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Autore: KazeSlasher    02/07/2011    2 recensioni
Era nell'acqua, nel sale, nella nebbia, nell'aria. Tutto in quel luogo le parlava della sua vita. La gioia, il dolore, l'amore, la morte... In quell'infinito istante tutto sembrava riunirsi. La distinzione tra gli estremi si faceva più sfumata. Gli opposti apparivano più simili che mai. Chiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni quell'aria salmastra che sembrava rasparle la gola e la memoria.
[Partecipa al "Childhood Slice of life Contest" indetto da "OCs Place, la casa dei tuoi personaggi originali".]
Genere: Malinconico, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa fanfiction partecipa al "Childhood Slice of life Contest" indetto da "OCs Place, la casa dei tuoi personaggi originali".


Je ne regrette rien
La vita è un'onda che accarezza gli scogli


I lunghi capelli fluttuavano nella brezza, sfuggiti alla severa crocchia che li costringeva. Gli occhi persi ad osservare il mare, che non aveva mai visto prima.
Una moltitudine di ricordi riaffiorava dopo aver sedimentato per anni sul fondo della sua anima. In piedi sull'orlo del baratro.
Sotto di lei, di fronte a lei, attorno a lei. Solo il mare, la bellezza di quei flutti che la furia della corrente spingeva contro gli scogli. Era nell'acqua, nel sale, nella nebbia, nell'aria. Tutto in quel luogo le parlava della sua vita. La gioia, il dolore, l'amore, la morte...
In quell'infinito istante tutto sembrava riunirsi. La distinzione tra gli estremi si faceva più sfumata. Gli opposti apparivano più simili che mai.
Il pallido sole di novembre faceva timidamente capolino tra le nubi scure del cielo della Normandia. La sua luce, così dorata e rarefatta, si specchiava sulla distesa d'acqua increspata di fronte a lei. Chiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni quell'aria salmastra che sembrava rasparle la gola e la memoria.
Una lacrima, lenta e inesorabile, scivolò dalle sue ciglia.

Niente di niente,
non rimpiango niente
né il bene che mi è stato fatto
né il male, non mi importa.

Era convinta che lui fosse stato il suo primo amore.
Loro due erano perfettamente complementari, nonostante la differenza di età. Lui aveva quasi sei anni più di lei, eppure trovava sempre un po' di tempo da dedicarle.
Era stato lui ad insegnarle a tirare di scherma, a suonare il flauto, a riconoscere il profumo delle rose.

Sentì dei passi sull'erba. Non poteva vederlo, ma non ebbe alcun dubbio.
«Fratellone!»
Gli corse in contro ridendo e tendendogli le mani. Lui l'afferrò dolcemente in braccio, baciandola sulla guancia.
«Buongiorno mademoiselle!»
«Giochi con me? E' da tanto tempo che non giochiamo insieme!»
Lui sorrise, ma nei suoi occhi colse una sfumatura di tristezza. Non capì, ma lo strinse un po' più forte, sfregando il naso sulla sua spalla. Lui rise e le scompigliò i capelli.
«Ah, Marlene... Quanto vorrei poter giocare sempre con te!»
Le prese delicatamente la mano e se la portò alle labbra, poi abbozzò un inchino.
«Principessa, mi concede l'onore di accompagnarla a passeggiare nei giardini del castello?»
Era il loro gioco preferito. Marlene era la principessa e François il principe. Il giardino della loro casa era il parco del castello.
Ridendo, si cimentò in una maldestra riverenza.
«Con piacere, principe François!»
La prese a braccetto ridendo e si avviarono tra le aiuole e i cespugli spennacchiati, che ai loro occhi erano però più rigogliosi e belli di qualunque altro.
Arrivati davanti alle rose, il ragazzo si fermò.
«Sai che fiori sono questi, Marlene?»
«Sono rose. Vero fratellone?»
«Come fai ad esserne certa?»
«Hanno quei petali così strani... e sono di quel rosso così bello!»
Lui scosse la testa sorridendo. Prese delle cesoie che erano state dimenticate lì accanto e tagliò un fiore. Lo allungò sotto il naso della sorella.
«Annusala.»
Lei chiuse gli occhi e respirò quel delizioso profumo.
«Ci sono rose rosse, bianche, gialle, rosa, persino nere! E possono avere petali lisci, arricciati, folti o radi...»
Non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso. Quante cose sapeva il suo fratellone!
«C'è solo una cosa che ti assicura che quella che hai tra le mani è davvero una rosa.»
«Il... il profumo?»
Lui le accarezzò la guancia ridendo.
«Già. Il profumo. Non dimenticarti mai il profumo delle rose, Marlene...»

Nessuno le aveva mai voluto bene quanto François.
Non avrebbe mai dimenticato i suoi occhi, la loro luce, capace di colorare anche la giornata più nera.
L'aveva amato come può amare una bambina. Con tutta la gioia e la devozione che si può riservare al proprio fratello maggiore.
E lui, con il suo caldo sorriso, la sua voce dolce, riusciva a farla sentire sempre a proprio agio.
Per quanto avesse cercato di dimenticare, con uno sforzo dell'immaginazione poteva ancora sentire il tocco delle sue mani che le sfioravano la guancia. Il ricordo più bello.
Quanto l'aveva amato.
Quante volte aveva desiderato un suo abbraccio nelle notti fredde in cui era distante.

Niente di niente,
non rimpiango niente
ho pagato tutto, tutto spazzato via,
dimenticato,
me ne infischio del passato.

Con lei tutto era sempre stato più complicato.
Avevano meno di un anno di differenza ed entrambe erano fin troppo desiderose di attirare le attenzioni del fratello e dei genitori.
Era nata così tra loro una rivalità sotterranea, mai ostentata, eppure sempre evidente.
Entrambe volevano essere la migliore.

«Per favore, bambine... non potrete continuare così in eterno!»
Seduta ad un capo del tavolo, fissò di sottecchi la sorella dalla parte opposta. Avevano continuato a lanciarsi frecciatine velenose per tutta la serata, facendosi piccoli dispetti a vicenda, fino ad esasperare i loro genitori. La stessa storia ogni giorno.
«Marlene! Smettila di stuzzicare tua sorella! Lorena! Sei la più grande, dai il buon esempio!»
Ogni volta che si incrociavano non riuscivano ad evitarsi. In modo quasi automatico, una delle due cominciava ad infastidire l'altra.
«Dovreste andare d'accordo...»
Il tono della madre era così dolce, ma perennemente incrinato da una nota di amarezza. Detestava vederle così in conflitto.
«Ha cominciato lei!»
«No, lei!»
«Mi ha lanciato un pezzo di pane!»
«Mi ha tirato i capelli!»
Spazientito, il padre si alzò in piedi e indicò ad entrambe la porta.
«In camera vostra. Subito. Tutte e due. Non uscirete finchè non vi sarete riappacificate!»
Sbuffando, lanciò il tovagliolo sul tavolo e uscì dalla sala da pranzo borbottando. Si avviò verso la camera calpestando il tappeto del corridoio per fare più rumore possibile. Dietro di sé poteva sentire Lorena che supplicava i genitori di non metterla in punizione.
Dopo qualche minuto di strepiti e piagnistei, la sorella la raggiunse nella stanza. Ognuna sul proprio letto, non facevano che fissarsi in cagnesco.
«E' colpa tua.»
«E perchè? Che ti ho fatto?»
Lorena abbassò lo sguardo, imbronciata. Marlene notò che i suoi occhi erano lucidi.
«Tutti ti vogliono bene, ti coccolano e ti viziano. Solo perchè sei più piccola!»
Fissò la sorella stupita. Era ciò che pensava davvero?
«Tu sei più grande. Puoi andare dove vuoi, fare quello che vuoi. Io no.»
Lorena arrossì. Si squadrarono a vicenda, incerte sul da farsi.
Marlene si alzò e andò a sedersi accanto alla sorella. La strinse in un abbraccio non ricambiato.
«Sei brutta, sciocca e antipatica. Ma sei sempre la mia sorellona, no?»
Lorena ridacchiò e le diede un buffetto sulla guancia.
«Brutta, sciocca e antipatica a chi, scusa?»
Le lanciò un orsetto di peluche che aveva arraffato al volo sul comodino. Marlene le tirò il cuscino.
Cominciò così il secondo round della loro battaglia.

La guerra mai sopita con la sorella era, tutto sommato, una sicurezza. Una certezza incrollabile.
Quello tra loro non era vero odio. Non c'era rabbia, né astio. Non c'era alcuna ragione.
Solo... era piacevole avere qualcuno con cui sfogarsi, qualcuno da incolpare a prescindere. Era il loro faccia a faccia con le responsabilità.
Ed era bello, anche in quella chiave, affrontarle insieme.

Con i miei ricordi
ho acceso un fuoco.
I miei dolori, le mie gioie,
non ho più bisogno di loro.

A volte ripensava a lui.
Il periodo più oscuro della sua giovane vita, quando tutto sembrava crudele e inevitabile.
La guerra aveva cambiato molte cose nella sua infanzia. Ancora di più la prigionia.
Ricordava con precisione maniacale ogni pagliuzza di quegli occhi di ghiaccio, capaci di lanciare occhiate terribili come dardi infuocati.
Ricordava la sua pelle, così pallida, quasi cadaverica, perfettamente tesa sui muscoli.
Lo odiava.
Eppure, ripensando a quei giorni, non poteva evitare di provare un po' di affetto per lui.


Sentì i suoi passi.
Detestava l'angoscia che la assaliva ogni volta che il suono dei suoi stivali le arrivava alle orecchie.
Guardò la porta aprirsi e la sua sagoma in controluce che entrava nella stanza. Più si avvicinava, più poteva scorgere i suoi lineamenti farsi più definiti.
Era l'unica persona che vedeva dall'inizio della sua prigionia.
Non poteva essere di molto più grande del fratello, anche se la divisa dell'esercito e quegli occhi gelidi lo facevano apparire più serio, più adulto.
Si sedette con la schiena al muro, accanto a lei. Cercò di ignorare la sua presenza e continuò ostinatamente a fissare il nulla.
«Come va oggi?»
Gli lanciò un'occhiataccia e tornò a fissare la maniglia della porta, senza aprir bocca
Lui sospirò, rimanendo in silenzio e in attesa. Di cosa, Marlene non avrebbe saputo dirlo. Forse che lei gli parlasse.
Le sfiorò la mano con la propria. Ritirò il braccio lanciandogli un'occhiata furibonda.
Le prese il viso tra le dita stringendo forte e obbligandola a voltarsi verso di lui.
Quando i suoi occhi incontrarono quelli azzurrissimi di lui, la sua presa si allentò, fino a lasciarla del tutto. Le accarezzò dolcemente la guancia, sovrappensiero.
«Nè tu né io dovremmo essere qui. Lo sai.»
Abbassò lo sguardo. Marlene non riuscì a non imitarlo.
«Tutto questo è dannatamente sbagliato. Tu sei solo una bambina, non una prigioniera. E io...»
La voce gli si smorzò e voltò il viso verso la piccola finestra sbarrata della cella.
Marlene sorrise amaramente. Lei era una bambina. Lui un ragazzino. Ed erano costretti a subire sulla loro pelle la violenza di quell'insensata guerra.
Erano così simili, dopo tutto.
«Marlene...»
Lo guardò. E per la prima volta potè scorgere sul suo viso la rassegnazione, la paura. Le sembrò diventare più piccolo.
«Tu mi odi, vero?»
Si passò le dita tra i capelli. Cosa rispondere?
Scosse piano la testa, senza troppa convinzione. Lui ne sembrò intristito.
«Dovresti odiarmi. Ciò che faccio è orribile.»
Fu lei stavolta ad accarezzargli piano la guancia. Lo stupore in quegli occhi normalmente così freddi l'avrebbe fatta sorridere, in un contesto diverso.
Gli concesse un lieve bacio sulla guancia, poi tornò a sedersi contro il muro, fissando la porta di fronte a lei.
Lui reclinò la testa, guardando la parete in silenzio.


Di tutti i soldati incrociati durante la guerra, il giovane tedesco era l'unico che non riusciva ad odiare del tutto. Era l'unico che non l'aveva considerata una nullità.
Aveva scorto il terrore nei suoi occhi.
Era come lei.
Lo detestava. Ma aveva alleviato la solitudine della prigionia.

Mi sbarazzo degli amori,
e di tutti i tremiti.
Spazzati via per sempre,
riparto da zero.

Come piccole virgolettate di colore in un quadro, alcuni gabbiani volavano contro il sole, ormai sempre più basso. Il disco pallido si era fatto di un tono più aranciato, conferendo al mare una sfumatura dorata.
Si asciugò le lacrime col dorso della mano.
Osservò per l'ultima volta le fotografie tra le sue mani.
François.
Lorena.
Il soldato.
Le baciò, una ad una.
Ognuno di loro aveva segnato per sempre la sua vita. E ora se n'erano andati per sempre.
E nel bene e nel male li amava.
Lanciò le immagini verso il mare. La brezza salmastra le accompagnò dolcemente tra le onde, che le spinsero con loro a rifrangersi contro la parete di nuda roccia.
Un dolce peso sembrò dipartirsene dal suo cuore.
Si voltò e tornò sui suoi passi senza più voltarsi indietro.

Niente di niente,
non rimpiango niente
perchè la mia vita, oggi
comincia con te.

 

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N.d.A.: La canzone citata nella fanfiction è "Je ne regrette rien" di Edith Piaf.


  
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