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Autore: monochrome    28/06/2011    4 recensioni
Albina Severi, Al per gli amici, stronza megalomane per tutti gli altri, ha poche certezze, certezze che l'aiutano a mantenere quella sicurezza di sè di cui fa sfoggio ogni giorno, quell'arroganza e quel sarcasmo che la contraddistinguono. Ma poi, piano piano, senza rendersene conto, si cresce, le situazioni cambiano, i rapporti cambiano e le certezze cadono una ad una.
***
Dal capitolo 7:
«Diamine Al! Sei così dannatamente fragile! Ti atteggi da dura, ma sei porcellana finissima che può rompersi alla prima caduta. Come potrei farti questo?»
Deglutii.
Non sapevo che dire, non sapevo che diavolo fare. Sapevo che avevo ancora voglia delle sue labbra e nessuna intenzione di rinunciare alla mia indipendenza per nessuno al mondo. Mattia sembrava il ragazzo perfetto per me, perfetto per darmi affetto e ricevere il mio, senza obblighi o etichette di sorta. Perché avrei dovuto rinunciarvi? Perché avrei dovuto lasciarlo andar via? Cosa mi tratteneva? Forse la consapevolezza che non sarebbe mai stato solo e unicamente mio?
Aderii nuovamente col mio corpo al suo, alzandomi in punta di piedi per sfiorare col mio respiro le sue labbra gonfie.
«Sono io che voglio farlo»
Fu lui a far combaciare le nostre labbra, gentilmente.
Mi vidi costretta a tirargli i capelli per fargli aprire quella dannatissima bocca!
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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All my Certainties





C’erano poche certezze nella mia vita, cose nemmeno così fondamentali agli occhi degli altri. Per me erano le mie certezze e, anche se mi fossero sembrate stupide, non vi avrei rinunciato facilmente. Questo perché sapevo che, quando le cose si mettevano di merda, quelle poche cose erano in quel modo, andavano a modo mio e tutto sembrava meno di merda e un po’ più di schifo. Una sorta di normalità, insomma.
Ero certa che, se un serial killer avesse voluto uccidermi, gli sarebbe bastato appostarsi accanto all’acquario dei pesci tropicali che avevo a casa. Andavano nutriti almeno una volta a settimana e mia madre, svampita com’era, se ne sarebbe certamente dimenticata. O magari avrebbe tentato di liberarli e restituirli al loro habitat naturale, che per lei significava scaricarli nel mar mediterraneo. Triste ma vero, erano gli unici animali domestici che mi era concesso tenere. Con la bellezza di allergie agli acari, alle graminacee, ai peli di gatto e di coniglio, ai pollini di betulle, noccioli e compagnia bella (quella famiglia di alberi era una specie di parolaccia in ugrofinnico), alle muffe, nonché al latte, al glutine e agli arachidi ero decisamente impossibilitata a fare qualunque cosa. E un cane era decisamente fuori discussione per mia madre, casomai avessi sviluppato allergia pure a quello. Se mio marito fosse stato allergico alle punture di vespe e api, mio figlio, molto probabilmente, sarebbe stato il bambino più sfigato della faccia della terra. Per ora, quel primato apparteneva a me.
Ero più che sicura che il tumore al cervello che avrebbe ucciso mio padre tre anni dopo, al momento della mia nascita doveva già avergli causato dei seri danni. Nessun uomo sano di mente avrebbe chiamato la propria figlia, dai capelli ricci e scurissimi e gli occhi di un marrone tanto freddo da sembrare nero, Albina. Albina, dico. Era quantomeno un ossimoro. E mia mamma, evidentemente, amava gli ossimori, perché aveva accolto la proposta con entusiasmo. L’epidurale doveva essere una droga magnifica.
Sapevo con certezza che non mi sarei mai sacrificata per nessuno al mondo. Non ero propriamente egoista, ma non mi sarei mai danneggiata, mortificata, umiliata o limitata nell’aiutare qualcuno. Forse per questo non ero una cima nello stringere nuove relazioni: non sono mai stata brava a trovare accordi o ad andare incontro ai bisogni delle persone. Amavo me stessa più di qualsiasi altra cosa, una sorta di venerazione della mia individualità. Kierkegaard sarebbe stato fiero di me.
Uno dei miei punti fermi, era la sicurezza che, quando avessi agito, avrei agito per il meglio. Non agivo spesso di impulso e se lo facevo era per rispondere a bisogni stupidi della mia mente, come cucinare un dolce o leggermi un libro. Non ero mai stata una persona impulsiva, ponderavo le mie scelte. E se anche le mie scelte non mi avevano portato a grandi risultati, non sono mai riuscita a rimpiangerle col senno di poi. Le avevo scelte davvero; tornando indietro le avrei riscelte per lo stesso motivo. E, se mai ve lo steste chiedendo, col senno di poi mi resi conto che avevo solo bisogno di crederlo, solo per essere più coraggiosa, per essere più forte. Se avessi cominciato a farmi troppe seghe mentali non ne sarei più uscita. In questo modo potevo essere sicura di me ed essere la stronza arrogante che tutti conoscevano.
Infine, la mia più grande verità. Si dice spesso che uomini e donne non possono essere amici, che ci sarà sempre qualcosa a rovinare il rapporto, che uno dei due si innamorerà irrimediabilmente dell’altro e che tale rottura sarà irrecuperabile. Stronzate. Puttanate. Cavolate. Cazzate. Chiamatele come volete, ma per me queste teorie valevano quanto l’astrologia per Margherita Hack: un dannatissimo niente. L’amicizia fra uomo e donna esisteva e non si discuteva. I miei tre migliori amici ne erano la dimostrazione. Avrei piuttosto avvallato la teoria che fosse l’amicizia fra persone dello stesso sesso a non esistere: in quindici anni di scuola e mezzo, ero riuscita a legare solo con una ragazza, alle elementari. Piuttosto deprimente. La mia teoria era decisamente da prendere in considerazione.







Che posso dire? È l'ennesimo esperimento, che questa volta però sono certa porterò a termine. Spero vi piaccia.
Prossimo aggiornamento a prestissimo :)
   
 
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