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Autore: Flower of Eternity    15/03/2006    2 recensioni
So che è un racconto triste, crudo, doloroso. Però questa è la mia personale concezione di Zelgadiss, e del suo rapporto con Amelia.
Collocata a diversi anni dalla fine di Try, è una one shot impreziosita dalla stupenda composizione di T.S. Eliot, La figlia che piange
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Amelia, Zelgadis Greywords
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Férmati sul piano più alto delle scale…
Appoggiati a un’anfora da giardino…
Tessi, tessi la luce nei capelli…
Stringi i fiori contro di te con una sorpresa dolente…
Gettali per terra e voltati
con un risentimento fuggitivo negli occhi:
ma tessi, tessi la luce del sole nei capelli…


Accusa; delusione; amarezza. Dolore; paura. Come velenose serpi, che si attorcigliano in un ammasso informe, egli legge amaramente questi sentimenti nelle sue incredibili iridi. Non può sopportarlo. Eppure non abbassa lo sguardo.
Aiuole e fiori dividono quei due giovani innamorati: le belle, profumate, curate aiuole dell’elegante palazzo reale, quel gentile angolo verde che accompagna il viandante verso l’enorme portone d’ingresso; quello spazio, ove si raccolgono i più dolci ricordi dell’infanzia di lei. Quei giardini, miglior luogo di silenziose e pacifiche riflessioni. Ed ora teatro di un nuovo, orribile distacco; della solita, delirante sofferenza.
Il giovane, chimera dall’animo oscuro, le rivolge uno sguardo freddo; la giovane, innocente colombella, non sa ricambiarlo. Parole s’affollato sulle sue labbra, e sono così tante che neppure una riesce ad uscirne. E’ stato l’istinto a spingerla improvvisamente a correre all'esterno, cercandolo febbrilmente; un istinto dettato forse da un cuore reso veggente dall’amore: e difatti, eccolo lì, l’oggetto della sua romantica passione, il quale, indossati i soliti, lerci abiti da viaggio, è stato appena interrotto durante una silenziosa fuga. Una delle tante.
“Vai… via?” Mormora. Domanda retorica, piccola principessa. Retorica.
Meravigliosa. Con quali altri aggettivi lui potrebbe descriverla? L’abito di corte, che tanto ella disprezza, che tanto trova scomodo, carezza malizioso le sue dolci forme, esplodendo di biancore e purezza nella luce del sole morente. E quella sua espressione, così addolorata, quel suo mezzo passo nella sua direzione, che non ne vuole sapere d’essere completato, quella sua mano premuta sulle coralline labbra, e quella solitaria lacrima, perla che sconsideratamente cade a terra… un insieme straziante, che afferra e distrugge l’anima di lui. Ma che non lo fermerà.
Amelia. Vergine dei boschi. E’ questo uno dei poetici significati del suo nome, e mai paragone potrebbe apparirgli più soave: è così facile, così teneramente facile immaginarla come una dolce fata silvana, con bizzarre orecchie a punta e sorriso fanciullesco dipinto sul volto. Bella. Deliziosamente, spietatamente, indissolubilmente bella.
“Avevi detto che saresti rimasto…”
“Sapevi che non era la verità.”
Ignobilmente, tremendamente, magnificamente bella. Come puoi amare la bestia?


Così avrei voluto che lui partisse,
così avrei voluto che lei si fermasse e soffrisse,
così lui sarebbe partito
come l’anima lascia il corpo strappato e contuso,
come la mente abbandona il corpo di cui ha fatto uso.


Solo la notte prima, come molte altre, si era abbandonata a lui, lasciandosi stringere da quelle bramose braccia. I baci erano volati, come leggiadre farfalle, posandosi sulle sue labbra, sulle sue palpebre, sulla sua pelle.
E quanti sussurri, quante promesse! Quanto dolce, irrefrenabile, incondizionato abbandono. Quanta stupidità. Quanta illusione, in quel suo momentaneo credersi al vertice di ogni priorità, scavalcando anche la dannata – e forse… inesistente? – Cura. Con l’iniziale maiuscola, quella Cura figlia dei demoni, ossessione senza ritorno della disgraziata, condannata chimera.
Ed ora ne osservò la figura tanto amata, perdendosi nella sofferenza. Zelgadiss. Deforme nell’aspetto, deforme nel cuore: capace di assicurare amore e fedeltà un minuto prima, per poi, in quello successivo, calarsi silenziosamente da un balcone, sfuggendole nelle tenebre, abbandonandola nuovamente alla solitudine per giorni. Mesi. Anni.
E riapparendo, ogni volta. Inquietante Uomo Nero, sogno eppure incubo, capace di sollevarla oltre le nuvole, così come di straziarle freddamente l’esistenza.
“Quante volte ancora te ne andrai?” Non fa nulla per fermarlo; immobile, accanto all’allegria degli spruzzi di un’elaborata fontana, sa che correre verso di lui varrebbe solo il vederlo sparire ancora più velocemente all’orizzonte. “Perché non rinunci?”
“Non posso, lo sai.”
“E tu sai che io ti amo.”
Una coppia di uccelli si impegna di un’elaborata coreografia, attraversando con agile volo lo spazio che li divide. Amelia si asciuga un’ulteriore lacrima, i gesti mossi da un nuovo sentimento di rabbia.
“Non riesco più ad aspettarti!” La voce si è alzata, senza controllo. Altri meravigliosi volatili, nascosti nelle fronde degli alberi attorno a loro, si levano in volo, spaventati, il piumaggio colorato pronto a giocare con i sanguinei riflessi del sole calante.
“Non sei costretta a farlo.”
“Questa volta non lo farò.” Parole tremende, che fanno male in primo luogo a lei. Eppure sa di non poter più reggere la situazione.
Da quanti anni, ormai, si trascina questo inutile, maledetto stillicidio? Troppi, sicuramente. E’ ora che un pesante macigno vi cada sopra; farà male, forse. Ma il tempo cura ogni cosa, o almeno così si crede.
Per la prima volta, non è lui a darle le spalle, incamminandosi sotto il terribile peso della propria coscienza, ma lei, che, sofferente, gira i suoi passi in direzione della residenza, abbandonandolo alla sua volontà. Sempre che uno schiavo, un consenziente schiavo di una Cura, ne possegga una.
Zelgadiss apre la bocca, ma non ve ne usce alcun suono. Fa quasi per muovere le gambe, per correre verso di lei, eppure quel filo invisibile, quella patetica speranza di ritornare uomo, lo fanno muovere nel verso sbagliato, allontanandolo.
Forse un giorno tornerà umano nell’aspetto. Ma per allora sarà una tremenda bestia nell’animo. Sempre che non lo sia già.
La chimera si allontana per le vie della città, le deformità del corpo che inquietano i passanti; il ricordo delle dolci ore d’amore passate con la sua donna che, eternamente, viene divorato dalla smaniosa bestia in lui.
Calò la notte. Caddero molte lacrime.


Essa si voltò, ma con la stagione autunnale
provocò la mia immaginazione per molti giorni,
molti giorni e molte ore:
i capelli sulle braccia e le braccia piene di fiori.
E mi domando come sarebbero stati assieme!
Avrei perduto un gesto e una posa.
A volte queste riflessioni stupiscono ancora
la mezzanotte inquieta e il mezzogiorno che riposa.









Cosa posso dire di questo breve scritto? Non appena lessi la poesia di T.S. Eliot, subito immaginai Amelia nuovamente abbandonata da Zelgadiss, sempre a causa di quella Cura.
Mi spiace pensare a questa separazione; ma è ciò che, secondo la mia opinione, realmente accadrebbe, se la chimera non dovesse un giorno abbandonare l'idea della Cura. Ho sempre visto questa ricerca di Zelgadiss come uba metafora di quella che è la tendenza dell'animo umano, ovvero cercare sempre come dei dannata qualcosa in più, spesso non badando a ciò di realmente prezioso che già possediamo.
Commenti e consigli, come sempre, sono più che ben accetti.
Grazie mille, un saluto.
  
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