Questa fanfiction partecipa al "Childhood Slice of life Contest" indetto da "OCs Place, la casa dei tuoi personaggi originali".
Je
ne regrette rien
La
vita è un'onda che accarezza gli scogli
I
lunghi capelli fluttuavano nella brezza, sfuggiti alla severa
crocchia che li costringeva. Gli occhi persi ad osservare il mare,
che non aveva mai visto prima.
Una moltitudine di ricordi
riaffiorava dopo aver sedimentato per anni sul fondo della sua anima.
In piedi sull'orlo del baratro.
Sotto di lei, di fronte a lei,
attorno a lei. Solo il mare, la bellezza di quei flutti che la furia
della corrente spingeva contro gli scogli. Era nell'acqua, nel sale,
nella nebbia, nell'aria. Tutto in quel luogo le parlava della sua
vita. La gioia, il dolore, l'amore, la morte...
In quell'infinito
istante tutto sembrava riunirsi. La distinzione tra gli estremi si
faceva più sfumata. Gli opposti apparivano più
simili che mai.
Il
pallido sole di novembre faceva timidamente capolino tra le nubi
scure del cielo della Normandia. La sua luce, così dorata e
rarefatta, si specchiava sulla distesa d'acqua increspata di fronte a
lei. Chiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni quell'aria
salmastra che sembrava rasparle la gola e la memoria.
Una lacrima,
lenta e inesorabile, scivolò dalle sue ciglia.
Niente di
niente,
non rimpiango niente
né il bene che mi è stato
fatto
né il male, non mi importa.
Era convinta che lui
fosse stato il suo primo amore.
Loro due erano perfettamente
complementari, nonostante la differenza di età. Lui aveva
quasi sei
anni più di lei, eppure trovava sempre un po' di tempo da
dedicarle.
Era stato lui ad insegnarle a tirare di scherma, a
suonare il flauto, a riconoscere il profumo delle rose.
Sentì
dei passi sull'erba. Non poteva vederlo, ma non ebbe alcun
dubbio.
«Fratellone!»
Gli corse in contro ridendo e
tendendogli le mani. Lui l'afferrò dolcemente in braccio,
baciandola
sulla guancia.
«Buongiorno mademoiselle!»
«Giochi con me? E'
da tanto tempo che non giochiamo insieme!»
Lui sorrise, ma nei
suoi occhi colse una sfumatura di tristezza. Non capì, ma lo
strinse
un po' più forte, sfregando il naso sulla sua spalla. Lui
rise e le
scompigliò i capelli.
«Ah, Marlene... Quanto vorrei poter
giocare sempre con te!»
Le prese delicatamente la mano e se la
portò alle labbra, poi abbozzò un inchino.
«Principessa, mi
concede l'onore di accompagnarla a passeggiare nei giardini del
castello?»
Era il loro gioco preferito. Marlene era la
principessa e François il principe. Il giardino della loro
casa era
il parco del castello.
Ridendo, si cimentò in una maldestra
riverenza.
«Con piacere, principe François!»
La prese a
braccetto ridendo e si avviarono tra le aiuole e i cespugli
spennacchiati, che ai loro occhi erano però più
rigogliosi e belli
di qualunque altro.
Arrivati davanti alle rose, il ragazzo si
fermò.
«Sai che fiori sono questi, Marlene?»
«Sono rose.
Vero fratellone?»
«Come fai ad esserne certa?»
«Hanno quei
petali così strani... e sono di quel rosso così
bello!»
Lui
scosse la testa sorridendo. Prese delle cesoie che erano state
dimenticate lì accanto e tagliò un fiore. Lo
allungò sotto il naso
della sorella.
«Annusala.»
Lei chiuse gli occhi e respirò
quel delizioso profumo.
«Ci sono rose rosse, bianche, gialle,
rosa, persino nere! E possono avere petali lisci, arricciati, folti o
radi...»
Non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso. Quante
cose sapeva il suo fratellone!
«C'è solo una cosa che ti
assicura che quella che hai tra le mani è davvero una
rosa.»
«Il...
il profumo?»
Lui le accarezzò la guancia ridendo.
«Già. Il
profumo. Non dimenticarti mai il profumo delle rose,
Marlene...»
Nessuno le aveva mai voluto bene quanto
François.
Non avrebbe mai dimenticato i suoi occhi, la loro luce,
capace di colorare anche la giornata più nera.
L'aveva amato come
può amare una bambina. Con tutta la gioia e la devozione che
si può
riservare al proprio fratello maggiore.
E lui, con il suo caldo
sorriso, la sua voce dolce, riusciva a farla sentire sempre a proprio
agio.
Per quanto avesse cercato di dimenticare, con uno sforzo
dell'immaginazione poteva ancora sentire il tocco delle sue mani che
le sfioravano la guancia. Il ricordo più bello.
Quanto l'aveva
amato.
Quante volte aveva desiderato un suo abbraccio nelle notti
fredde in cui era distante.
Niente di niente,
non
rimpiango niente
ho pagato tutto, tutto spazzato
via,
dimenticato,
me ne infischio del passato.
Con
lei tutto era sempre stato più complicato.
Avevano meno di un
anno di differenza ed entrambe erano fin troppo desiderose di
attirare le attenzioni del fratello e dei genitori.
Era nata così
tra loro una rivalità sotterranea, mai ostentata, eppure
sempre
evidente.
Entrambe volevano essere la migliore.
«Per
favore, bambine... non potrete continuare così in
eterno!»
Seduta
ad un capo del tavolo, fissò di sottecchi la sorella dalla
parte
opposta. Avevano continuato a lanciarsi frecciatine velenose per
tutta la serata, facendosi piccoli dispetti a vicenda, fino ad
esasperare i loro genitori. La stessa storia ogni giorno.
«Marlene!
Smettila di stuzzicare tua sorella! Lorena! Sei la più
grande, dai
il buon esempio!»
Ogni volta che si incrociavano non riuscivano
ad evitarsi. In modo quasi automatico, una delle due cominciava ad
infastidire l'altra.
«Dovreste andare d'accordo...»
Il tono
della madre era così dolce, ma perennemente incrinato da una
nota di
amarezza. Detestava vederle così in conflitto.
«Ha cominciato
lei!»
«No, lei!»
«Mi ha lanciato un pezzo di pane!»
«Mi
ha tirato i capelli!»
Spazientito, il padre si alzò in piedi e
indicò ad entrambe la porta.
«In camera vostra. Subito. Tutte e
due. Non uscirete finchè non vi sarete
riappacificate!»
Sbuffando,
lanciò il tovagliolo sul tavolo e uscì dalla sala
da pranzo
borbottando. Si avviò verso la camera calpestando il tappeto
del
corridoio per fare più rumore possibile. Dietro di
sé poteva
sentire Lorena che supplicava i genitori di non metterla in
punizione.
Dopo qualche minuto di strepiti e piagnistei, la
sorella la raggiunse nella stanza. Ognuna sul proprio letto, non
facevano che fissarsi in cagnesco.
«E' colpa tua.»
«E
perchè? Che ti ho fatto?»
Lorena abbassò lo sguardo,
imbronciata. Marlene notò che i suoi occhi erano lucidi.
«Tutti
ti vogliono bene, ti coccolano e ti viziano. Solo perchè sei
più
piccola!»
Fissò la sorella stupita. Era ciò che pensava
davvero?
«Tu sei più grande. Puoi andare dove vuoi, fare
quello
che vuoi. Io no.»
Lorena arrossì. Si squadrarono a vicenda,
incerte sul da farsi.
Marlene si alzò e andò a sedersi accanto
alla sorella. La strinse in un abbraccio non ricambiato.
«Sei
brutta, sciocca e antipatica. Ma sei sempre la mia sorellona,
no?»
Lorena ridacchiò e le diede un buffetto sulla
guancia.
«Brutta, sciocca e antipatica a chi, scusa?»
Le
lanciò un orsetto di peluche che aveva arraffato al volo sul
comodino. Marlene le tirò il cuscino.
Cominciò così il secondo
round della loro battaglia.
La guerra mai sopita con la
sorella era, tutto sommato, una sicurezza. Una certezza
incrollabile.
Quello tra loro non era vero odio. Non c'era rabbia,
né astio. Non c'era alcuna ragione.
Solo... era piacevole avere
qualcuno con cui sfogarsi, qualcuno da incolpare a prescindere. Era
il loro faccia a faccia con le responsabilità.
Ed era bello,
anche in quella chiave, affrontarle insieme.
Con i miei
ricordi
ho acceso un fuoco.
I miei dolori, le mie gioie,
non
ho più bisogno di loro.
A volte ripensava a lui.
Il
periodo più oscuro della sua giovane vita, quando tutto
sembrava
crudele e inevitabile.
La guerra aveva cambiato molte cose nella
sua infanzia. Ancora di più la prigionia.
Ricordava con
precisione maniacale ogni pagliuzza di quegli occhi di ghiaccio,
capaci di lanciare occhiate terribili come dardi infuocati.
Ricordava
la sua pelle, così pallida, quasi cadaverica, perfettamente
tesa sui
muscoli.
Lo odiava.
Eppure, ripensando a quei giorni, non
poteva evitare di provare un po' di affetto per lui.
Sentì
i suoi passi.
Detestava l'angoscia che la assaliva ogni volta che
il suono dei suoi stivali le arrivava alle orecchie.
Guardò la
porta aprirsi e la sua sagoma in controluce che entrava nella stanza.
Più si avvicinava, più poteva scorgere i suoi
lineamenti farsi più
definiti.
Era l'unica persona che vedeva dall'inizio della sua
prigionia.
Non poteva essere di molto più grande del fratello,
anche se la divisa dell'esercito e quegli occhi gelidi lo facevano
apparire più serio, più adulto.
Si sedette con la schiena al
muro, accanto a lei. Cercò di ignorare la sua presenza e
continuò
ostinatamente a fissare il nulla.
«Come va oggi?»
Gli lanciò
un'occhiataccia e tornò a fissare la maniglia della porta,
senza
aprir bocca
Lui sospirò, rimanendo in silenzio e in attesa. Di
cosa, Marlene non avrebbe saputo dirlo. Forse che lei gli
parlasse.
Le sfiorò la mano con la propria. Ritirò il
braccio
lanciandogli un'occhiata furibonda.
Le prese il viso tra le dita
stringendo forte e obbligandola a voltarsi verso di lui.
Quando i
suoi occhi incontrarono quelli azzurrissimi di lui, la sua presa si
allentò, fino a lasciarla del tutto. Le accarezzò
dolcemente la
guancia, sovrappensiero.
«Nè tu né io dovremmo essere qui. Lo
sai.»
Abbassò lo sguardo. Marlene non riuscì a non
imitarlo.
«Tutto questo è dannatamente sbagliato. Tu sei
solo
una bambina, non una prigioniera. E io...»
La voce gli si smorzò
e voltò il viso verso la piccola finestra sbarrata della
cella.
Marlene sorrise amaramente. Lei era una bambina. Lui un
ragazzino. Ed erano costretti a subire sulla loro pelle la violenza
di quell'insensata guerra.
Erano così simili, dopo
tutto.
«Marlene...»
Lo guardò. E per la prima volta potè
scorgere sul suo viso la rassegnazione, la paura. Le sembrò
diventare più piccolo.
«Tu mi odi, vero?»
Si passò le dita
tra i capelli. Cosa rispondere?
Scosse piano la testa, senza
troppa convinzione. Lui ne sembrò intristito.
«Dovresti odiarmi.
Ciò che faccio è orribile.»
Fu lei stavolta ad accarezzargli
piano la guancia. Lo stupore in quegli occhi normalmente
così freddi
l'avrebbe fatta sorridere, in un contesto diverso.
Gli concesse un
lieve bacio sulla guancia, poi tornò a sedersi contro il
muro,
fissando la porta di fronte a lei.
Lui reclinò la testa,
guardando la parete in silenzio.
Di
tutti i soldati incrociati durante la guerra, il giovane tedesco era
l'unico che non riusciva ad odiare del tutto. Era l'unico che non
l'aveva considerata una nullità.
Aveva scorto il terrore nei suoi
occhi.
Era come lei.
Lo detestava. Ma aveva alleviato la
solitudine della prigionia.
Mi sbarazzo degli amori,
e
di tutti i tremiti.
Spazzati via per sempre,
riparto da
zero.
Come piccole virgolettate di colore in un quadro,
alcuni gabbiani volavano contro il sole, ormai sempre più
basso. Il
disco pallido si era fatto di un tono più aranciato,
conferendo al
mare una sfumatura dorata.
Si asciugò le lacrime col dorso della
mano.
Osservò per l'ultima volta le fotografie tra le sue
mani.
François.
Lorena.
Il soldato.
Le baciò, una ad
una.
Ognuno di loro aveva segnato per sempre la sua vita. E ora se
n'erano andati per sempre.
E nel bene e nel male li amava.
Lanciò
le immagini verso il mare. La brezza salmastra le accompagnò
dolcemente tra le onde, che le spinsero con loro a rifrangersi contro
la parete di nuda roccia.
Un dolce peso sembrò dipartirsene dal
suo cuore.
Si voltò e tornò sui suoi passi senza
più voltarsi
indietro.
Niente di niente,
non rimpiango niente
perchè
la mia vita, oggi
comincia con te.
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N.d.A.: La canzone citata nella fanfiction è "Je ne regrette rien" di Edith Piaf.