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Autore: Acardia17    07/07/2011    17 recensioni
Il responso dei Guaritori è lapidario: frammentazione multipla della personalità, una specie di esplosione del subconscio. Hermione è l'unica che possa fare qualcosa.
[Young!Remus/Hermione]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hermione Granger, Remus Lupin
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Titolo: La porta a sonagli
Autrice: Acardia17
Beta: Nefene (
)
Pairing: (young!)Remus/Hermione
Rating: giallo
Genere: Introspettivo, romantico, malinconico
Contoparole: Non volete saperlo. Non volete davvero.
Noticine tecniche: la storia è ambientata dopo la fine della guerra, ma naturalmente si tratta di una risoluzione alternativa al conflitto, piegata alle esigenze della fan fiction ;)
Noticine informative:
scritta per “I Shipping”, in risposta alla sfida di Nefene: “Remus/Hermione”, prompt: vecchi maglioni, tazze sbeccate, pergamene.

Allora, innanzitutto lasciatevi ammorbare con un po’ di ringraziamenti:
- a Nefene, che si è accollata il compito infame di betare per intero questo mostro di fanfiction: l’ha fatto in pochissimo tempo (in modo da permettermi di partecipare a un’altra iniziativa del Collection of Starlight, vale a dire il Reviews Exchange) e con efficienza a dir poco encomiabile. È rarissimo trovare Beta davvero talentuose, e lei è una di queste. Severa, precisa, quasi infallibile. Grazie tesoro
.
- a Third Moon, che ha realizzato per me lo splendido banner che vedete qui sotto senza neppure aver letto prima la storia, semplicemente guidata dalle mie indicazioni. Non è meraviglioso? Lo è. Oh sì che lo è.

Che dire, è la mia prima vera e massiccia het dopo MILLENNI. Mi è piaciuto idearla, mi è piaciuto scriverla. Mi è piaciuto un po’ troppo, quindi ne è uscito un colosso.
Spero vi piaccia.


 

 

 

«  Chi sogna, e chi viene sognato, non sono svegli alla stessa misura. »

(Jostein Gardner)

 

C’è un campanello appeso alla porta: un sonaglio tondo e dorato delle dimensioni di un Boccino, lucido come una perla d’olio al sole. Sulla sua sommità giace un cappello forato di minuscoli fregi, attraverso il quale è stato fatto scorrere un nastrino color glicine.

Quando Hermione apre l’uscio della stanza d’ospedale, il tintinnio cristallino che accompagna il movimento le risuona nelle orecchie, come un alito di fiato soffiato direttamente sui timpani. Il campanello pendola due o tre volte sul pannello di legno, scuotendo i pistilli contenuti nella sua pancia cava, poi si quieta e si arresta lungo l’asse del nastrino, rimanendo immobile. 

La camera è piccola: un cubo di pareti bianche bordate di grigio, un letto, un comodino e una finestra quadrata senza scuri e con il vetro a graticola, suddivisa in tanti angusti quadrati orlati di nero. Hermione la osserva accigliata, dicendosi con disappunto che le finestre di un ospedale non dovrebbero assomigliare tanto a quelle di una prigione, a maggior ragione quando qualcuno è realmente imprigionato al suo interno.

Prende un respiro profondo, poi, all’improvviso, sente le braccia di Harry stringersi attorno a sé. L’accenno di barba adolescenziale che già da un po’ gli scurisce zigomi e mento le graffia la guancia.

- Puoi farcela, - è il sussurro che le viene esalato nell’orecchio, penetrante quanto il tintinnio del sonaglio.

Alla sua destra, Ron le cinge la mano con entrambi i palmi e deposita dolcemente un bacio sulle sue nocche.

- Sei forte, - la incoraggia, deciso.

Hermione rivolge loro un sorriso nervoso, grata per la fiducia dimostratale. Avrà bisogno di tutto il sostegno possibile, di lì a qualche minuto.

Distoglie lo sguardo: poco lontano dalla finestra, a lato del letto, scorge Tonks. È seduta su una poltroncina imbottita e rivestita di damasco fiorato, nettamente in contrasto con il resto dell’arredamento, ma del tutto in linea con le bizzarrie del San Mungo di quell’ultimo periodo. Accovacciato sulle sue ginocchia, inquieto e imbronciato, c’è Teddy. Hanno entrambi i capelli grigi.

Il viso di Tonks pare ancora più pallido sotto quella coltre fumosa: i suoi occhi lucidi e sporgenti, segnati da profonde occhiaie che i poteri di Metamorfomago hanno forse accentuato, sono fissi sulla figura che occupa il letto al centro della stanza, mentre i bordi delle sue labbra solitamente rosa acceso paiono essere stati sfumati verso l’esterno come una macchia di acquerello.

Teddy la guarda da sotto in su con una certa apprensione, la boccuccia incurvata verso il basso e i piccoli pugni aggrappati all’intreccio liso del suo maglione, un largo pullover viola dalle maniche sformate e grossi fiori sporgenti simili a pipistrelli impigliati tra i fili di lana.

Hermione avverte il proprio stomaco accartocciarsi su se stesso. Non ce la farà mai: nessun manuale l’ha mai preparata per questo, e il materiale che ha reperito a riguardo era vago, confuso. Nonostante sappia di aver trascorso giorni e giorni sui libri in vista di quel momento, sente le informazioni galleggiare tra i pensieri, inconsistenti e imprecise.

- Puoi farcela, - ripete Harry con determinazione. Ha un’espressione concentrata e la sua voce è calda, risoluta. Hermione annuisce appena, facendosi forza e muovendo il primo passo in direzione di Tonks.

- Sarai tu a farlo? – chiede lei d’un tratto, sollevando gli occhi e guardandola apertamente in viso. La sua voce, a differenza di quella di Harry, è tremula.

I pipistrelli sul suo maglione cominciano a battere le ali nella gola di Hermione.

- Sì, - sussurra, ansiosa. La sola vista degli occhi di Tonks è in grado di farle addensare la saliva sul palato per l’angoscia, ma non può permettersi di mostrarsi tanto insicura di fronte a lei. Le deve un minimo di audacia in più.  – Farò tutto ciò che sarà in mio potere, te lo prometto.

Deve farcela. Deve riuscirci. É l’unica che può portare a compimento una missione del genere, l’unica che sappia dove cercare e possa farlo senza rischiare di sfondare le pareti sbagliate, nonché la sola la cui intrusione possa risultare abbastanza delicata. Basterà essere cauta, sarà sufficiente mettere a frutto quanto ha appreso fino a quel momento, come ha sempre fatto. 

Posso farcela, si dice, in un’eco delle parole pronunciate da Harry. Sono forte abbastanza, rincara, lanciando un’occhiata intenerita a Ron.

Si avvicina al letto fino a quando non si trova dalla parte opposta rispetto a dove è seduta Tonks, e si accomoda su una sedia esile e dalla fattura grezza posizionata accanto al comodino. Estrae la bacchetta da una tasca del mantello, che poi slaccia e lascia ricadere sullo schienale, senza curarsi se il bordo tocchi terra o meno.

É pronta.

Il sole che filtra dalla finestra a graticola riflette una prigione di ombre sul viso di Remus Lupin, sdraiato supino su quel letto d’ospedale, privo di conoscenza.

 

 

 

Dissociazione della personalità. Era su questo che quel giorno Lupin stava svolgendo la propria ricerca, immerso in rotoli e rotoli di pergamena sparpagliati sul tavolo del salotto di Grimmauld Place. 

Dopo la morte di Voldemort erano cambiate molte cose: si era trasferito nella vecchia residenza Black in pianta pressoché stabile, come del resto molti di loro avevano fatto; era difficile abbandonare quel luogo, dopo avervi vissuto tanto a lungo. Nonostante vi stessero stretti – non più così stretti, dopo che Fred, Charlie, Moody e Kingsley erano morti in battaglia – la maggior parte dei membri dell’Ordine continuava a dormire e a mangiare lì, come se il loro fosse un riflesso condizionato. Come se non potessero farne a meno, onde non spezzare l’ormai comune e pacifica routine.

In quei tempi avevano imparato che un cambio di routine non portava mai con sé nulla di buono. 

Erano cambiati tutti, dopo la fine della guerra. Era cambiato Harry, che non dormiva più di quattro ore a notte e sentiva il bisogno viscerale di visitare i parenti di quasi tutte le vittime dello scontro; era cambiata Ginny, che dopo alcuni mesi aveva smesso di seguirlo e poco dopo aveva smesso anche di aspettarlo. Era cambiato Ron, così cresciuto e responsabile, pur rimanendo forse l’unico a parte George in grado di sopperire all’assenza di Fred con qualche ridicola messinscena.
Erano cambiati Bill e Fleur, che avevano fatto della propria bambina la propria pace e in lei avevano trovato la speranza che il Mondo Magico aveva trovato in Harry.
Erano cambiati Arthur e Molly, che avevano fatto dei figli perduti il proprio armistizio e pareva non avessero ancora cessato di sentirsi in guerra.

Ed era cambiato lui, Remus. In modo diverso da tutti gli altri, meno evidente. Come un fiore che chiude i propri petali di giorno invece che di notte, come un orologio rimasto indietro di un paio di minuti. Qualcosa era mutato dentro di lui, ma la trasformazione era stata così delicata e graduale che nessuno di loro ci aveva fatto davvero caso.

Flebili tic nervosi, malcelati attacchi d’ira, impercettibili ossessioni serpeggianti tra le abitudini di quella normalità riconquistata a fatica, le cui parentesi quotidiane permettevano a tutti loro di sorridere alla nuova alba.

Sarà la luna piena, si erano detti. Sarà la guerra.

E invece l’orologio, secondo dopo secondo, aveva continuato a rimanere sempre più indietro, finché, quella sera di all’incirca una settimana prima, un paio d’ore dopo l’orario di cena, non si era fermato del tutto.

Lo avevano trovato con il busto accasciato sul tavolo del salotto, il viso premuto di lato su decine di frammenti di pergamena accatastati. Numerosi altri rotoli lo circondavano come una muraglia, ancora oscillanti sul posto. Aveva gli occhi sbarrati, ma non sbatteva le palpebre e non reagiva più a nessuno stimolo: non un tremolio di ciglia, non un sussulto delle dita.

Eppure respirava.

C’era ancora, ma non c’era più.

Adagiando il suo corpo sul pavimento nel tentativo di farlo riprendere, un paio di fogli erano caduti a terra.

Dissociazione della personalità. Non solo su quei fogli, ma anche su quelli sparsi per il tavolo. Pagine e pagine di ricerche, appunti e note di ogni genere, ma in particolare una formula, ancora baluginante sulla filigrana spessa di un documento piuttosto antico: un incantesimo di appello mentale, studiato per richiamare sé una delle diverse identità e assopire le altre, addormentarle in un limbo di semi-incoscienza in modo da non annientarle del tutto ma da renderle innocue.

Se stesse tentando di relegare la componente animale di sé in un anfratto recondito della propria consapevolezza oppure volesse semplicemente far sbiadire un poco i ricordi della guerra, questo loro non lo sapevano. Perché non avevano compreso.

Nessuno di loro aveva anche solo intravisto le intenzioni di un gesto così radicale, una ricerca tanto disperata di quiete. Da parte di Remus? Una delle persone più equilibrate che avessero vissuto sotto quel tetto?

Il responso dei Guaritori al San Mungo era stato una doccia gelata: frammentazione multipla della personalità, una specie di esplosione del subconscio. La formula che probabilmente Remus aveva letto ad alta voce non aveva funzionato a dovere e aveva detonato la dinamite che per qualche tempo aveva funto da collante tra una sfumatura e l’altra della sua identità, scindendola in mille schegge aleatorie e informi.

- Non si sveglierà?

- Non in questo stato. Sarebbe come chiedere a un mucchio di ossa di mettersi in piedi da sole.

- Quindi? Cosa farete? C’è qualcosa che si può fare, no?

C’era solo una cosa che si poteva fare.

 

 

 

- Deve essere delicata. Fare piano, molto piano.

Il Guaritore accanto a lei le afferra una mano e la conduce lentamente verso la fronte di Remus, con la leggerezza tipica di chi con quelle stesse dita esegue ogni giorno una diversa operazione chirurgica.

Tuttavia, il tipo di di chirurgia che Hermione dovrà praticare è mentale.

- Non ci sono porte da aprire o sentieri da percorrere. Potrebbe imbattersi in qualsiasi cosa, là dentro.

La fronte di Remus è fredda come il lenzuolo sul quale è adagiato, e altrettanto spiegazzata. Le cicatrici danno l’impressione che sia corrugata perfino nell’incoscienza. Tonks sussulta appena, a pochi passi di distanza.

- Ricordi, traumi rimossi…

Teddy si aggrappa a una ciocca dei capelli plumbei della madre con una manina e a un fiore – un pipistrello - con l’altra. Emette un verso gorgogliante, simile al singulto di un neonato, un suono tanto innocente quanto spaventoso.

- … mostri. Immaginari e reali.

Hermione annuisce, i pensieri rannuvolati in un unico temporale di inquietudine. Nel mondo magico i mostri non sono solo presenze cupe annidiate sotto al letto: c’è un intero universo brulicante di creature terribili, tra le viuzze concitate di Diagon Alley, e nugoli di esseri deformi e senza scrupoli, oltre le fronde ombrose di una foresta all’apparenza innocua.

Se la magia è in grado di simili stranezze nella realtà, di che cosa potrebbe essere capace l’inconscio di un mago?

Di un licantropo.

- Non deve…

- Forzare la mano. Lo so, ho studiato.

Risponde di riflesso, e se ne rende contro troppo tardi, quando il Guaritore le sorride in modo lieve e cessa di impartire istruzioni. Rimpiange il tono tranquillo e pacato delle sue informazioni quasi immediatamente, mentre la sua mano adagiata sulla fronte di Remus comincia a divenire sudaticcia per il nervosismo.

Ha studiato, ma ha idea che l’irruzione nella mente di una persona, il viaggio attraverso i suoi ricordi e il riassemblamento della sua psiche non siano qualcosa che sia possibile apprendere dai libri.

Il Guaritore solleva la bacchetta e le sfiora una spalla con una carezza rassicurante.

Sulle sue labbra, il suo sorriso pare un timbro dentellato sull’ingresso gratuito a un museo vivente. 

- Delicato. Piano, molto piano, - si raccomanda, prima di pronunciare l’incantesimo.

Hermione non ha neppure il tempo di rivolgere un ultimo sguardo a Tonks prima di sprofondare nel buio, a sedere su una sedia esile di fattura grezza. Alle proprie spalle, una parete bianca bordata di grigio.

 

 

 

L’impatto è improvviso: Hermione scivola all’indietro senza neppure avere modo di estrarre la bacchetta dalla borsa, una tracolla nella quale ha riposto i volumi che l’hanno accompagnata durante gli ultimi giorni. Atterra sul fondoschiena, mentre il mantello si gonfia a mezz’aria e le ricade sul viso, ammucchiandosi sulle sue spalle come un immenso cappuccio.

Puntella i gomiti sul pavimento e solleva il busto, stordita, per scorgere con un sussulto ciò che l’ha assalita mandandola a gambe all’aria.

Abbracciato alle sue cosce, il viso affondato tra le pieghe della sua gonna, c’è un bambino.

Uno scricciolo alto poco più di un metro, dai folti capelli castani e con un lungo maglione di lana marrone e sdrucita a fasciargli il torace sottile. I numerosi fili tirati si ergono sulla sua schiena come minuscole alghe su un fondale.

Un bambino, nella mente di Lupin.

- Ehi, - mormora Hermione, protendendo una mano ad accarezzargli il capo.

Senza smettere di stringerle le gambe come se ne andasse della propria salvezza, la zazzera bruna solleva il volto.

È pallido, smunto: l’alone nero che ristagna nelle sue occhiaie suggerisce una maturità quasi caricaturale su un ragazzino così piccolo, mentre il suo sguardo vispo e le labbra serrate in una smorfia lacrimosa sembrano voler preservare a tutti i costi la sua fanciullezza, in uno strano intreccio di espressività distorte.

- Ciao, - gli sorride, cercando di mostrarsi divertita dalla situazione. È semisdraiata a terra con un bambino di massimo otto anni avvinghiato alle gambe, comparso dal nulla come una specie di ariete invisibile. Se fosse accaduto durante un pomeriggio qualsiasi lungo una via di negozi a Diagon Alley, ne avrebbe riso.

Ma nonostante i numerosi anni trascorsi, il colore brillante dei suoi capelli – così distante dall’attuale tinta slavata e ormai tendente al grigio – e i tratti marcatamente infantili, Hermione non ha alcuna difficoltà a comprendere che quello non è affatto un bambino qualsiasi.

È la prima delle personalità che dovrà riconciliare per fare in modo che Remus si svegli.

- Ciao. - Il bimbo scioglie il broncio solo per un attimo, giusto il tempo di pronunciare quell’unica parola, ma non accenna a rialzarsi, apparentemente intenzionato a impedire alle gambe sotto di sé di muoversi.

Quando una delle sue manine scivola inintenzionalmente appena sotto la stoffa spessa della gonna, Hermione avverte qualcosa di appiccicoso macchiarle il tessuto filigranato dei collant; ne raccoglie un poco su un polpastrello, per studiarne le caratteristiche da vicino: è miele.

Il bambino – Remus – ha del miele sulle mani.

No, non su entrambe le mani: una soltanto. Le ditina della sua mano sinistra sono percorse da densi rivoli dorati e viscosi, quasi che invece di immergere il palmo nel barattolo il piccolo avesse utilizzato un cucchiaio per farne colare il contenuto sulla propria pelle.

Hermione, intenerita, lo immagina alle prese con quello strano gioco, non troppo stupita dal fatto che a quell’età Remus sia tutto sommato abbastanza dispettoso.

Deve essere delicata. Fare piano, molto piano.

- Sei un tipo goloso, eh? – esordisce scompigliandogli i capelli, in bilico su un gomito soltanto.

Il bambino la guarda interrogativo, come se tutto si fosse aspettato meno che sentirsi porre una domanda del genere.

Hermione, accigliata, gli indica la mano cosparsa di miele. – Hai appena fatto uno spuntino?

Remus non muta espressione, ma scruta con aria confusa il proprio palmo sinistro. Si porta un polpastrello alle labbra, scettico. – Non mi piace, - sbotta dopo averlo ritratto, la bocca contratta in una smorfia disgustata. – Non lo so come ci è finito!

Hermione non può fare a meno di sorridere. – Capisco, - ridacchia. - I barattoli di miele sono dei veri rompiscatole al giorno d’oggi.

Per la prima volta dopo giorni, l’angoscia che l’aveva assalita al pensiero di quell’impresa comincia a stemperarsi, sostituita da un vago senso di fiducia. Nell’osservare quel bambino e il cipiglio sospettoso tratteggiato sul suo viso avverte il bisogno di tirare un sospiro di sollievo.

Puoi farcela.

Forse si è preoccupata troppo, e troppo presto.

Sei forte.

- Ehi, - aggiunge, ancora sorridente. – Che ne dici di lasciarmi alzare?

Remus pare riflettere. – Ma se ti lascio alzare scappi, - sentenzia infine, amareggiato.

- E perché dovrei? – Con la mano di cui non ha il braccio appoggiato a terra, Hermione si slaccia il mantello dalle spalle. – Non mi fai certo paura.

 Delicata. Piano, molto piano.

- La mia mamma è scappata, - mugugna lui in risposta. – Lei aveva paura.

- La tua mamma…?

Solo in quell’istante Hermione si rende conto di non sapere nulla dei genitori di Remus. Sa che è divenuto un licantropo a causa di una questione in sospeso che suo padre aveva con Greyback, ma quella è la prima volta che si ferma davvero a riflettere su che tipo di persone potessero essere.

- Tu non scappi?

- No, io non scappo.

Remus stringe nel pugno macchiato di miele la sua gonna, ma scioglie la presa sulle sue gambe. – Va bene, – si arrende.

- Grazie.

Una volta in piedi, Hermione si concede per la prima volta un’occhiata all’ambiente circostante: a occhio e croce sembra un bosco. Fitto, scuro, informe e rumoroso. Aspetta che anche il piccolo Remus si alzi in piedi, issandosi tramite la presa sulla sua gonna – tira abbastanza forte da farle scendere il bordo superiore lungo i fianchi – poi si china in modo da guardarlo in viso.

- Perché mai la tua mamma dovrebbe avere paura di te, mh? Sei un bambino fantastico.

Remus si incupisce. – Prima sì. Adesso no.

- Io dico che lo sei ancora.

- Tu non mi conosci.

- Forse ti conosco più di quello che pensi.

Affinché Remus – quello adulto - si possa svegliare, Hermione deve riconciliare i frammenti di personalità più prominenti dispersi nel suo subconscio. Ma “riconciliare” implica che ve ne sia più d’uno, mentre per ora tutto ciò che è riuscita a rintracciare è un ragazzino goloso evidentemente alle prese con una crisi famigliare.

Che a otto anni Remus fosse già stato morso da Greyback? Al solo pensiero viene percorsa da un brivido.

Eppure tutto ciò che ora può fare è ascoltare.

- Dov’è la tua mamma adesso?

… e cercare di guadagnare la fiducia di un bambino che tra circa trent’anni deciderà di compiere un gesto tanto sconsiderato quanto comprensibile.

- Non lo so, - borbotta lui, puntandosi il mento sul petto. – A casa, credo.

- E tu perché non sei a casa?

- La mamma mi ha detto di tornare domani.

Hermione fruga nella borsa alla ricerca di un fazzoletto, per poi afferrare la mano sinistra di Remus e ripulirla dalle striature filamentose di miele. – Come, tornare domani?

Continua a sfregare il palmo del bambino con la pezzuolina di cotone fino a quando non è di nuovo liscio e opaco. Lui non protesta: si limita a supervisionare la sua opera con sguardo vacuo, le dita ben separate l’una dall’altra per facilitarle il lavoro.

- Non mi piace davvero, - sbotta, quasi considerasse quel trattamento un silenzioso rimprovero.

Hermione ripone il fazzoletto sporco di miele nella tracolla e scuote la testa, sforzandosi di sorridere.

- Lascia stare, non importa, - lo rassicura, rimboccandogli la manica del maglione perché il bordo macchiato non gli sporchi il polso. - Perché non puoi tornare fino a domani? – chiede di nuovo, contrita.

Purtroppo crede di conoscere già la risposta.

Remus esita un istante, incantato a osservare la punta delle proprie scarpe.

- Così guarisco, - bofonchia senza troppa convinzione.

- Guarisci da cosa? – Hermione avverte una piccola fitta al pensiero di quanto sta per sentire, ma pone ugualmente la domanda.

Non ci sono porte da aprire, o sentieri da percorrere. Potrebbe imbattersi in qualsiasi cosa, là dentro.

Remus stringe i pugni sul bordo inferiore del proprio maglione e lo tira verso l’alto, abbastanza da coprirsi il viso con la lana scarmigliata.

Ma non è ciò che Hermione non riesce a vedere a farla sobbalzare, il fiato mozzato in gola, quanto ciò che quel gesto ha rivelato.

- Da questo! – esclama Remus al di là del maglione, con voce ovattata. Il modo in cui storce in gomiti nel tentativo di tenere il busto del tutto scoperto sarebbe quasi comico, se non fosse per la gigantesca infezione espansa per tutto il suo torace.

C’è l’evidente segno di un morso sul suo fianco: due mezzelune insanguinate e purulente, larghe quanto la mascella di un giaguaro. Le due grosse ferite sono disposte a cavallo tra la pancia e la schiena, proprio come se il mostro lo avesse afferrato per le estremità del corpo e avesse affondato i denti nella sua carne allo stesso modo in cui si divora un pasto frugale; da esse si diramano lunghe venature violacee, spesse e leggermente in rilievo.

Hermione singhiozza, sentendo gli occhi divenire lucidi al di là delle palpebre.

- La mamma dice che se stanotte resto qui, domani non ci sarà più, - prosegue Remus, tranquillo. Poi sbircia oltre il bordo del maglione, per appurare che Hermione abbia già goduto a sufficienza di quella visuale, ansioso di riabbassare le braccia. Deve notare la sua espressione affranta, perché mentre si cala di nuovo il maglione sul busto è ancora più imbronciato di quanto non lo fosse quando le ha assaltato le gambe.

- Lo so che è brutto, - farfuglia. Si siede a terra tra le foglie, le gambe incrociate. – Anche la mia mamma lo pensa.

Hermione, il cuore che si contrae quanto uno straccio sporco di fango steso al sole ad asciugare, si affretta a imitarlo e si inginocchia in mezzo alle sterpaglie.

- No, no, no, no, - esclama, deglutendo il nodo che le serra la gola.

La mamma dice che se stanotte resto qui, domani non ci sarà più.

Quella notte ci sarà la luna piena.

- Non è brutto, - squittisce con quel poco di voce che le rimane. – È che… - Non è brutto, è orribile. Raccapricciante. Ma lei si trova lì per aiutare quel bambino, non per lasciarsi stordire dai sentimentalismi e scoppiare in lacrime alla prima difficoltà. Inspira a fondo. - … deve fare male. La tua mamma non ha provato a curarlo? Dobbiamo curarlo.

- Ci ha già provato il papà, non funziona! – Remus sbatte una mano aperta sul terreno e le foglie scricchiolano sotto il suo palmo. – Sono venute fuori quelle cose viola! E poi faceva ancora più male! Mi ha detto di venire qui, che così guarisce.

Da solo, in quel bosco, durante una notte di luna piena. La madre di Remus ha ragione: il mattino seguente quel morso non ci sarà più, perché la trasformazione sarà già avvenuta. Ma non sarà guarito: sarà diventato a tutti gli effetti un licantropo e avrà affrontato la sua prima metamorfosi da solo, al buio.

- Mi ha portato qui e poi è scappata, - prosegue il bambino in un sussurro, il viso chino e la frangia troppo lunga a velargli gli occhi.

La sera sta calando velocemente. La luce azzurrata che fino a poco fa abbracciava le chiome del bosco sta pian piano cominciando a tingersi di scuro, come l’acqua in cui è stato lavato un pennello sporco di tempera blu.

Hermione stringe la bacchetta nel palmo, mordendosi forte un labbro.

- Ci resto io con te.

Non riesce a credere che i genitori di Remus siano stati capaci di tanto. Sua madre l’aveva abbandonato al limitare di una foresta appena prima della trasformazione? Che razza di comportamento disumano era? Eppure a Hogwarts avevano fatto il possibile perché ogni mese potesse contare su un rifugio sicuro: un coinvolgimento tale dei professori e dei fondi scolastici – la Stamberga Strillante celata dal Platano Picchiatore doveva essere stato un intervento dispendioso – non poteva essere stato semplicemente frutto del buon cuore di Silente.

In ogni caso, adesso sa che cosa deve fare. Non permetterà a un bambino i cui anni si contano sulle dita di due mani di vivere un’esperienza tanto traumatica da solo.

- Rimango qui fino a quando la tua mamma non torna a prenderti.

Remus solleva lo sguardo, una luce speranzosa negli occhi, quasi che a tirarlo su di morale fosse non tanto la possibilità di non essere abbandonato ancora una volta, quanto quella che qualcuno tornerà a prenderlo. Nella penombra le sue occhiaie non sono più così evidenti, ma danno comunque l’impressione che stia per crollare dal sonno da un momento all’altro.

- Davvero? – mormora, stropicciandosi il viso con i pugni come se avesse pianto.

Hermione gli afferra una mano e la stringe tra le proprie. - Davvero. Non mi muovo di un passo. Rimango qui finché non è tutto finito.

- Fino a quando non sono guarito?

Hermione sente la determinazione scivolarle lungo la linea delle spalle insieme al proprio sospiro. – Remus… - comincia, per poi interrompersi.

Delicata. Piano, molto piano.

Potrà davvero rivelargli cosa si cela in realtà dietro quel morso senza andare troppo forte?

Ma il bambino risolve quel quesito per lei: raccoglie una manciata di foglie con la mano libera, stringendole nel palmo, poi le lascia scivolare di nuovo a terra, sbriciolate. - Non guarisco più, vero? – sussurra tra i denti.

Hermione serra la presa sulle sue dita.

- Tesoro, non è qualcosa dal quale si possa guarire. – Gli affibbia quel nomignolo senza neppure accorgersene, per poi accigliarsi al pensiero di quanto sarebbe strano chiamare allo stesso modo la versione adulta di quello scricciolo arruffato. Riporta la mente all’immagine di Remus, – l’eroe di guerra, il professore e padre di famiglia – disteso su quel letto d’ospedale con una graticola di ombre sul viso, a Tonks e Teddy al suo capezzale, e per un attimo le pare di sentire vibrare il suono cristallino del sonaglio appeso alla porta, come se qualcuno l’avesse appena spalancata.

Quell’intrusione del mondo esterno – quello reale - le inietta un brivido di paura sottopelle. O forse è il pensiero che di lì a poco le dita che stringe tra le mani si trasformeranno in artigli?

- Farà male per sempre? – Il tono di Remus è abbastanza ingenuo e genuinamente affranto da provocarle una forte fitta al cuore.   

- No, non per sempre. – Hermione preme i pollici nel suo palmo. – Non c’è niente che faccia male per sempre. Farà male un po’, farà male tanto, all’inizio. Ma tu sei un bambino forte. Puoi sopportare tutto.

 Remus piega le labbra in una smorfia lacrimosa. – Ma non è vero!

- Sì che è vero. Io ne sono sicura.

- Tu sei sicura di tante cose.

A quelle parole, Hermione azzarda un sorriso. – Non poi così tante, - mormora, l’eco del tintinnio del sonaglio ancora nelle orecchie.

Puoi farcela. 

- Ascolta, - esclama poi, molleggiando sulle ginocchia. Se non può evitare a quel bambino l’esperienza terribile della metamorfosi, forse può almeno rendergliela più sopportabile.

Si distende sul prato, tra le foglie scricchiolanti, poi fa cenno a Remus di imitarla, cercando di vincere la sua titubanza con un sorriso ancora più aperto.

La luna sopra di loro non è che uno spettro pallido nel cielo ancora turchese. Quando il bambino segue le sue istruzioni e si sdraia goffamente a terra, Hermione solleva un braccio e la indica con l’indice teso.

- La vedi?

Remus annuisce piano, ma sul fondo della sua gola risuona un roco brontolio, quasi animalesco.

Hermione ripensa alla notte di molti anni prima, all’interno della Stamberga Strillante, alle parole dell’allora Professore di Difesa contro le arti Oscure e poi a quelle dell’attuale bambino scarmigliato.

“Le mie trasformazioni in quei giorni erano… erano terribili. È molto doloroso trasformarsi in un Lupo Mannaro. Non avevo intorno degli umani da mordere, così mordevo e graffiavo me stesso.”      

- Quando diventerà bianca e brillante comincerai a sentirti strano. Probabilmente ti senti già strano, non è vero?

Remus annuisce soltanto, le labbra strette in una linea sottile.

- Ecco, ti sentirai più strano. Il tuo corpo inizierà a fare i capricci: ti sembrerà che non voglia ubbidirti più.

- Farà male?

Hermione cerca la sua mano tra le foglie e torna a stringerla. – Sì, farà male. Ma tu sei forte, e io rimango qui con te tutto il tempo.

- Una volta mio padre ha sbagliato un incantesimo e si è tagliato un dito. Fa male così?

Ha l’aria spaventata, come se quella fosse l’immagine più dolorosa che sia stato in grado di richiamare alla mente.

Hermione inspira a fondo. Fa male così? La verità è che non ha la più pallida idea di quanto faccia male. Struttura ossea che si deforma, pelo che cresce, pelle che si squarcia… forse fa più male di così. 

- È un male diverso, - risponde allora, premendo la mano piccola di Remus sull’erba. – Ma dopo passa. E quando finisce le dita le hai ancora tutte.

Il bambino sembra sollevato.

Hermione sposta lo sguardo sul suo addome, chiedendosi come mai abbia accennato all’incidente del padre piuttosto che alla propria ferita.

Poi, inizia. All’improvviso, come una clessidra capovolta che comincia a far scorrere sabbia in senso contrario, la notte si fa cupa, densa, e la luna che fa capolino tra le fronde da una pallida ombra opalescente diviene un grande occhio luminoso aperto sull’oscurità, puntato direttamente su di loro.

Remus prende ad ansimare in modo spasmodico, la mano artigliata a quella della ragazza in una morsa di terrore, il petto scosso dai singhiozzi.

Hermione sobbalza, colta alla sprovvista, mentre il bambino al suo fianco emette un lungo gemito straziato e si rannicchia su se stesso, trascinando le sue dita con sé all’interno di quel gomitolo contratto di dolore.

Sta già succedendo. Perché diavolo sta già succedendo?

Sei forte.

- Remus! – grida. Si schiaccia contro il terreno, una guancia premuta sull’erba in modo da riuscire a vedere il piccolo direttamente in volto. – Guardami. Per favore, guarda me.

È buio, e gli occhi del bambino non sono che un fioco luccichio nel nero, ma Hermione riesce comunque a scorgerli tra un battito di ciglia e l’altro.

- Lo senti, vero? Il corpo che fa i capricci, che non ti ubbidisce più?

L’unica risposta che riesce a ottenere è un roco ululato di dolore.

- Ma sei più forte tu, Remus. Lo so che fa male, ma sei più forte tu.

La presa del bambino sulla sua mano diventa una tagliola di carne e ossa, da quanto è stretta. Qualche parola gorgogliata viene inghiottita da una crisi isterica di pianto. Quando i gemiti cominciano pian piano a somigliare sempre di più a versi indistinti e inumani, strani ibridi tra latrati e vagiti, Hermione sa che se anche Remus volesse parlare non ne sarebbe più in grado. 

-Io sono qui, rimango qui, - esclama, avvicinandosi al bambino e abbracciandolo con forza.

La sensazione che la assale subito dopo averlo fatto le mozza il fiato: c’è un terremoto vivente sotto il suo petto. Gli spigoli sul corpo di Remus si innalzano e affondano nella sua pelle alla stessa velocità con la quale una tazza di porcellana si infrange sul pavimento, ogni frammento un osso differente che muta posizione e conformazione.

D’un tratto, l’eco sottile del sonaglio udito poco prima si moltiplica e si fraziona in decine di tintinnii, come se appesa a quella porta d’ospedale non vi fosse una sola sferetta dorata, ma due, tre, dieci, cento.

Quante persone stanno entrando e uscendo? Sono Medimaghi? Qualcosa è andato storto?

Per un attimo si ritrova a pensare a cosa accadrebbe se il bambino che sta abbracciando dovesse ucciderla, una volta ultimata la trasformazione. Morirebbe solo in quella dimensione o anche nella realtà?

A pochi centimetri dalla propria mano, ancora stretta nella morsa di Remus, avverte un poderoso alito di fiato caldo. Sente il vecchio maglione di lana sgualcita del bambino lacerarsi, i pantaloni strapparsi, il pelo avanzare a ricoprire la pelle nuda. Il fiato diventa saliva, che le inumidisce le dita poco prima che queste finiscano premute contro la coltre di pelliccia ispida che ora riveste un torace non più magro, ma largo quanto quello di un giovane uomo.

Hermione sa che se allungasse appena i polpastrelli riuscirebbe a toccare un muso allungato e due larghe file di denti aguzzi, eppure non cerca di ritrarsi, né di fuggire.

- Dopo passa, - si limita a ripetere, le lacrime che si infrangono su un manto di pelo grigio. – Dopo passa.

 

 

 

È ancora viva.

Se ne rende conto quando avverte i fili d’erba bagnata solleticarle i piedi attraverso i collant. Ha la netta impressione di aver perso le scarpe e di avere le calze strappate in più e più punti, tanto che un brivido freddo le percorre le cosce, infilandosi fin sotto la gonna.

Ma soprattutto se ne rende conto quando qualcosa sotto di lei si muove, e la stretta delle sue braccia si allenta attorno a un busto estraneo, liscio e nudo.

Solleva le palpebre con riluttanza, senza davvero desiderare di svelare il mistero che si cela al di là di quell’insieme di sensazioni poco familiari, grata di avere ancora entrambe le mani per sfiorare quei piccoli tratti di pelle, le orecchie per udire il fischio sottile del vento tra le foglie, le labbra per avvertire il solletichio di una ciocca di capelli premuta contro la bocca. Una ciocca di capelli che non le appartiene.

Quando finalmente riesce a mettere a fuoco il luogo in cui si trova, e soprattutto con chi, non riesce a trattenere un sussulto.

C’è un ragazzo, tra le sue braccia.

Non più un bambino, non più uno scricciolo dalla zazzera castana. Un giovane, alto e maturo seppure non troppo lontano dall’adolescenza, addormentato.

Senza l’ombra di un vestito addosso.

Raggomitolato sul terreno con le ginocchia attirate contro il petto e la testa abbandonata di lato sulle rotule nella propria nudità, appare tanto indifeso quanto intimidatorio. E Hermione lo sta abbracciando.

Istintivamente sobbalza all’indietro, incespicando sull’erba scivolosa di pioggia – è piovuto? – e prendendo consapevolezza del fatto di avere davvero le calze rotte in più e più punti, nonché di essere davvero scalza, per qualche strana ragione.

Il suo movimento improvviso deve disturbare il ragazzo, che solleva il viso dalle ginocchia e la guarda con gli occhi socchiusi ancora velati di sonno.

È Remus.

Cresciuto, dai lineamenti più marcati e il corpo più magro e spigoloso, ma sempre lui. Sempre lo stesso bambino con le mani sporche di miele, sempre lo stesso adulto con una graticola di ombre sul viso. Con una decina d’anni in più, e una ventina d’anni in meno.

La seconda identità.

Nel vederla le sue pupille paiono restringersi nel nucleo delle sue iridi per lo spavento. Sussulta abbastanza forte da dare l’impressione di trovarsi di fronte a un Orco delle praterie, ma, nelle proprie condizioni, non può fare altro se non serrare le braccia attorno alle ginocchia, nel tentativo di impedirle di vedere più di quanto già non veda.

Per un istante rimangono entrambi immobili, occhi negli occhi, boccheggianti.

Non ci sono porte da aprire, o sentieri da percorrere. Potrebbe imbattersi in qualsiasi cosa, là dentro.

Poi Hermione si riscuote.

Guardandosi attorno nota il proprio mantello, poco lontano, sepolto per metà da un cumulo di foglie umide. Grazie al cielo ha ancora la tracolla appesa al busto, così fruga tra i libri alla ricerca della propria bacchetta, lanciando di tanto in tanto uno sguardo a Remus – quello con il busto magro ma le spalle larghe, il viso smunto ma la mascella ben delineata e le mani grandi come ragnatele – per assicurarsi che non fugga.

Quando infine la vede estrarre vittoriosa la bacchetta dalla borsa, il ragazzo si irrigidisce.

- Aspetta, - prorompe, allarmato. Ha una voce più ruvida rispetto al Remus adulto e incredibilmente più profonda in confronto al Remus bambino. – Non voglio farti niente. Io non so cosa…

Hermione sente un sorriso spontaneo affiorare alle labbra. Chissà cosa deve pensare Remus in quel momento: forse è convinto di averla rapita nella propria forma animale e di averla trascinata in quella radura, in un remake di cattiva qualità dei film cult Babbani. E sicuramente è convinto di apparire una specie di maniaco ai suoi occhi, nudo come natura l’ha fatto in mezzo a un nugolo di foglie fradice.

- No! – si affretta a spiegare allora, cercando di chiarire il malinteso. – Neanch’io. Voglio solo… aspetta.

Si allunga ad afferrare il mantello, sporco e bagnato, poi lo scrolla meglio che può da rametti, fili d’erba e sterpaglie, sotto lo sguardo vigile e ansioso del ragazzo.

Bacchetta alla mano, sussurra un incantesimo: la stoffa, leggermente increspata da un alito di vento caldo, si asciuga in pochi istanti e riacquista la propria tinta originale, un grigio pallido e uniforme.

Hermione lo ripiega in malo modo tra le braccia, soddisfatta, poi si avvicina a Remus e glielo tende.

- Tieni, - esclama, piegandosi sulle ginocchia, le braccia che reggono il mantello distese nella sua direzione. Una delle smagliature sui suoi collant si allarga ulteriormente, scoprendole buona parte della coscia.

Un ragazzo nudo e una ragazza sporca, bagnata, arruffata, senza scarpe e con le calze strappate. Lo scenario in effetti non è dei migliori.

Remus osserva la massa informe di tessuto come se si aspettasse di vedere la mano di un Dissennatore spuntare tra le pieghe da un momento all’altro.

- Grazie, - mugugna infine, più sbalordito che grato. Si avvolge il mantello attorno alle spalle, lanciandole brevi occhiate furtive: è evidentemente preoccupato, anche se non si attenta a dare voce alla propria angoscia.

L’espressività di quel viso è così diversa da quella del bambino imbronciato di poco prima – o anni prima? – che Hermione si perde a osservarne i tratti, immaginando quel volto giovane e liscio percorso dalle cicatrici che lo deturperanno in futuro, per poi lasciarsi cullare dal pensiero di quanto invece il suo sguardo assomigli ancora a quello del piccolo Remus: dolce, profondo, spaventato.

- Io… - lo sente balbettare, imbarazzato, ma non gli dà modo di proseguire.

- Lo so, - lo rassicura. Il terreno bagnato le solletica le piante dei piedi: arriccia le dita sull’erba, mentre un brivido freddo le scorre lungo la schiena. – Non c’è bisogno che mi spieghi niente.

Remus corruga le sopracciglia, sconcertato. Non sembra granché più tranquillo.

- Io non ti ho… - scandisce lentamente, percorrendo la sua figura scarmigliata con un’occhiata fugace. – Vero?

Nonostante la domanda non sia delle più chiare, Hermione crede di intuire che cosa intenda.

- No, - risponde decisa, determinata a dissipare ogni suo dubbio. – Non mi hai fatto niente. Niente di niente.

Remus pare sollevato, ma continua a scrutarla con malcelato sospetto, come se si stesse chiedendo cos’altro oltre a un Lupo Mannaro selvatico possa averla ridotta in quello stato. Forse non le crede, o forse ritiene che sia pazza.

- Sto bene,  - ribadisce Hermione. Sia fisicamente che mentalmente, vorrebbe specificare. – Vorrei solo… - Si guarda intorno, appurando il fatto che non si trova più nella stessa foresta, nonostante gli alberi fitti e la penombra. - … trovare le mie scarpe.

Ma dei suoi mocassini, in quella specie di campo di battaglia di sterpaglie e umidità, non c’è traccia.

- Le avrai perse scappando, - commenta Remus, amareggiato, stringendosi nel mantello. Non si è rilassato un solo istante da quando aprendo gli occhi l’ha vista e Hermione non lo può certo biasimare.

Svegliarsi nudo in una radura in compagnia di una ragazza che pare essere appena uscita da un’incontro ravvicinato con – beh, un Lupo Mannaro e sapere di essere con ogni probabilità il potenziale responsabile di ben più di un paio di scarpe perdute non dev’essere piacevole.

- Non sono scappata, - sbotta Hermione d’istinto, senza in realtà ricordare nulla di ciò che l’ha condotta in quel luogo, e soprattutto in quel tempo. Pensava di dover essere lei ad avventurarsi tra i meandri più nascosti della mente di Remus, non di essere catapultata da un’identità all’altra senza poter fare nulla a riguardo.

Il ragazzo che le si trova di fronte in quel momento avrà almeno diciotto, diciannove anni: per quale motivo l’inconscio di Remus l’ha trasportata tanto lontano dalla personalità precedente?

Dieci anni in un secondo: forse le sue calze potrebbero essere anche più rotte di così.

- Devi avere un istinto di preservazione piuttosto malandato, allora. -  Remus si stringe maggiormente il mantello attorno al corpo e si alza in piedi, incrociando le braccia sul busto. – Avrei potuto ucciderti.

Hermione scalpiccia i piedi tra le foglie bagnate. – Cuore Grifondoro, - ridacchia. – Sono abituata a rischiare la vita in imprese impossibili.

Remus si irrigidisce per l’ennesima volta. – Sei una studentessa di Hogwarts?  

- Lo ero. Mi sono diplomata l’anno scorso. – Le parole le sfuggono di bocca prima che possa mordersi la lingua.

Uno sguardo sbilenco. – Anch’io. E non ti ho vista a Grifondoro, né in nessun’altra Casa.

Hermione si raddrizza la tracolla sul petto, giocherellando nervosamente con la cinghia. Questo perché tu hai frequentato la mia stessa scuola vent’anni prima di me, pensa con un gemito.

- Diciamo che ho un segreto anch’io, - risponde invece, sperando che possa bastare.

Remus pare sul punto di ribattere qualcosa – il suo petto si gonfia, le sue labbra si schiudono – poi, quasi avesse realizzato solo in quel momento di trovarsi in una situazione troppo compromettente per potersi permettere di indagare più a fondo, si limita ad annuire, nervoso.

- Sei sicura di stare bene? – chiede dopo un lungo istante di silenzio. – Io non… era da tanto che non mi succedeva. Di solito non sono da solo nelle notti di luna piena.

Hermione gli sorride appena. – Non mi hai fatto niente. Sto bene. – Ridacchia. – Vorrei solo un paio di scarpe.

Remus deglutisce vistosamente, per il sollievo o forse per l’imbarazzo. – Io avrei una… Non è proprio una casa, ma è qualcosa, poco lontano da qui. – Si porta una mano sulla nuca, ben attento a mantenere sollevato il mantello, e si scompiglia i capelli con fare ansioso, guardandola di sottecchi. - Lì ho dei vestiti puliti, magari troviamo anche qualcosa che ti vada bene.

Il trillo di un altro sonaglio risuona in lontananza, oltre i tronchi scuri del bosco.

- Magari, - accetta Hermione, i pugni stretti attorno alla cinghia della tracolla.

E cominciano a camminare in quel modo, a piedi nudi sull’erba bagnata, mentre l’ombra della luna sbiadisce all’orizzonte.

 

 

 

Il qualcosa di cui parlava Remus è un minuscolo casino da caccia in muratura, sbilenco e crepato in più e più punti. A Hermione ricorda vagamente una versione miniaturizzata e di pietra della Tana: Remus la guarda stranito nel vederla sorridere da zigomo a zigomo dopo averlo scorto nel bel mezzo di un prato incolto, ma Hermione non riesce a trattenersi. La Tana è andata distrutta durante un feroce scontro almeno un anno e mezzo prima, e la villetta che il Ministero ha fatto edificare al suo posto in memoria dei caduti della famiglia Weasley non ne è che una pallida imitazione, la riproduzione Carnevalesca a fronte di un originale vissuto e graffiato.

Le scalette che conducono alla porta d’ingresso sono di duro granito, ma ciononostante parecchie fenditure e un numero indefinito di solchi percorrono ogni singolo gradino. Una parte del corrimano è incrinato e spaccato, troncato più o meno a metà, mentre un’altra pende inerte da una grossa asta flessibile di ferro battuto.

- Vieni qui per trasformarti? – chiede Hermione seguendolo sugli scalini, evitando una crepa dall’aria particolarmente minacciosa. Nel puntare lo sguardo verso il basso per tutelare i propri piedi da spiacevoli incidenti si accorge di quanto siano sporchi: si vergognerebbe, se quelli di Remus non fossero in condizioni anche peggiori.

- L’ho fatto solo una volta, - risponde il ragazzo, senza voltarsi. Parla velocemente e con un filo di voce, a disagio. – Vado da un’altra parte. In quel posto non ti ci avrei portata.

Hermione ripensa ai graffi sui gradini: una sola trasformazione, tutti quei danni. Del resto ricorda più che bene le condizioni della Stamberga Strillante, a Hogwarts. Per Remus deve essere stata dura trovare un altro nascondiglio dove rinchiudersi nelle notti di luna piena senza dare nell’occhio. Anche se a quanto pare l’ultimo che ha trovato non è troppo sicuro, visto il modo in cui è riuscito a fuggire e a vagabondare per i boschi.

Io non… era da tanto che non mi succedeva. Di solito non sono da solo nelle notti di luna piena.

Quella notte James, Sirius e Minus non sono stati con lui.

Che sia per quel motivo che lei si trova lì?

La porta del casino si apre con un cigolio sinistro, sfregando contro il lastricato. Remus l’ha aperta con una chiave raccolta da sotto un sasso: a quanto pare è abituato a non avere addosso indumenti e tasche in cui tenerne una e quindi a dover fare a meno della bacchetta, di tanto in tanto.

Hermione si lascia condurre all’interno, curiosa ed emozionata. Si sente le dita cosparse di farfalle, desiderosa di toccare ed esplorare ogni cosa.

Le pareti sono foderate di fotografie, il pavimento di tappeti. Aprendo l’uscio, quello che fronteggia l’ingresso si è arricciato su se stesso: un panno intrecciato sui toni del marrone e del rosso, costellato di piccoli e confusi rombi gialli, quasi qualcuno avesse steso a terra un maglione extra-large della signora Weasley. Hermione si scopre a osservarlo incantata senza un motivo in particolare, rischiando perfino di inciamparvi.

Il resto della casa è un collage disordinato di immagini e colori: cornici sbilenche, strani soprammobili, cimeli ridicoli esibiti come trofei. Su una mensola storta di legno massiccio giacciono un paio di corna che con ogni probabilità devono essere appartenute alla forma animale di James.

Hermione sorride tra sé e sé al pensiero di quanto quei quattro debbano aver riso, quando Ramoso ha perso le corna alla fine della stagione degli amori.      

A Harry piacerebbe così tanto questo posto, pensa, osservando affascinata le foto di gruppo che tappezzano le pareti.

L’ennesimo “puoi farcela” le rimbomba tra un timpano e l’altro, costringendola a chiudere gli occhi e a massaggiarsi le tempie.

- Di là c’è il ba… stai bene? – sbotta Remus, cominciando a raccogliere vestiti da un attaccapanni sgangherato.

- Sto bene, sto bene.

Pochi minuti dopo ha i piedi immersi in una tinozza nera ricolma fino all’orlo di acqua calda, grata che non sia bianca così da non vedere chiaramente la sporcizia sulla superficie ormai non più trasparente, mentre Remus è seduto al suo fianco, pulito - in virtù di un incantesimo veloce ed efficace pronunciato con abitudinaria sicurezza - e soprattutto vestito.

Hermione avrebbe potuto seguire il suo esempio e rassettarsi magicamente, ma lui ha insistito che mettesse ammollo almeno i piedi, gonfi, lerci ed escoriati dopo la passeggiata tra gli arbusti.

Chissà dove sono finite le sue scarpe.

Dopo aver riscaldato per la seconda volta l’acqua nella tinozza, Remus appoggia sul cuscino del divano di fianco a lei una salvietta e quelli che a occhio e croce sembrano pantaloni di velluto, per poi adagiare a terra un paio di pantofole rosa.

- È roba della fidanzata di un mio amico, - si giustifica. – Ogni tanto lo accompagna qui e rimane per qualche giorno. Lo chiamano “il campeggio dei lupetti”. Non so se hai presente, è una cosa Babbana. L’ultima volta si è…

Ma si blocca, interrotto da un pensiero. 

- Non mi sono presentato, - sentenzia con un sospiro. – Sono un coglione.

Hermione sorride: al momento sul volto di Remus c’è un’espressione molto buffa. E dolce.

In effetti avrebbe dovuto pensarci: nonostante lei sappia perfettamente il suo nome, nonché molte cose che di sicuro ben poche persone in quegli anni conoscono di lui, ai suoi occhi lei è una completa sconosciuta.  

- Io sono Hermione, - mormora tranquillamente per stemperare l’imbarazzo.   

- Remus.

Quando i loro palmi si toccano, in una timida stretta in bilico tra una tinozza d’acqua calda e un paio di pantofole rosa, Hermione sente i piedi galleggiare sotto di sé, le gambe intorpidite.

Le mani di Remus sono grandi come ragnatele: catturano tutte le farfalle sui suoi polpastrelli, una ad una, impedendole di ritrarre le dita.

È come incontrarsi per la prima volta.

 

 

  

I pantaloni di velluto sono tiepidi sulle sue gambe e le pantofole sono esattamente del suo numero, di una morbidezza familiare e rassicurante.

È roba della fidanzata di un mio amico.

Sta forse indossando i vestiti di Lily? Le sembra quasi di essere lei la ragazza che li ha dimenticati in quel cubicolo, tanto se li sente perfetti indosso.  

Hermione stringe tra i palmi la tazza di tè che Remus ha preparato mentre lei si cambiava, sfregando il pollice su una sbeccatura tagliente del bordo. Si morde un labbro, poi lo appoggia sulla ruvida escoriazione della ceramica e lo lascia scivolare appena avanti e indietro, con l’impressione di stare riassaporando una vecchia sensazione passata.

Si accorge dello sguardo incuriosito di Remus troppo tardi e sobbalza, cercando di celare quello strano comportamento bevendo un sorso di tè.

Si scotta la lingua, ma non lo dà a vedere. Piuttosto solleva gli occhi sul volto del ragazzo, che ora la sta scrutando quasi tristemente. Forse si lascia contagiare dalla sua malinconia, o forse desiderava semplicemente chiederglielo fin dall’inizio, ma dopo una breve pausa silenziosa Hermione si appoggia la tazza sulle cosce e prende un respiro profondo. 

- La prima volta…  ha fatto molto male?

Mentre l’eco delle urla del bambino udite appena qualche ora – anno – prima le rende più amaro il sorso di tè appena ingollato, un altro sonaglio trilla nelle retrovie della sua coscienza.

Remus si attira un ginocchio al petto e puntella il piede sul cuscino del divano. – Da morire, - risponde, limpido.

- Eri da solo?

- All’inizio sì. All’epoca avevo solo sette anni, e mia mamma è Babbana. Era terrorizzata. – Parla piano e con tono assorto, quasi non riuscisse a credere di stare davvero confidando certe cose a qualcuno. – Dopo una settimana di tentativi inutili di far sparire il morso, la prima notte di luna piena mi ha portato in un bosco lontano dal villaggio e mi ha detto di tornare a casa il mattino dopo. Poi si è sentita in colpa ed è tornata indietro.

Hermione ascolta con attenzione. Dunque è così che è andata: alla fine la madre di Remus è tornata a prenderlo.

- E tu non sei più riuscito a perdonarla.

Dovrà esserci un motivo, se il suo inconscio l’ha condotta proprio in quel tempo, in quel momento.

Remus scuote il capo al di là della tazza fumante. – Certo che l’ho perdonata. Era disperata, non sapeva cosa fare. – Le occhiaie sotto i suoi occhi paiono stemperarsi al pensiero della madre, tanto che Hermione se ne sente quasi gelosa. – È Babbana, aveva paura che uccidessi qualcuno nel villaggio. Non girano esattamente delle belle storie sui Lupi Mannari, e la maggior parte di esse sono vere.

Rimane in silenzio per alcuni istanti, durante i quali il Lumos galleggiante lanciato sul lampadario oscilla ed emana un chiarore a tratti più fioco, poi riprende a parlare.

- A volte per la disperazione si fanno cose sconsiderate. Soprattutto quando il problema sono le persone a cui vuoi bene.

All’improvviso, un altro stormo di sonagli comincia a trillare nella mente di Hermione. È come una chiamata alle armi, uno squillo di trombe della cavalleria poco prima che inizi la battaglia. Il suono, così penetrante e aggressivo, la turba a tal punto che la tazza le scivola dalle mani e ruzzola sul divano, macchiandolo, per poi cadere a terra e rotolare sul tappeto.

Il tè si spande a macchia d’olio sulla federa scura e un fuoco artificiale di schizzi si infrange sul pavimento.

Solo allora Hermione si riscuote, gli occhi per qualche strano motivo ricolmi di lacrime.

Puoi farcela, ripete Harry in un anfratto lontano della sua coscienza. Sei forte, aggiunge Ron. Ma ciascuna di quelle affermazioni non fa che trasmetterle maggiore angoscia, riducendola carponi sul tappeto.

- Ehi, - esclama Remus, subito al suo fianco.

- Mi dispiace, - singhiozza Hermione. Senza che possa fare nulla per frenarle, le lacrime cominciano a solcarle le guance. – Mi dispiace tanto.

Che cosa le sta succedendo?

Che cos’è quella sensazione?

Remus la afferra per le spalle, costringendola a rialzarsi in piedi. – Non fa niente, - cerca di rassicurarla, raccogliendo la tazza e appoggiandola su un tavolino traballante poco distante da loro. – Si sistema. Si sistema tutto.

Hermione emette un altro singulto, il cuore accartocciato nella cassa toracica. Sono i sonagli. Sono quei maledetti sonagli: la faranno impazzire.

Raccoglie la tracolla dal divano, dove ha riposto la bacchetta. – Adesso pulisco, - balbetta, frugando tra le pagine di uno dei tomi che ha portato con sé. Le sue dita brancolano a vuoto, così abbranca i libri e li estrae della borsa per poi abbandonarli in malo modo su un’isola asciutta di pavimento, riprendendo la propria ricerca con ancora più foga.

- Hermione, - la interrompe Remus, stavolta con maggior vigore.

La ragazza si immobilizza, guardandolo dal basso verso l’alto, il fiato corto e le guance bagnate.

- Lascia stare, - mormora lui, gentile. – Le macchie verranno via meglio da asciutte. – Le indica l’altro divano, quello sul quale stava seduto poco prima, e la spinge delicatamente in quella direzione. – Tu siediti qui, e stai tranquilla.

Qualche schizzo di tè si sta allungando pericolosamente in direzione dei libri, così Remus si china a raccoglierli, maneggiandoli come solo chi li ama almeno quanto lei potrebbe fare.

Si siede al suo fianco a una distanza ragionevole, ma la vicinanza è sufficiente a inviarle un lungo brivido caldo su per la schiena.

Hermione, ancora turbata, lo osserva accarezzare la copertina del primo dei due manuali. Trattiene il fiato.

Se dovesse intuire qualcosa…

Deve essere delicata. Fare piano, molto piano. Non deve forzare la mano.

- Dissociazione della personalità, eh? Hai scelto una specializzazione originale.  

Incuriosito, Remus sfoglia distrattamente le prime pagine, una luce sibillina negli occhi. In quell’unico momento, nell’espressione intrigata sul suo viso, Hermione riesce a scorgere tutta la serenità che non ha mai avuto modo di vedere sul volto dell’uomo che giace in un letto d’ospedale a un’intera dimensione da lì.

Nei suoi lineamenti spigolosi eppure ammorbiditi dalla giovinezza, scorge qualcosa di Tonks: un cenno di sconsideratezza, forse. Di irriverenza. Che sia quella minuscola scintilla ad averli resi tanto uniti? Eppure il suo viso è mille volte più interessante di quello di Tonks.

Hermione inspira a fondo e abbandona il capo sull’imbottitura del divano, finalmente tranquilla.

- Non ti sto aiutando affatto, - esala in un soffio, attirando le ginocchia di lato sui cuscini di tessuto grezzo e liso. Fortunatamente non ha macchiato né i pantaloni né le pantofole.

A un’occhiata interrogativa di Remus, sorride appena. – Io dovrei aiutarti, - ripete, mesta. – Farti sentire meglio.

Lui, di tutta risposta, comincia a ridere. – E perché mai? Sono io quello che ti ha aggredita in un bosco.

Hermione cerca una sua mano con la propria, così come ha cercato quella del piccolo Remus quando questi le ha chiesto se davvero sarebbe rimasta con lui fino a quando non fosse guarito.

O forse no, non allo stesso modo.

- Tu non mi hai fatto niente, - asserisce decisa, gli occhi fissi sui suoi.

L’espressione di Remus, da divertita che era, si scioglie in una maschera cerata di delicata sorpresa.

- Dovresti stare attenta, sai, - mormora, in un alito di voce appena udibile. – Potrebbe quasi sembrare che tu abbia un segreto peggiore del mio.

Il suo sguardo si fa brillante, al chiarore incostante del Lumos sospeso sopra le loro teste. Si insinua in quello di Hermione come un’iniezione sottopelle: intenso, diretto, bruciante, tanto che lei ne avverte la puntura ancora prima di accorgersi che i loro volti si stanno avvicinando, scivolando in avanti seguendo un filo invisibile, teso con precisione chirurgica.

Non sa se siano le sue labbra a sfiorare per prime quelle di Remus, o quelle di Remus a sfiorare per prime le sue: dal momento che le loro bocche si incontrano si dividono in parti uguali colpa e merito.

Quando infila le dita tra i suoi capelli e spinge appena il busto contro il suo, il tintinnio leggero di un sonaglio le sfiora la coscienza.

Delicato. Piano, molto piano.

 

 

 

Stare tra le braccia di Remus è come fluttuare: pare quasi di nuotare, a ogni sfiorarsi di pelle. Ci si muove lentamente, spostandosi di tanto in tanto grazie a una corrente più energica, poi l’enfasi torna a quietarsi in un mite rimanere sospesi, l’uno ancorato al fondale dell’altra.  

Ed è bello. É dolce.

É come essere sempre nudi, pur senza essersi spinti oltre una carezza leggera al gancetto del reggiseno o alla cintura dei pantaloni. Oppure, quando non lo si è, essere vestiti non sembra più lo stesso, perché il tessuto si gonfia o aderisce alla pelle a seconda di quanto l’immaginazione riesce a galleggiare davvero, sulla superficie di quel momento di totale incoscienza.

I capelli di Hermione giacciono ad appena pochi centimetri dalla chiazza di tè spanto sul tappeto ai piedi del divano. Remus li pettina pigramente con le dita, impigliando i polpastrelli nelle ciocche ricce e scure.

Con gli stessi polpastrelli percorre un tracciato leggero sulle sue guance, avvicinando le labbra al suo orecchio.

- Non devi aiutare tutti, Hermione, - sussurra, allontanando un boccolo bruno da una minuscola macchia di tè. – Non ce n’è bisogno.

Hermione volta il capo a guardarlo, accigliata. Sente il cuore emettere un pigolio, al centro del petto.  

- Perché me lo dici? – sussurra a propria volta, quasi stesse dormendo e dovesse fare attenzione a non svegliarlo. 

Remus le accarezza il volto con il dorso della mano, discendendo dalla sua fronte alla sua bocca, dischiusa per lo stupore.

- Lo sai.

Il pigolio diventa una crepa, lunga e sottile. - Io sono qui per aiutarti. Per riportarti indietro.

All’improvviso il pavimento appare impietosamente duro sotto la sua schiena. Smette di fluttuare, precipitando sul fondale. Respirare diventa difficile.

Remus, i lineamenti spigolosi ammorbiditi dalla giovinezza e un cenno di irriverenza, – sconsideratezza, forse – emette un sospiro triste.

- Sei sicura di volere davvero tornare indietro? – esala in un soffio. 

Hermione cerca la sua mano sul tessuto ispido del tappeto. La stringe forte, la gola stretta da un nodo pungente.

- Sì che ne sono sicura.

 Tu sei sicura di tante cose.

… non poi così tante.

Remus la guarda fisso negli occhi. – Hermione…- bisbiglia. Le sue pupille sembrano allargarsi, nel nucleo delle sue iridi. - A me non piace il miele.

Il cuore di Hermione perde un battito.

Sei un tipo goloso, eh?

Non mi piace! Non lo so come ci è finito!

Capisco. I barattoli di miele sono dei veri rompiscatole al giorno d’oggi.

- Ma… - protesta, flebile. Le mani di Remus sono come ragnatele, e i suoi polpastrelli sono cosparsi di farfalle.

- È a te che piace. – Sempre soltanto un alito di voce. – Giusto un filo, sciolto nel tè. Ti rilassa. Lo bevi sempre, quando sei agitata.

Hermione corruga la fronte, gli occhi ancora una volta sul punto di colmarsi di lacrime.

Perché sta per piangere?

- Ma come fai a…?

Remus si appoggia un indice sulle labbra, facendole cenno di rimanere in silenzio e di ascoltare. Il suo sguardo è limpido, terso. - Quelle ciabatte non sono di Lily, - bisbiglia. - E neppure quei pantaloni. Li hai comprati in un negozietto Babbano vicino a dove lavora tua madre, quando sei andata a trovarla due mesi fa. Li metti quando senti la sua lontananza.

La morbidezza familiare, la sensazione che le fossero stati cuciti addosso. Eppure…

Stringe con più forza il palmo di Remus, piantandovi le unghie. - Me li hai dati tu! Me l’hai detto tu che…

D’un tratto un braccio la spinge in avanti, e lei si ritrova premuta contro il suo petto, a singhiozzare senza freno sul suo maglione. Le lacrime le scavano le guance come radici che le affondano nel petto, scosso dai singulti.

- Io devo riportarti indietro! – Hermione conficca le dita nella lana del vecchio pullover, tirandone i fili. – Sono l’unica che… Solo io posso! Devo aiutarti! Devo aiutare tutti.

La mano di Remus le culla la testa, tessendo i ricci tra i polpastrelli. – No, Hermione, no. - La sua voce gentile penetra nella sua pelle come inchiostro, macchiandole i pensieri. - Non devi. Non puoi.

Dopo la morte di Voldemort erano cambiate molte cose.

Uno dei voluminosi libri che ha portato con sé all’interno della tracolla scivola dal cuscino del divano e cade aperto a terra, ad appena qualche passo dal suo viso.

Le pagine sono bianche, immacolate.

Mi scusi, forse lei potrà essermi utile. Sto conducendo una ricerca per l’apprendistato presso il Dipartimento Lesioni da Incantesimi del Ministero… Cercavo materiale sulla Dissociazione della personalità. Un manuale, un’enciclopedia, o qualsiasi altra fonte abbia a riguardo. Qualunque cosa, non importa.

Ragazza mia, quella è una materia sperimentale. Tutto quello che posso avere a riguardo è un mucchio di rotoli di pergamena, niente di stampato. Ma sei sicura che il Ministero accetti ricerche del genere?

Sono sicura.

Erano cambiati tutti, dopo la fine della guerra. Era cambiato Harry, che non dormiva più di quattro ore a notte e sentiva il bisogno viscerale di visitare i parenti di quasi tutte le vittime dello scontro; era cambiata Ginny, che dopo alcuni mesi aveva smesso di seguirlo e poco dopo aveva smesso anche di aspettarlo. Era cambiato Ron, così cresciuto e responsabile, pur rimanendo forse l’unico a parte George in grado di sopperire all’assenza di Fred con qualche ridicola messinscena.
Erano cambiati Bill e Fleur, che avevano fatto della propria bambina la propria pace e in lei avevano trovato la speranza che il Mondo Magico aveva trovato in Harry.
Erano cambiati Arthur e Molly, che avevano fatto dei figli perduti il proprio armistizio e pareva non avessero ancora cessato di sentirsi in guerra.

Ed era cambiata lei, Hermione.

Remus sospira, affranto, ma non smette per un attimo di accarezzarle i capelli.

- Tu non sei qui per riportarmi indietro, perché io non sono andato da nessuna parte. Capisci, Hermione?

 

 

 

Stare tra le braccia di Remus è come fluttuare. Pare quasi di nuotare, a ogni sfiorarsi di pelle. Ci si muove lentamente, spostandosi di tanto in tanto grazie a una corrente più energica, poi l’enfasi torna a quietarsi in un mite rimanere sospesi, l’uno ancorato al fondale dell’altra.  

E, infine, i ricordi ritornano a galla.

La morte di Voldemort, i festeggiamenti, le commemorazioni, i pianti.

La gioia, e subito dopo il senso di perdita. La pace, e la mancanza di uno scopo.

Il senso di impotenza: la convinzione di essere troppo deboli, inadeguati, manchevoli, mentre il mondo si trasforma in peggio e nulla può essere fatto per impedirlo.

Era la sua ragione di vita: sistemare le cose, renderle più tollerabili, dare una mano quando possibile. La faceva sentire viva, la faceva sentire utile. Dava un significato a tutto.

Poi, la fine della guerra aveva cambiato ogni cosa.

Non c’era nulla che potesse fare, nulla che potesse dire. Le tracce che quello scontro aveva scolpito in ognuno di loro erano indelebili, avevano mutato la loro personalità tanto quanto le cicatrici avevano sfregiato il viso di Remus.

Tutta la sua cultura, tutti i suoi libri, non valevano nulla a fronte di un simile scenario, non se non poteva sfruttarli a vantaggio proprio e delle persone a cui voleva bene.

Poi, un giorno, aveva letto un articolo sulla Gazzetta del Profeta, firmato Nicholas F. Marshall.

“Forse, l’unico modo per convivere con se stessi è una doppia personalità.”

Hermione conosceva quelle teorie: sapeva che erano sperimentali, sapeva di non potervi fare pieno affidamento. Non si trattava di scindere l’inconscio, ma di addormentarne la componente più dolorosa e del tutto superflua, quella parte di coscienza che compiangeva fatti la cui unica influenza sulla psiche era lo squilibrio.

Le era parsa una buona idea: un modo per fare finalmente qualcosa di concreto, dare un contributo tangibile contro quell’uggioso e catatonico torpore post-guerra.

Le ricerche avevano impiegato settimane, ma alla fine aveva rintracciato la formula che faceva a caso suo: un vecchio incantesimo, rimodernato per esercitare il proprio effetto su più di un soggetto contemporaneamente, ideato in origine per agire sul solo attore della formula e poi modificato.

La sua prima cavia era stata la bibliotecaria, Tracy Strauss.

Tracy aveva perso il marito due anni prima, durante il crollo di un archivio interno alla Gringott. Dopo quel giorno, non aveva più letto nemmeno una pagina.

L’incantesimo aveva funzionato alla perfezione: non solo non aveva intaccato un singolo ricordo, – Hermione aveva trascorso ore e ore ad ascoltare la signora Strauss compiangere il marito e la felicità smarrita – ma non ne aveva neppure svigorito l’intensità. Eppure, dopo appena qualche ora dalla pronuncia della formula, la bibliotecaria che non toccava un libro da quasi due anni aveva raccolto un manuale di Storia della Magia da uno degli scaffali della Sezione Saggistica e si era immersa in una lettura appassionata,  ininterrotta.

Hermione si era sentita così felice quel pomeriggio che aveva quasi pensato di fare visita ai propri genitori, dopo settimane di rinvii dei loro appuntamenti periodici.

Tuttavia aveva preferito tornare a casa, scaldarsi una tazza sbeccata di tè e riprendere a studiare le preziose pergamene che aveva rintracciato nelle settimane precedenti, seduta su una delle sedie esili e di fattura grezza che circondavano il tavolo del salotto di Grimmauld Place.

Aveva indossato i pantaloni e le pantofole che aveva comprato nel negozietto vicino allo studio dentistico di sua madre, perché in fondo le mancava davvero tanto, ed era stata tentata di stendersi un pannetto sulle ginocchia quando ne aveva visto uno, probabilmente cucito da Molly, appoggiato su uno degli scranni lì a fianco. Si trattava di una coperta intrecciata sui toni del marrone e del rosso, costellato di piccoli e confusi rombi gialli e fin troppo simile a un maglione in formato extra-large.

Aveva desistito, - faceva ancora abbastanza caldo per la stagione in corso, in fondo - per poi rivolgere la propria attenzione ai rotoli di pergamena, disposti sul legno come una muraglia di carta.

Infine, aveva recitato la formula.

Tutto ciò che ricorda degli attimi successivi è un forte boato al centro del petto e la sensazione di starsi sbriciolando in mille pezzi.  Si era accasciata sui fogli di pergamena, le labbra che si rifiutavano di emettere qualsiasi suono e le braccia che brancolavano al buio sul tavolo, cozzando contro qualsiasi ostacolo sul proprio percorso. Aveva urtato la tazza sbeccata di tè, il cui contenuto si era riversato a macchia d’olio sul legno prima di ruscellare a terra, sul pavimento incrinato. Poi, nel tentativo di ricollocarla in piedi, aveva rovesciato la piccola ampolla colma di miele: lunghe strature di liquido ambrato avevano cominciato a defluire dal vetro tra le dita della sua mano sinistra, tracciando sentieri filamentosi sulla sua pelle.

Dopo qualche istante, il suo corpo aveva cessato di muoversi. Era rimasta per lunghi minuti immobile, il capo abbandonato di lato sul legno, incapace perfino di sbattere le palpebre.

Tutto ciò che aveva potuto fare, prima di perdere finalmente conoscenza, era stato osservare inerte la mensola al di là del pannetto cucito dalla signora Weasley, disadorna a eccezione di una singola cornice:un ritratto di Tonks, seduta su una poltroncina imbottita e rivestita di damasco fiorato, il busto avvolto da un largo pullover viola dalle maniche sformate.  Accovacciato sulle sue ginocchia, inquieto e imbronciato, c’era Teddy.

 

  

 

Remus le infila una mano tra i capelli alla base della nuca, inducendola a sollevare il viso. Ancora una volta, un sussurro: – Capisci ora?

Hermione annuisce soltanto, la gola occlusa dal pianto e dall’inquietudine.

- Non ci sono io in quel letto d’ospedale.

La crisi esistenziale di Remus, la disperazione di Tonks, le istruzioni dei Medimaghi: tutte invenzioni della sua psiche?

Delicato. Piano, molto piano.

Quella volta il Guaritore aveva parlato al maschile.

Puoi farcela. Il pizzicore dell’accenno di barba di Harry sulla propria guancia…

Sei Forte. Il bacio leggero di Ron sulle proprie nocche.

C’è lei, in quel letto d’ospedale. Harry e Ron non sono lì per assisterla in una missione delicata e pericolosa, ma per vegliarla dal suo capezzale.

Il sonaglio non è appeso alla porta di Remus, ma alla sua. 

Tonks, Teddy, la poltroncina damascata, Harry, Ron, il miele, il pannetto arricciato ai piedi della porta del casino da caccia, le pantofole, i pantaloni, la tazza sbeccata, il tè rovesciato, i libri. È tutto così assurdamente cristallino da ferirle l’orgoglio, per il modo in cui il suo inconscio è stato in grado di ingannarla. 

Rimane solo una cosa che ancora non riesce a spiegarsi.

Preme le mani sul torace di Remus – quello giovane, quello che ha baciato, accarezzato, quello con il quale ha fluttuato - e gli si allontana appena per riuscire a guardarlo in volto.

- Se io sono in quel letto… - mormora, la voce resa roca dalle lacrime. - Tu dove sei?

Remus socchiude le labbra in un sorriso appena visibile, poi si china a baciarle la fronte. – Proprio qui, - risponde, un filo di malinconia a congiungere le parole come una collana di perle. – E , nei ricordi del me stesso più vecchio.

Hermione avverte la crepa nel proprio petto farsi più profonda e ingollare acqua, mano a mano che il pavimento del casino da caccia diviene sempre più duro e il suo cuore sempre più gonfio.

- Era l’unico modo, - prosegue Remus, attirandola ancora una volta a sé. – Non saresti mai tornata di tua spontanea volontà. Saresti rimasta bloccata tra una personalità e l’altra senza mai più riuscire a rialzarti in piedi. Ma se ti fossi convinta che qualcuno aveva bisogno del tuo aiuto… allora, forse…

Non una singola farfalla rimane libera dalle mani di Remus: i pensieri di Hermione cercano di dibattersi tra un filo di ragnatela e l’altro, ma non c’è scampo.

Non può fare altro se non continuare ad ascoltare.

- Non sei tu a essere entrata nella mente di Remus Lupin, ma Remus Lupin a essere entrato nella tua. Ha sparpagliato alcune delle proprie identità più problematiche sperando di attirare la tua attenzione e beh… - Un sorriso. - … a quanto pare a me spetta almeno la medaglia d’argento. Anche se forse sua moglie non la pensa allo stesso modo.

Hermione, un battaglione di sonagli che vibra tra uno schiaffo di consapevolezza e un altro, appoggia la fronte sul petto di Remus, prendendo fiato.

- In poche parole sono un’altruista patologica, - mormora, inspirando il profumo del suo maglione. Il suo inconscio può ingannarla in tutti i modi che più lo aggradano, ma quell’odore è reale.

Una risata gentile. – Qualcuno la chiamerebbe Sindrome dell’Infermiera.

- Altruismo patologico suona meglio.

Remus le scompiglia i capelli, poi si solleva a sedere, trascinandola con sé. – Allora Hermione, - esclama, un sorriso malinconico tratteggiato sulle labbra. – Preferisci rimanere qui, con un ricordo che presto svanirà, oppure tornare a vivere?

Hermione, in ginocchio al suo fianco, inspira a fondo e chiude gli occhi. Stringe nei pugni il suo maglione, conficcando le unghie nella lana ispida quanto una coltre di pelo. Poi si protende in avanti.

Non sa se siano le sue labbra a sfiorare per prime quelle di Remus, o quelle di Remus a sfiorare per prime le sue: dal momento che le loro bocche si incontrano, si dividono in parti uguali colpa e merito.

 

 

 

Qualche istante più tardi, a una dimensione di distanza, il sole che filtra dalla finestra a graticola illumina un sonaglio tondo e dorato delle dimensioni di un Boccino, appeso alla porta di una stanza d’ospedale tramite un nastrino color glicine. Una leggera corrente d’aria lo fa ondeggiare lungo il pannello di legno dell’uscio.   

Hermione apre gli occhi.

 

 



 



 

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GOD SAVE THE SHIP!

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