida nella sua inaudita purezza –
lacrime cadute dal cielo, sapore di
pioggia – che Narciso non poté trattenersi
dall'avvicinarsi: il Bello, quello
stesso Bello in cui si ritrovava attimo dopo attimo, non avrebbe mai
smesso
d'affascinarlo. Ma forse era così per tutti.
A
tratti, le ombre leggere degli alberi vi si riflettevano come in uno
specchio
di vetro, così sfuggevoli e inafferrabili da far dubitare
d'averle viste
veramente.
Era
una calda giornata di fine autunno. Quando Narciso si chinò
per dissetarsi,
miniature di vascelli dorati solcavano quell'acqua pura e fredda come
neve,
foglie secche e colorate: non
sapeva – non poteva sapere, no
– di
star correndo incontro al proprio destino.
Il
Fato: tra tutti i numi, il più generoso e il più
spietato.
Si
stava ancora chinando su quella pozza di ghiaccio, quando si
fermò
all'improvviso: qualcuno – ma chi? - lo
stava osservando dall'altra
parte di quello specchio lucente.
Chi
era?
Chi
era quel ragazzo dalla bellezza sfolgorante? Di chi era quella chioma
di bronzo
incandescente, quello sguardo blu come un mare di notte, quel viso
divino?
Non
lo sapeva. Poteva solo osservarlo e divorarlo cogli occhi, senza
saziarsi mai
di quel corpo di marmo liscio, di quei denti bianchi come conchiglie
murmuri
lavare da chissà quale fiume lontano.
Non
aveva mai visto – non avrebbe mai potuto vedere –
qualcosa di più bello,
o qualcosa che meglio potesse incarnare l'ideale di Bellezza che
l'aveva
infiammato fin dalla nascita.
Lo
amava
– realizzò all’improvviso. Amava quelle
mani, bianche e lunghe e nervose, che
poteva scorgere appena e bastavano a scatenare in lui i desideri
più sfrenati;
ne amava le braccia muscolose, lo sguardo leggero, l'espressione
indecifrabile.
Lo amava e lo desiderava disperatamente, in modo così atroce
da pensare che una
brama tanto bruciante avrebbe potuto strappargli il respiro, o persino
il cuore
dal petto.
Oh,
quant’era bello! Ma chi era? Chi era quell’Eros di
carne e sangue, quel bel dio
precipitato dall’Olimpo per qualche empio misfatto?
Era
interrogativi cui non sapeva dare risposta, punti di domanda che si
affollavano
nella sua mente senza potersi fermare. Allungò una mano
– l’avvicinò all’acqua
in un inutile tentativo di sfiorarlo: le sue dita infransero solo lo
specchio
perfetto d’una lastra di ghiaccio e neve. Spalancò
gli occhi.
Ma
allora… allora…
…
quel ragazzo, quell’uomo, quel dio…
…
era forse lui?
Era
forse lui stesso quel dio mortale di cui bramava la vista e il tocco?
Era
possibile... per tutti gli déi...
…
era possibile... ?
No!
Mai! Non poteva accettarlo!
Una
beffa simile non avrebbe mai potuto sopportarla: proprio lui che non
avrebbe
mai voluto condividere la propria Bellezza con qualcun altro, non era
in grado
di condividerla con sé stesso.
Doveva esserci – doveva – una qualche altra spiegazione… forse lo scherzo di qualche dio capriccioso, o forse la follia di un demone spietato...
Eppure…
eppure…
Era lui, ormai se ne rendeva conto. Non poteva fingere – oh, ma quanto l’avrebbe desiderato! – non poteva proprio fingere di non riconoscersi nel ragazzo che, disperato, lo stava guardando oltre quella pozza d’acqua.
Oh,
Fato crudele! Soffriva ora, soffriva atrocemente. Ora comprendeva la
Bellezza,
quel Bello ch’aveva sempre inseguito e, ahimè!,
non avrebbe mai potuto nemmeno
sfiorare.
Comprendeva
la propria Bellezza e - peggio ancora - comprendeva sé
stesso: aveva sfidato
l'Ignoto e aveva perso, aveva spezzato la linea dell'orizzonte solo per
venirne
annientato.
Era
come se la terra si stesse sgretolando sotto i suoi piedi, lasciandolo
precipitare per spazi che parevano infiniti. Ora,
ora capiva! Le lacrime, la disperazione, quel fuoco che aveva
scorto nello sguardo d’Aminia: era atroce brama, desiderio di
possesso,
venerazione per qualcosa che non si sarebbe mai potuto avere. La
Verità,
amarissimo calice, lo stava intossicando, gli lacerava la mente, la
divideva in
migliaia frazioni d’arcobaleno che non avrebbe più
saputo far collimare.
Che
fare? Che fare ora?
Le
dita tremanti, si rese conto, erano corse
alla spada che portava sempre con sé: la spada che aveva
scagliato Aminia nella
Casa di Ade. Aminia, che aveva preferito uccidersi piuttosto che vivere
senza
Bellezza.
Chissà,
forse la morte gli avrebbe concesso di
porre fine alle proprie sofferenze; ché una vita come quella
che avrebbe dovuto
condurre d’allora in poi, così misera e infelice,
non avrebbe potuto
sopportarla.
Meglio
morire, ora e subito. Non c’era spazio
per esitazioni, né per rimpianti, né altro; non
c’era tempo per parole prive di
significato, o per ultimi, inutili pensieri.
Il
vento non sussurrava più: non ne aveva più
bisogno, adesso, per comprendere la propria Bellezza. Non era
più una
consapevolezza appresa per altre bocche e altri sguardi: era
lì, vivida e
presente, un veleno che lo intossicava e uccideva.
Sollevò
lo sguardo. La luce di quel pomeriggio
incerto lacerava nubi già a brandelli, mari di soffice
oscurità e infiniti laghi
di foglie che - poco sopra di lui - s'intrecciavano in curiose
costellazioni
d'oro, rosso e bruno, giallo; il bosco bisbigliava.
Le
Naiadi non giocavano più: Narciso non
riusciva più a sentire i loro schiamazzi lontani, il
gorgoglio placido di
qualche fiume. Oramai sapeva: neppure la più splendida
distesa d'agrumi e
ulivi, la sera più dolce o la più bella collana
di spuma che potesse ornare il
candido mare, avrebbe mai potuto restituirgli ciò che aveva
perso. Aveva
cercato la Bellezza per tutta una vita, aveva varcato ogni soglia e
attraversato ogni terra e non l'aveva trovata. Ora capiva che tutto
ciò che
aveva bramato lungo i suoi viaggi, era sempre stato con lui.
Una
luce scese su Narciso come una pioggia di
stelle, illuminandone la spada di mille riflessi infuocati. Lui rimase
immobile
un attimo soltanto, il tempo necessario per sfiorare con lo sguardo gli
alberi
spogliati dall'autunno inoltrato, i pochi fiori sopravissuti al rigore
delle
ultime settimane, quelle buffe costellazioni di foglie colorate. Il
vento
sembrava volerlo salutare per un'ultima volta: Narciso ne
sentì la carezza e il
bacio appassionato, mentre sollevava attorno a lui una danza di petali
dalle
sfumature improbabili: rossi insanguinati si confondevano a blu cielo,
a neri
lucidi e ori scintillanti, a verdi scuri e viola splendenti. Era un
coro
d'addio: se solo avesse teso l'orecchio, forse avrebbe potuto udire il
mare
mugghiare lontano, spumeggiare contro le scogliere, riversarsi nei
fiumi e
risalirli, solo per poterlo vedere ancora. Prima che fosse troppo tardi.
Ma
era già troppo tardi.
Narciso
socchiuse appena le palpebre,
sollevando il viso verso i pochi raggi di sole che riuscivano a
raggiungerlo
attraverso l’oscurità, prima di stringere l'elsa
della spada.
La
lama affondò in profondità: lacerò
carne e
muscoli, ossa e tendini spezzò.
Il
Bello sfioriva come un fiore di fuoco:
divorato da un rogo di sangue, orrore e fiamme silenziose, stravolto
dal
dolore. Narciso cadde a terra come un idolo trascinato nel fango, un
eroe
caduto alla fine dell'ultimo atto, ma la sua Bellezza rimase intatta.
Lui sperò
soltanto di poterla ritrovare ancora, anche là dove non
c’era vita, lungo gl’infiniti
giardini d'asfodeli in cui avrebbe vagato per l'eternità, o
magari nelle
torbide acque dell'Acheronte.
E chissà, questa volta forse sarebbe stata davvero sua.
Ebbene? Mi sono meritato un commento? ;)
Caesar