~ A RAINING DAY
~
Mi ritrovavo spesso a fantasticare su di
lui…
Ad
immaginarlo abbracciarmi… Sorridermi.
Stavolta
però non sembrava una pellicola di
mia produzione.
Il
freddo pungente di Gennaio lo sentivo bene. Lo stesso valeva per l’umido della
pioggia.
Era
proprio da me dimenticare di prendere l’ombrello per la fretta. Riuscivo a
dimenticare qualsiasi cosa, anche la più importante, sbadata com’ero.
Dimenticavo tutto, pur di lasciare il posto alla sua immagine.
Ogni
mattina era lì, a darmi il buongiorno, e mi bastava quella a farmi salire il
buon umore.
Mai
avevo ritenuto così importante qualcuno e non volevo in alcun modo lasciare
andare quella meravigliosa sensazione di quando una persona, seppur
inconsapevolmente, ti completa e ti rende felice.
Scrollai
le spalle, infreddolita, e persi il filo di quel ragionamento, ma sapevo che
l’avrei ripreso presto.
Non
riuscivo proprio a scacciarlo.
Mi
rifugiai sotto un cornicione, in parte ancora asciutta.
Una
spalla mi si scaldò al tocco che ricevette.
Le mie
iridi nocciola si posarono sulla persona che mi stava al fianco, ed inoltre
dovettero spostarsi verso l’alto per poterle guardare il viso, data l’altezza.
Un
tocco inconfondibile, del resto.
Fissai,
già con nostalgia, le sue dita affusolate lasciare il mio arto e tornai
immediatamente ai suoi occhi, sorridendogli.
“Ehi”,
feci, tentando di occultare il mio imbarazzo.
“Ciao”,
rispose lui, mentre assieme al suo sorriso comparivano due fossette gioiose.
Gli
rivolsi un’occhiata falsamente offesa, terribilmente in vena, come al solito,
di scherzare con lui.
“Spero
che tu stia per invitarmi alla tua laurea”.
Lui si
grattò la testa e ciò non giovò affatto ai suoi capelli, comunemente
disordinati, un cipiglio colpevole sul volto.
“Hai
saputo?”.
“Che
hai scavalcato anche l’ultimo scoglio? Sì”.
In
quel momento, accantonai le mie arie da attrice e gli sorrisi sincera.
“Complimenti.
Come sempre, il migliore”.
Tornò
a sorridermi.
“Grazie”.
Aveva
una gentilezza che, Dio solo sapeva, che effetto mi facesse.
Forse
era questo che mi rovinava. L’effetto dei ragazzi gentili ed, allo stesso tempo,
intelligenti.
Rivolsi
alla pioggia uno sguardo malinconico.
“Quindi
presto ti laureerai… e continuerai gli studi via da qua. Ho detto giusto?”.
Anche
lui distolse lo sguardo da me e, serio, ammirò un raggio di sole creare un
arcobaleno alle fronde di un albero.
“Sì”.
Una
pausa e poi riprese con un sospiro.
“E
dovrò spiegarlo ad Angela”.
Non
risposi. Riuscii soltanto ad identificare una morsa allo stomaco. Più cercavo di allontanarla e più era lì a
tormentarmi. Insopportabile sensazione.
Avevo
giurato a me stessa che non l’avrei più provata, sia per il suo che per il mio
bene. Aveva la sua vita, la sua ragazza, i suoi amici e spesso mi sentivo fuori
luogo. Sentivo di poter essere paragonabile soltanto ad una conoscente, niente
di più.
Eppure
ero sua sorella, ormai lo diceva anche lui, e non importava che fosse solo una
stupida parola.
Lo
ero, punto. Che lo affermasse per scherzo, o per reale affetto, ero l’unica ad
occupare quel ruolo, e ciò non poteva cambiare.
Sorrisi,
mentre il dolore allo stomaco spariva.
“Vedrai
che capirà”, dissi, tornando a guardarlo gioviale, mentre lui faceva lo stesso,
attratto dal mio tono di voce.
“Mi
mancherà il tuo ottimismo”.
Inaspettatamente
ci ritrovammo a ridere. Ottimista io, la tipa più insicura dell’universo, e lui
ne era conscio. Amavo scherzare con lui, mi rendeva partecipe della sua vita.
Pensai
che andasse bene così. Lui era felice e quindi lo ero anche io, sebbene sapevo
che la morsa della gelosia sarebbe tornata, di notte mentre lo sognavo, e di
giorno mentre lo immaginavo, mentre sarebbe stato lontano.
“Secchia!”, lo chiamò qualcuno,
interrompendo quel momento idilliaco.
Dei
ragazzi, in lontananza, lo invitarono a raggiungerli con un gesto della mano.
Lui rise a quella sorta di insulto ed esclamò: “Arrivo”. Poi tornò a rivolgersi
a me: “Devo andare. Ci sentiamo presto, sorellina”.
“Ciao,
fratellone”, sussurrai, mentre andava via agitando una mano a mezz’aria.
Quando
fu fuori dalla mia visuale, sospirai.
Non
ero sicura che sarei riuscita a dimenticarlo.
Lo
vedevo raramente, eppure l’effetto che faceva era sempre lo stesso. I messaggi
che ci mandavamo bastavano ad impedire che quel sentimento si spegnesse.
Pessima
cosa, mi dissi, guardando il cielo, ora sgombro dalle nuvole.
Aveva
smesso di piovere, ma dentro di me vi era una tempesta di emozioni.
Per un
momento, sperai di non doverle più provare tutte insieme.
Laura,
non l’avresti dimenticato. Come potevi?
Avevi
dimenticato un paio di cotte nella tua vita, perché ti avevano deluso, ma lui
era perfetto.
Lui non deludeva.
Purtroppo.
Era
uno dei soliti strani giochi del destino.
~