Titolo:
La
porta a
sonagli
Autrice: Acardia17
Beta: Nefene (♥)
Pairing: (young!)Remus/Hermione
Rating: giallo
Genere: Introspettivo, romantico, malinconico
Contoparole: Non volete saperlo. Non volete davvero.
Noticine tecniche: la storia
è
ambientata dopo la fine della guerra, ma naturalmente si tratta di una
risoluzione alternativa al conflitto, piegata alle esigenze della fan
fiction ;)
Noticine informative: scritta
per “I ♥ Shipping”, in risposta
alla sfida di
Nefene: “Remus/Hermione”, prompt: vecchi maglioni,
tazze sbeccate, pergamene.
Allora, innanzitutto lasciatevi ammorbare con un po’ di
ringraziamenti:
- a Nefene,
che si è accollata il compito infame di betare per intero
questo
mostro di fanfiction: l’ha fatto in pochissimo tempo (in modo
da permettermi di
partecipare a un’altra iniziativa del Collection of
Starlight, vale a dire il
Reviews Exchange) e con efficienza a dir poco encomiabile. È
rarissimo trovare
Beta davvero talentuose, e lei è una di queste. Severa,
precisa, quasi
infallibile. Grazie tesoro ♥.
- a Third Moon, che ha realizzato per
me lo splendido banner che vedete qui
sotto senza neppure aver letto prima la storia, semplicemente guidata
dalle mie
indicazioni. Non è meraviglioso? Lo è. Oh
sì che lo è.
Che
dire, è la mia prima
vera e massiccia het dopo MILLENNI. Mi è piaciuto idearla,
mi è piaciuto
scriverla. Mi è piaciuto un po’ troppo, quindi ne
è uscito un colosso.
Spero vi piaccia.
« Chi
sogna, e chi
viene sognato, non sono svegli alla stessa misura. »
(Jostein
Gardner)
C’è
un campanello appeso alla porta: un sonaglio tondo
e dorato delle dimensioni di un Boccino, lucido come una perla
d’olio al sole.
Sulla sua sommità giace un cappello forato di minuscoli
fregi, attraverso il
quale è stato fatto scorrere un nastrino color glicine.
Quando
Hermione apre l’uscio della stanza d’ospedale,
il tintinnio cristallino che accompagna il movimento le risuona nelle
orecchie,
come un alito di fiato soffiato direttamente sui timpani. Il campanello
pendola
due o tre volte sul pannello di legno, scuotendo i pistilli contenuti
nella sua
pancia cava, poi si quieta e si arresta lungo l’asse del
nastrino, rimanendo immobile.
La
camera è piccola: un cubo di pareti bianche bordate
di grigio, un letto, un comodino e una finestra quadrata senza scuri e
con il
vetro a graticola, suddivisa in tanti angusti quadrati orlati di nero.
Hermione
la osserva accigliata, dicendosi con disappunto che le finestre di un
ospedale
non dovrebbero assomigliare tanto a quelle di una prigione, a maggior
ragione
quando qualcuno è realmente imprigionato al suo interno.
Prende
un respiro profondo, poi, all’improvviso, sente
le braccia di Harry stringersi attorno a sé.
L’accenno di barba adolescenziale
che già da un po’ gli scurisce zigomi e mento le
graffia la guancia.
-
Puoi farcela, - è il sussurro che le viene esalato
nell’orecchio, penetrante quanto il tintinnio del sonaglio.
Alla
sua destra, Ron le cinge la mano con entrambi i
palmi e deposita dolcemente un bacio sulle sue nocche.
-
Sei forte, - la incoraggia, deciso.
Hermione
rivolge loro un sorriso nervoso, grata per la
fiducia dimostratale. Avrà bisogno di tutto il sostegno
possibile, di lì a
qualche minuto.
Distoglie
lo sguardo: poco lontano dalla finestra, a
lato del letto, scorge Tonks. È seduta su una poltroncina
imbottita e rivestita
di damasco fiorato, nettamente in contrasto con il resto
dell’arredamento, ma
del tutto in linea con le bizzarrie del San Mungo di
quell’ultimo periodo.
Accovacciato sulle sue ginocchia, inquieto e imbronciato,
c’è Teddy. Hanno
entrambi i capelli grigi.
Il
viso di Tonks pare ancora più pallido sotto quella
coltre fumosa: i suoi occhi lucidi e sporgenti, segnati da profonde
occhiaie
che i poteri di Metamorfomago hanno forse accentuato, sono fissi sulla
figura
che occupa il letto al centro della stanza, mentre i bordi delle sue
labbra
solitamente rosa acceso paiono essere stati sfumati verso
l’esterno come una
macchia di acquerello.
Teddy
la guarda da sotto in su con una certa
apprensione, la boccuccia incurvata verso il basso e i piccoli pugni
aggrappati
all’intreccio liso del suo maglione, un largo pullover viola
dalle maniche sformate
e grossi fiori sporgenti simili a pipistrelli impigliati tra i fili di
lana.
Hermione
avverte il proprio stomaco accartocciarsi su
se stesso. Non ce la farà mai: nessun manuale l’ha
mai preparata per questo, e
il materiale che ha reperito a riguardo era vago, confuso. Nonostante
sappia di
aver trascorso giorni e giorni sui libri in vista di quel momento,
sente le
informazioni galleggiare tra i pensieri, inconsistenti e imprecise.
-
Puoi farcela, - ripete Harry con determinazione. Ha
un’espressione concentrata e la sua voce è calda,
risoluta. Hermione annuisce
appena, facendosi forza e muovendo il primo passo in direzione di
Tonks.
-
Sarai tu a farlo? – chiede lei d’un tratto,
sollevando gli occhi e guardandola apertamente in viso. La sua voce, a
differenza di quella di Harry, è tremula.
I
pipistrelli sul suo maglione cominciano a battere le
ali nella gola di Hermione.
-
Sì, - sussurra, ansiosa. La sola vista degli occhi di
Tonks è in grado di farle addensare la saliva sul palato per
l’angoscia, ma non
può permettersi di mostrarsi tanto insicura di fronte a lei.
Le deve un minimo
di audacia in più. –
Farò tutto ciò che
sarà in mio potere, te lo prometto.
Deve
farcela. Deve riuscirci. É l’unica che
può portare
a compimento una missione del genere, l’unica che sappia dove
cercare e possa
farlo senza rischiare di sfondare le pareti sbagliate,
nonché la sola la cui
intrusione possa risultare abbastanza delicata. Basterà
essere cauta, sarà
sufficiente mettere a frutto quanto ha appreso fino a quel momento,
come ha
sempre fatto.
Posso
farcela,
si dice, in un’eco delle parole pronunciate da Harry.
Sono forte abbastanza, rincara,
lanciando un’occhiata intenerita a Ron.
Si
avvicina al letto fino a quando non si trova dalla
parte opposta rispetto a dove è seduta Tonks, e si accomoda
su una sedia esile
e dalla fattura grezza posizionata accanto al comodino. Estrae la
bacchetta da
una tasca del mantello, che poi slaccia e lascia ricadere sullo
schienale,
senza curarsi se il bordo tocchi terra o meno.
É
pronta.
Il
sole che filtra dalla finestra a graticola riflette
una prigione di ombre sul viso di Remus Lupin, sdraiato supino su quel
letto
d’ospedale, privo di conoscenza.
Dissociazione
della personalità. Era su questo che quel
giorno Lupin stava svolgendo la propria ricerca, immerso in rotoli e
rotoli di
pergamena sparpagliati sul tavolo del salotto di Grimmauld Place.
Dopo
la morte di Voldemort erano cambiate molte cose: si
era trasferito nella vecchia residenza Black in pianta
pressoché stabile, come
del resto molti di loro avevano fatto; era difficile abbandonare quel
luogo,
dopo avervi vissuto tanto a lungo. Nonostante vi stessero stretti
– non più così
stretti, dopo che Fred, Charlie,
Moody e Kingsley erano morti in battaglia – la maggior parte
dei membri
dell’Ordine continuava a dormire e a mangiare lì,
come se il loro fosse un
riflesso condizionato. Come se non potessero farne a meno, onde non
spezzare
l’ormai comune e pacifica routine.
In
quei tempi avevano imparato che un cambio di routine
non portava mai con sé nulla di buono.
Erano
cambiati tutti, dopo la fine della guerra. Era
cambiato Harry, che non dormiva più di quattro ore a notte e
sentiva il bisogno
viscerale di visitare i parenti di quasi tutte le vittime dello
scontro; era
cambiata Ginny, che dopo alcuni mesi aveva smesso di seguirlo e poco
dopo aveva
smesso anche di aspettarlo. Era cambiato Ron, così cresciuto
e responsabile,
pur rimanendo forse l’unico a parte George in grado di
sopperire all’assenza di
Fred con qualche ridicola messinscena.
Erano cambiati Bill e Fleur, che avevano fatto della propria bambina la
propria
pace e in lei avevano trovato la speranza che il Mondo Magico aveva
trovato in
Harry.
Erano cambiati Arthur e Molly, che avevano fatto dei figli perduti il
proprio
armistizio e pareva non avessero ancora cessato di sentirsi in guerra.
Ed
era cambiato lui, Remus. In modo diverso da tutti
gli altri, meno evidente. Come un fiore che chiude i propri petali di
giorno
invece che di notte, come un orologio rimasto indietro di un paio di
minuti.
Qualcosa era mutato dentro di lui, ma la trasformazione era stata
così delicata
e graduale che nessuno di loro ci aveva fatto davvero caso.
Flebili
tic nervosi, malcelati
attacchi d’ira, impercettibili ossessioni serpeggianti tra le
abitudini di
quella normalità riconquistata a fatica, le cui parentesi
quotidiane
permettevano a tutti loro di sorridere alla nuova alba.
Sarà
la luna piena,
si erano detti. Sarà la guerra.
E
invece l’orologio, secondo dopo secondo, aveva
continuato a rimanere sempre più indietro,
finché, quella sera di all’incirca
una settimana prima, un paio d’ore dopo l’orario di
cena, non si era fermato
del tutto.
Lo
avevano trovato con il busto accasciato sul tavolo
del salotto, il viso premuto di lato su decine di frammenti di
pergamena
accatastati. Numerosi altri rotoli lo circondavano come una muraglia,
ancora
oscillanti sul posto. Aveva gli occhi sbarrati, ma non sbatteva le
palpebre e
non reagiva più a nessuno stimolo: non un tremolio di
ciglia, non un sussulto
delle dita.
Eppure
respirava.
C’era
ancora, ma non c’era più.
Adagiando
il suo corpo sul pavimento nel tentativo di
farlo riprendere, un paio di fogli erano caduti a terra.
Dissociazione
della personalità. Non solo su quei
fogli, ma anche su quelli sparsi per il tavolo. Pagine e pagine di
ricerche, appunti
e note di ogni genere, ma in particolare una formula, ancora
baluginante sulla
filigrana spessa di un documento piuttosto antico: un incantesimo di
appello
mentale, studiato per richiamare sé una delle diverse
identità e assopire le
altre, addormentarle in un limbo di semi-incoscienza in modo da non
annientarle
del tutto ma da renderle innocue.
Se
stesse tentando di relegare la componente animale di
sé in un anfratto recondito della propria consapevolezza
oppure volesse
semplicemente far sbiadire un poco i ricordi della guerra, questo loro
non lo
sapevano. Perché non avevano compreso.
Nessuno
di loro aveva anche solo intravisto le
intenzioni di un gesto così radicale, una ricerca tanto
disperata di quiete. Da
parte di Remus? Una delle persone più equilibrate che
avessero vissuto sotto
quel tetto?
Il
responso dei Guaritori al San Mungo era stato una
doccia gelata: frammentazione multipla della personalità,
una specie di
esplosione del subconscio. La formula che probabilmente Remus aveva
letto ad alta
voce non aveva funzionato a dovere e aveva detonato la dinamite che per
qualche
tempo aveva funto da collante tra una sfumatura e l’altra
della sua identità,
scindendola in mille schegge aleatorie e informi.
-
Non si sveglierà?
-
Non in questo stato. Sarebbe come chiedere a un
mucchio di ossa di mettersi in piedi da sole.
-
Quindi? Cosa farete? C’è qualcosa che si
può fare,
no?
C’era
solo una cosa che si poteva fare.
-
Deve essere delicata. Fare piano, molto
piano.
Il
Guaritore accanto a lei le afferra una mano e la
conduce lentamente verso la fronte di Remus, con la leggerezza tipica
di chi
con quelle stesse dita esegue ogni giorno una diversa operazione
chirurgica.
Tuttavia,
il tipo di di chirurgia che Hermione dovrà
praticare è mentale.
-
Non ci sono porte da aprire o sentieri da percorrere.
Potrebbe imbattersi in qualsiasi cosa, là dentro.
La
fronte di Remus è fredda come il lenzuolo sul quale
è adagiato, e altrettanto spiegazzata. Le cicatrici danno
l’impressione che sia
corrugata perfino nell’incoscienza. Tonks sussulta appena, a
pochi passi di
distanza.
-
Ricordi, traumi rimossi…
Teddy
si aggrappa a una ciocca dei capelli plumbei
della madre con una manina e a un fiore – un pipistrello -
con l’altra. Emette
un verso gorgogliante, simile al singulto di un neonato, un suono tanto
innocente quanto spaventoso.
-
… mostri. Immaginari e reali.
Hermione
annuisce, i pensieri rannuvolati in un unico
temporale di inquietudine. Nel mondo magico i mostri non sono solo
presenze
cupe annidiate sotto al letto: c’è un intero
universo brulicante di creature terribili,
tra le viuzze concitate di Diagon Alley, e nugoli di esseri deformi e
senza
scrupoli, oltre le fronde ombrose di una foresta
all’apparenza innocua.
Se
la magia è in grado di simili stranezze nella
realtà, di che cosa potrebbe essere capace
l’inconscio di un mago?
Di
un licantropo.
-
Non deve…
-
Forzare la mano. Lo so, ho studiato.
Risponde
di riflesso, e se ne rende contro troppo
tardi, quando il Guaritore le sorride in modo lieve e cessa di
impartire
istruzioni. Rimpiange il tono tranquillo e pacato delle sue
informazioni quasi
immediatamente, mentre la sua mano adagiata sulla fronte di Remus
comincia a
divenire sudaticcia per il nervosismo.
Ha
studiato, ma ha idea che l’irruzione nella mente di
una persona, il viaggio attraverso i suoi ricordi e il riassemblamento
della
sua psiche non siano qualcosa che sia possibile apprendere dai libri.
Il
Guaritore solleva la bacchetta e le sfiora una
spalla con una carezza rassicurante.
Sulle
sue labbra, il suo sorriso pare un timbro
dentellato sull’ingresso gratuito a un museo vivente.
-
Delicato. Piano, molto piano, - si raccomanda, prima
di pronunciare l’incantesimo.
Hermione
non ha neppure il tempo di rivolgere un ultimo
sguardo a Tonks prima di sprofondare nel buio, a sedere su una sedia
esile di
fattura grezza. Alle proprie spalle, una parete bianca bordata di
grigio.
L’impatto
è improvviso: Hermione scivola all’indietro
senza neppure avere modo di estrarre la bacchetta dalla borsa, una
tracolla
nella quale ha riposto i volumi che l’hanno accompagnata
durante gli ultimi
giorni. Atterra sul fondoschiena, mentre il mantello si gonfia a
mezz’aria e le
ricade sul viso, ammucchiandosi sulle sue spalle come un immenso
cappuccio.
Puntella
i gomiti sul pavimento e solleva il busto,
stordita, per scorgere con un sussulto ciò che
l’ha assalita mandandola a gambe
all’aria.
Abbracciato
alle sue cosce, il viso affondato tra le
pieghe della sua gonna, c’è un bambino.
Uno
scricciolo alto poco più di un metro, dai folti
capelli castani e con un lungo maglione di lana marrone e sdrucita a
fasciargli
il torace sottile. I numerosi fili tirati si ergono sulla sua schiena
come
minuscole alghe su un fondale.
Un
bambino, nella mente di Lupin.
-
Ehi, - mormora Hermione, protendendo una mano ad
accarezzargli il capo.
Senza
smettere di stringerle le gambe come se ne
andasse della propria salvezza, la zazzera bruna solleva il volto.
È
pallido, smunto: l’alone nero che ristagna nelle sue
occhiaie suggerisce una maturità quasi caricaturale su un
ragazzino così piccolo,
mentre il suo sguardo vispo e le labbra serrate in una smorfia
lacrimosa
sembrano voler preservare a tutti i costi la sua fanciullezza, in uno
strano
intreccio di espressività distorte.
-
Ciao, - gli sorride, cercando di mostrarsi divertita
dalla situazione. È semisdraiata a terra con un bambino di
massimo otto anni
avvinghiato alle gambe, comparso dal nulla come una specie di ariete
invisibile. Se fosse accaduto durante un pomeriggio qualsiasi lungo una
via di
negozi a Diagon Alley, ne avrebbe riso.
Ma
nonostante i numerosi anni trascorsi, il colore
brillante dei suoi capelli – così distante
dall’attuale tinta slavata e ormai
tendente al grigio – e i tratti marcatamente infantili,
Hermione non ha alcuna
difficoltà a comprendere che quello non è affatto
un bambino qualsiasi.
È
la prima delle personalità che dovrà riconciliare
per
fare in modo che Remus si svegli.
-
Ciao. - Il bimbo scioglie il broncio solo per un
attimo, giusto il tempo di pronunciare quell’unica parola, ma
non accenna a
rialzarsi, apparentemente intenzionato a impedire alle gambe sotto di
sé di
muoversi.
Quando
una delle sue manine scivola inintenzionalmente
appena sotto la stoffa spessa della gonna, Hermione avverte qualcosa di
appiccicoso macchiarle il tessuto filigranato dei collant; ne raccoglie
un poco
su un polpastrello, per studiarne le caratteristiche da vicino:
è miele.
Il
bambino – Remus – ha del miele sulle mani.
No,
non su entrambe le mani: una soltanto. Le ditina
della sua mano sinistra sono percorse da densi rivoli dorati e viscosi,
quasi che
invece di immergere il palmo nel barattolo il piccolo avesse utilizzato
un
cucchiaio per farne colare il contenuto sulla propria pelle.
Hermione,
intenerita, lo immagina alle prese con quello
strano gioco, non troppo stupita dal fatto che a
quell’età Remus sia tutto
sommato abbastanza dispettoso.
Deve
essere delicata. Fare piano, molto piano.
-
Sei un tipo goloso, eh? – esordisce scompigliandogli
i capelli, in bilico su un gomito soltanto.
Il
bambino la guarda interrogativo, come se tutto si
fosse aspettato meno che sentirsi porre una domanda del genere.
Hermione,
accigliata, gli indica la mano cosparsa di
miele. – Hai appena fatto uno spuntino?
Remus
non muta espressione, ma scruta con aria confusa
il proprio palmo sinistro. Si porta un polpastrello alle labbra,
scettico. –
Non mi piace, - sbotta dopo averlo ritratto, la bocca contratta in una
smorfia
disgustata. – Non lo so come ci è finito!
Hermione
non può fare a meno di sorridere. – Capisco, -
ridacchia. - I barattoli di miele sono dei veri rompiscatole al giorno
d’oggi.
Per
la prima volta dopo giorni, l’angoscia che l’aveva
assalita al pensiero di quell’impresa comincia a stemperarsi,
sostituita da un
vago senso di fiducia. Nell’osservare quel bambino e il
cipiglio sospettoso
tratteggiato sul suo viso avverte il bisogno di tirare un sospiro di
sollievo.
Puoi
farcela.
Forse
si è preoccupata troppo, e troppo presto.
Sei
forte.
-
Ehi, - aggiunge, ancora sorridente. – Che ne dici di
lasciarmi alzare?
Remus
pare riflettere. – Ma se ti lascio alzare scappi,
- sentenzia infine, amareggiato.
-
E perché dovrei? – Con la mano di cui non ha il
braccio appoggiato a terra, Hermione si slaccia il mantello dalle
spalle. – Non
mi fai certo paura.
Delicata.
Piano, molto piano.
-
La mia mamma è scappata, - mugugna lui in risposta.
–
Lei aveva paura.
-
La tua mamma…?
Solo
in quell’istante Hermione si rende conto di non
sapere nulla dei genitori di Remus. Sa che è divenuto un
licantropo a causa di
una questione in sospeso che suo padre aveva con Greyback, ma quella
è la prima
volta che si ferma davvero a riflettere su che tipo di persone
potessero
essere.
-
Tu non scappi?
-
No, io non scappo.
Remus
stringe nel pugno macchiato di miele la sua
gonna, ma scioglie la presa sulle sue gambe. – Va bene,
– si arrende.
-
Grazie.
Una
volta in piedi, Hermione si concede per la prima
volta un’occhiata all’ambiente circostante: a
occhio e croce sembra un bosco.
Fitto, scuro, informe e rumoroso. Aspetta che anche il piccolo Remus si
alzi in
piedi, issandosi tramite la presa sulla sua gonna – tira
abbastanza forte da
farle scendere il bordo superiore lungo i fianchi – poi si
china in modo da
guardarlo in viso.
-
Perché mai la tua mamma dovrebbe avere paura di te,
mh? Sei un bambino fantastico.
Remus
si incupisce. – Prima sì. Adesso no.
-
Io dico che lo sei ancora.
-
Tu non mi conosci.
-
Forse ti conosco più di quello che pensi.
Affinché
Remus – quello adulto - si possa svegliare,
Hermione deve riconciliare i frammenti di personalità
più prominenti dispersi
nel suo subconscio. Ma “riconciliare” implica che
ve ne sia più d’uno, mentre
per ora tutto ciò che è riuscita a rintracciare
è un ragazzino goloso
evidentemente alle prese con una crisi famigliare.
Che
a otto anni Remus fosse già stato morso da
Greyback? Al solo pensiero viene percorsa da un brivido.
Eppure
tutto ciò che ora può fare è
ascoltare.
-
Dov’è la tua mamma adesso?
…
e cercare di guadagnare la fiducia di un bambino che
tra circa trent’anni deciderà di compiere un gesto
tanto sconsiderato quanto comprensibile.
-
Non lo so, - borbotta lui, puntandosi il mento sul
petto. – A casa, credo.
-
E tu perché non sei a casa?
-
La mamma mi ha detto di tornare domani.
Hermione
fruga nella borsa alla ricerca di un
fazzoletto, per poi afferrare la mano sinistra di Remus e ripulirla
dalle
striature filamentose di miele. – Come, tornare domani?
Continua
a sfregare il palmo del bambino con la
pezzuolina di cotone fino a quando non è di nuovo liscio e
opaco. Lui non
protesta: si limita a supervisionare la sua opera con sguardo vacuo, le
dita
ben separate l’una dall’altra per facilitarle il
lavoro.
-
Non mi piace davvero, - sbotta, quasi considerasse
quel trattamento un silenzioso rimprovero.
Hermione
ripone il fazzoletto sporco di miele nella
tracolla e scuote la testa, sforzandosi di sorridere.
-
Lascia stare, non importa, - lo rassicura,
rimboccandogli la manica del maglione perché il bordo
macchiato non gli sporchi
il polso. - Perché non puoi tornare fino a domani?
– chiede di nuovo, contrita.
Purtroppo
crede di conoscere già la risposta.
Remus
esita un istante, incantato a osservare la punta
delle proprie scarpe.
-
Così guarisco, - bofonchia senza troppa convinzione.
-
Guarisci da cosa? – Hermione avverte una piccola
fitta al pensiero di quanto sta per sentire, ma pone ugualmente la
domanda.
Non
ci sono porte da aprire, o sentieri da percorrere. Potrebbe imbattersi
in
qualsiasi cosa, là dentro.
Remus
stringe i pugni sul bordo inferiore del proprio maglione
e lo tira verso l’alto, abbastanza da coprirsi il viso con la
lana
scarmigliata.
Ma
non è ciò che Hermione non
riesce a vedere a farla sobbalzare, il fiato mozzato in gola,
quanto ciò che quel gesto ha rivelato.
-
Da questo! – esclama Remus al di là del maglione,
con
voce ovattata. Il modo in cui storce in gomiti nel tentativo di tenere
il busto
del tutto scoperto sarebbe quasi comico, se non fosse per la gigantesca
infezione espansa per tutto il suo torace.
C’è
l’evidente segno di un morso sul suo fianco: due
mezzelune insanguinate e purulente, larghe quanto la mascella di un
giaguaro. Le
due
grosse ferite sono disposte a cavallo tra la pancia e la schiena,
proprio come
se il mostro lo avesse afferrato per le estremità del corpo
e avesse affondato
i denti nella sua carne allo stesso modo in cui si divora un pasto
frugale; da
esse si diramano lunghe venature violacee, spesse e leggermente in
rilievo.
Hermione
singhiozza, sentendo gli occhi divenire lucidi
al di là delle palpebre.
-
La mamma dice che se stanotte resto qui, domani non
ci sarà più, - prosegue Remus, tranquillo. Poi
sbircia oltre il bordo del
maglione, per appurare che Hermione abbia già goduto a
sufficienza di quella
visuale, ansioso di riabbassare le braccia. Deve notare la sua
espressione
affranta, perché mentre si cala di nuovo il maglione sul
busto è ancora più
imbronciato di quanto non lo fosse quando le ha assaltato le gambe.
-
Lo so che è brutto, - farfuglia. Si siede a terra tra
le foglie, le gambe incrociate. – Anche la mia mamma lo
pensa.
Hermione,
il cuore che si contrae quanto uno straccio
sporco di fango steso al sole ad asciugare, si affretta a imitarlo e si
inginocchia in mezzo alle sterpaglie.
-
No, no, no, no, - esclama, deglutendo il nodo che le
serra la gola.
La
mamma dice che se stanotte resto qui, domani non ci sarà
più.
Quella
notte ci sarà la luna piena.
-
Non è brutto, - squittisce con quel poco di voce che
le rimane. – È che… - Non è
brutto, è orribile.
Raccapricciante. Ma lei si trova lì per aiutare quel
bambino, non per lasciarsi
stordire dai sentimentalismi e scoppiare in lacrime alla prima
difficoltà.
Inspira a fondo. - … deve fare male. La tua mamma non ha
provato a curarlo?
Dobbiamo curarlo.
-
Ci ha già provato il papà, non funziona!
– Remus sbatte
una mano aperta sul terreno e le foglie scricchiolano sotto il suo
palmo. –
Sono venute fuori quelle cose viola! E poi faceva ancora più
male! Mi ha detto
di venire qui, che così guarisce.
Da
solo, in quel bosco, durante una notte di luna
piena. La madre di Remus ha ragione: il mattino seguente quel morso non
ci sarà
più, perché la trasformazione sarà
già avvenuta. Ma non sarà guarito:
sarà
diventato a tutti gli effetti un licantropo e avrà
affrontato la sua prima
metamorfosi da solo, al buio.
-
Mi ha portato qui e poi è scappata, - prosegue il
bambino in un sussurro, il viso chino e la frangia troppo lunga a
velargli gli
occhi.
La
sera sta calando velocemente. La luce azzurrata che
fino a poco fa abbracciava le chiome del bosco sta pian piano
cominciando a
tingersi di scuro, come l’acqua in cui è stato
lavato un pennello sporco di
tempera blu.
Hermione
stringe la bacchetta nel palmo, mordendosi
forte un labbro.
-
Ci resto io con te.
Non
riesce a credere che i genitori di Remus siano
stati capaci di tanto. Sua madre l’aveva abbandonato al
limitare di una foresta
appena prima della trasformazione? Che razza di comportamento disumano
era?
Eppure a Hogwarts avevano fatto il possibile perché ogni
mese potesse contare
su un rifugio sicuro: un coinvolgimento tale dei professori e dei fondi
scolastici – la Stamberga Strillante celata dal Platano
Picchiatore doveva
essere stato un intervento dispendioso – non poteva essere
stato semplicemente
frutto del buon cuore di Silente.
In
ogni caso, adesso sa che cosa deve fare. Non
permetterà a un bambino i cui anni si contano sulle dita di
due mani di vivere
un’esperienza tanto traumatica da solo.
-
Rimango qui fino a quando la tua mamma non torna a
prenderti.
Remus
solleva lo sguardo, una luce speranzosa negli
occhi, quasi che a tirarlo su di morale fosse non tanto la
possibilità di non essere
abbandonato ancora una volta, quanto quella che qualcuno
tornerà a prenderlo.
Nella penombra le sue occhiaie non sono più così
evidenti, ma danno comunque
l’impressione che stia per crollare dal sonno da un momento
all’altro.
-
Davvero? – mormora, stropicciandosi il viso con i
pugni come se avesse pianto.
Hermione
gli afferra una mano e la stringe tra le
proprie. - Davvero. Non mi muovo di un passo. Rimango qui
finché non è tutto
finito.
-
Fino a quando non sono guarito?
Hermione
sente la determinazione scivolarle lungo la
linea delle spalle insieme al proprio sospiro. –
Remus… - comincia, per poi
interrompersi.
Delicata.
Piano, molto piano.
Potrà
davvero rivelargli cosa si cela in realtà dietro
quel morso senza andare troppo forte?
Ma
il bambino risolve quel quesito per lei: raccoglie
una manciata di foglie con la mano libera, stringendole nel palmo, poi
le
lascia scivolare di nuovo a terra, sbriciolate. - Non guarisco
più, vero? –
sussurra tra i denti.
Hermione
serra la presa sulle sue dita.
-
Tesoro, non è qualcosa dal quale si possa guarire.
–
Gli affibbia quel nomignolo senza neppure accorgersene, per poi
accigliarsi al
pensiero di quanto sarebbe strano chiamare allo stesso modo la versione
adulta
di quello scricciolo arruffato. Riporta la mente all’immagine
di Remus, –
l’eroe di guerra, il professore e padre di famiglia
– disteso su quel letto
d’ospedale con una graticola di ombre sul viso, a Tonks e
Teddy al suo
capezzale, e per un attimo le pare di sentire vibrare il suono
cristallino del
sonaglio appeso alla porta, come se qualcuno l’avesse appena
spalancata.
Quell’intrusione
del mondo esterno – quello reale - le
inietta un brivido di paura sottopelle. O forse è il
pensiero che di lì a poco
le dita che stringe tra le mani si trasformeranno in artigli?
-
Farà male per sempre? – Il tono di Remus
è abbastanza
ingenuo e genuinamente affranto da provocarle una forte fitta al cuore.
-
No, non per sempre. – Hermione preme i pollici nel
suo palmo. – Non c’è niente che faccia
male per sempre. Farà male un po’, farà
male tanto, all’inizio.
Ma tu sei un
bambino forte. Puoi sopportare tutto.
Remus piega le
labbra in una smorfia lacrimosa. – Ma non è vero!
-
Sì che è vero. Io ne sono sicura.
-
Tu sei sicura di tante cose.
A
quelle parole, Hermione azzarda un sorriso. – Non poi
così tante, - mormora, l’eco del tintinnio del
sonaglio ancora nelle orecchie.
Puoi
farcela.
-
Ascolta, - esclama poi, molleggiando sulle ginocchia.
Se non può evitare a quel bambino l’esperienza
terribile della metamorfosi,
forse può almeno rendergliela più sopportabile.
Si
distende sul prato, tra le foglie scricchiolanti,
poi fa cenno a Remus di imitarla, cercando di vincere la sua titubanza
con un
sorriso ancora più aperto.
La
luna sopra di loro non è che uno spettro pallido nel
cielo ancora turchese. Quando il bambino segue le sue istruzioni e si
sdraia
goffamente a terra, Hermione solleva un braccio e la indica con
l’indice teso.
-
La vedi?
Remus
annuisce piano, ma sul fondo della sua gola risuona
un roco brontolio, quasi animalesco.
Hermione
ripensa alla notte di molti anni prima,
all’interno della Stamberga Strillante, alle parole
dell’allora Professore di
Difesa contro le arti Oscure e poi a quelle dell’attuale
bambino scarmigliato.
“Le
mie trasformazioni in quei giorni erano… erano terribili.
È molto doloroso
trasformarsi in un Lupo Mannaro. Non avevo intorno degli umani da
mordere, così
mordevo e graffiavo me stesso.”
-
Quando diventerà bianca e brillante comincerai a
sentirti strano. Probabilmente ti senti già
strano, non è vero?
Remus
annuisce soltanto, le labbra strette in una linea
sottile.
-
Ecco, ti sentirai più
strano. Il tuo corpo inizierà a fare i capricci: ti
sembrerà che non voglia
ubbidirti più.
-
Farà male?
Hermione
cerca la sua mano tra le foglie e torna a
stringerla. – Sì, farà male. Ma tu sei
forte, e io rimango qui con te tutto il
tempo.
-
Una volta mio padre ha sbagliato un incantesimo e si
è tagliato un dito. Fa male così?
Ha
l’aria spaventata, come se quella fosse l’immagine
più dolorosa che sia stato in grado di richiamare alla
mente.
Hermione
inspira a fondo. Fa male così?
La verità è che non ha la più pallida
idea di quanto
faccia male. Struttura ossea che si deforma, pelo che cresce, pelle che
si
squarcia… forse fa più
male di
così.
-
È un male diverso, - risponde allora, premendo la
mano piccola di Remus sull’erba. – Ma dopo passa. E
quando finisce le dita le
hai ancora tutte.
Il
bambino sembra sollevato.
Hermione
sposta lo sguardo sul suo addome, chiedendosi
come mai abbia accennato all’incidente del padre piuttosto
che alla propria
ferita.
Poi,
inizia. All’improvviso, come una clessidra
capovolta che comincia a far scorrere sabbia in senso contrario, la
notte si fa
cupa, densa, e la luna che fa capolino tra le fronde da una pallida
ombra opalescente
diviene un grande occhio luminoso aperto
sull’oscurità, puntato direttamente su
di loro.
Remus
prende ad ansimare in modo spasmodico, la mano
artigliata a quella della ragazza in una morsa di terrore, il petto
scosso dai
singhiozzi.
Hermione
sobbalza, colta alla sprovvista, mentre il bambino
al suo fianco emette un lungo gemito straziato e si rannicchia su se
stesso,
trascinando le sue dita con sé all’interno di quel
gomitolo contratto di
dolore.
Sta
già succedendo. Perché diavolo sta già
succedendo?
Sei
forte.
-
Remus! – grida. Si schiaccia contro il terreno, una
guancia premuta sull’erba in modo da riuscire a vedere il
piccolo direttamente
in volto. – Guardami. Per favore, guarda me.
È
buio, e gli occhi del bambino non sono che un fioco
luccichio nel nero, ma Hermione riesce comunque a scorgerli tra un
battito di
ciglia e l’altro.
-
Lo senti, vero? Il corpo che fa i capricci, che non
ti ubbidisce più?
L’unica
risposta che riesce a ottenere è un roco
ululato di dolore.
-
Ma sei più forte tu, Remus. Lo so che fa male, ma sei
più forte tu.
La
presa del bambino sulla sua mano diventa una
tagliola di carne e ossa, da quanto è stretta. Qualche
parola gorgogliata viene
inghiottita da una crisi isterica di pianto. Quando i gemiti cominciano
pian
piano a somigliare sempre di più a versi indistinti e
inumani, strani ibridi
tra latrati e vagiti, Hermione sa che se anche Remus volesse parlare
non ne
sarebbe più in grado.
-Io
sono qui, rimango qui, - esclama, avvicinandosi al bambino
e abbracciandolo con forza.
La
sensazione che la assale subito dopo averlo fatto le
mozza il fiato: c’è un terremoto vivente sotto il
suo petto. Gli spigoli sul
corpo di Remus si innalzano e affondano nella sua pelle alla stessa
velocità
con la quale una tazza di porcellana si infrange sul pavimento, ogni
frammento
un osso differente che muta posizione e conformazione.
D’un
tratto, l’eco sottile del sonaglio udito poco
prima si moltiplica e si fraziona in decine di tintinnii, come se
appesa a
quella porta d’ospedale non vi fosse una sola sferetta
dorata, ma due, tre,
dieci, cento.
Quante
persone stanno entrando e uscendo? Sono
Medimaghi? Qualcosa è andato storto?
Per
un attimo si ritrova a pensare a cosa accadrebbe se
il bambino che sta abbracciando dovesse ucciderla, una volta ultimata
la
trasformazione. Morirebbe solo in quella dimensione o anche nella
realtà?
A
pochi centimetri dalla propria mano, ancora stretta
nella morsa di Remus, avverte un poderoso alito di fiato caldo. Sente
il vecchio
maglione di lana sgualcita del bambino lacerarsi, i pantaloni
strapparsi, il
pelo avanzare a ricoprire la pelle nuda. Il fiato diventa saliva, che
le
inumidisce le dita poco prima che queste finiscano premute contro la
coltre di
pelliccia ispida che ora riveste un torace non più magro, ma
largo quanto
quello di un giovane uomo.
Hermione
sa che se allungasse appena i polpastrelli
riuscirebbe a toccare un muso allungato e due larghe file di denti
aguzzi,
eppure non cerca di ritrarsi, né di fuggire.
-
Dopo passa, - si limita a ripetere, le lacrime che si
infrangono su un manto di pelo grigio. – Dopo passa.
È
ancora viva.
Se
ne rende conto quando avverte i fili d’erba bagnata
solleticarle
i piedi attraverso i collant. Ha la netta impressione di aver perso le
scarpe e
di avere le calze strappate in più e più punti,
tanto che un brivido freddo le
percorre le cosce, infilandosi fin sotto la gonna.
Ma
soprattutto se ne rende conto quando qualcosa
sotto di lei si muove, e la
stretta delle sue braccia si allenta attorno a un busto estraneo,
liscio e
nudo.
Solleva
le palpebre con riluttanza, senza davvero
desiderare di svelare il mistero che si cela al di là di
quell’insieme di
sensazioni poco familiari, grata di avere ancora entrambe le mani per
sfiorare
quei piccoli tratti di pelle, le orecchie per udire il fischio sottile
del
vento tra le foglie, le labbra per avvertire il solletichio di una
ciocca di capelli
premuta contro la bocca. Una ciocca di capelli che non le appartiene.
Quando
finalmente riesce a mettere a fuoco il luogo in
cui si trova, e soprattutto con chi, non riesce a trattenere un
sussulto.
C’è
un ragazzo, tra le sue braccia.
Non
più un bambino, non più uno scricciolo dalla
zazzera castana. Un giovane, alto e maturo seppure non troppo lontano
dall’adolescenza, addormentato.
Senza
l’ombra di un vestito addosso.
Raggomitolato
sul terreno con le ginocchia attirate contro
il petto e la testa abbandonata di lato sulle rotule nella propria
nudità, appare
tanto indifeso quanto intimidatorio. E Hermione lo sta abbracciando.
Istintivamente
sobbalza all’indietro, incespicando
sull’erba scivolosa di pioggia – è
piovuto? – e prendendo consapevolezza del
fatto di avere davvero le calze
rotte
in più e più punti, nonché di essere davvero
scalza, per qualche strana ragione.
Il
suo movimento improvviso deve disturbare il ragazzo,
che solleva il viso dalle ginocchia e la guarda con gli occhi socchiusi
ancora
velati di sonno.
È
Remus.
Cresciuto,
dai lineamenti più marcati e il corpo più
magro e spigoloso, ma sempre lui. Sempre lo stesso bambino con le mani
sporche
di miele, sempre lo stesso adulto con una graticola di ombre sul viso.
Con una
decina d’anni in più, e una ventina
d’anni in meno.
La
seconda identità.
Nel
vederla le sue pupille paiono restringersi nel nucleo
delle sue iridi per lo spavento. Sussulta abbastanza forte da dare
l’impressione
di trovarsi di fronte a un Orco delle praterie, ma, nelle proprie
condizioni,
non può fare altro se non serrare le braccia attorno alle
ginocchia, nel
tentativo di impedirle di vedere più di quanto
già non veda.
Per
un istante rimangono entrambi immobili, occhi negli
occhi, boccheggianti.
Non
ci sono porte da aprire, o sentieri da percorrere. Potrebbe imbattersi
in
qualsiasi cosa, là dentro.
Poi
Hermione si riscuote.
Guardandosi
attorno nota il proprio mantello, poco
lontano, sepolto per metà da un cumulo di foglie umide.
Grazie al cielo ha
ancora la tracolla appesa al busto, così fruga tra i libri
alla ricerca della
propria bacchetta, lanciando di tanto in tanto uno sguardo a Remus
– quello con
il busto magro ma le spalle larghe, il viso smunto ma la mascella ben
delineata
e le mani grandi come ragnatele – per assicurarsi che non
fugga.
Quando
infine la vede estrarre vittoriosa la bacchetta
dalla borsa, il ragazzo si irrigidisce.
-
Aspetta, - prorompe, allarmato. Ha una voce più ruvida
rispetto al Remus adulto e incredibilmente più profonda in
confronto al Remus
bambino. – Non voglio farti niente. Io non so cosa…
Hermione
sente un sorriso spontaneo affiorare alle
labbra. Chissà cosa deve pensare Remus in quel momento:
forse è convinto di
averla rapita nella propria forma animale e di averla trascinata in
quella
radura, in un remake di cattiva qualità dei film cult
Babbani. E sicuramente è
convinto di apparire una specie di maniaco ai suoi occhi, nudo come
natura l’ha
fatto in mezzo a un nugolo di foglie fradice.
-
No! – si affretta a spiegare allora, cercando di
chiarire il malinteso. – Neanch’io. Voglio
solo… aspetta.
Si
allunga ad afferrare il mantello, sporco e bagnato,
poi lo scrolla meglio che può da rametti, fili
d’erba e sterpaglie, sotto lo
sguardo vigile e ansioso del ragazzo.
Bacchetta
alla mano, sussurra un incantesimo: la
stoffa, leggermente increspata da un alito di vento caldo, si asciuga
in pochi
istanti e riacquista la propria tinta originale, un grigio pallido e
uniforme.
Hermione
lo ripiega in malo modo tra le braccia,
soddisfatta, poi si avvicina a Remus e glielo tende.
-
Tieni, - esclama, piegandosi sulle ginocchia, le
braccia che reggono il mantello distese nella sua direzione. Una delle
smagliature sui suoi collant si allarga ulteriormente, scoprendole
buona parte
della coscia.
Un
ragazzo nudo e una ragazza sporca, bagnata,
arruffata, senza scarpe e con le calze strappate. Lo scenario in
effetti non è
dei migliori.
Remus
osserva la massa informe di tessuto come se si
aspettasse di vedere la mano di un Dissennatore spuntare tra le pieghe
da un
momento all’altro.
-
Grazie, - mugugna infine, più sbalordito che grato.
Si avvolge il mantello attorno alle spalle, lanciandole brevi occhiate
furtive:
è evidentemente preoccupato, anche se non si attenta a dare
voce alla propria
angoscia.
L’espressività
di quel viso è così diversa da quella
del bambino imbronciato di poco prima – o anni prima?
– che Hermione si perde a
osservarne i tratti, immaginando quel volto giovane e liscio percorso
dalle
cicatrici che lo deturperanno in futuro, per poi lasciarsi cullare dal
pensiero
di quanto invece il suo sguardo assomigli ancora a quello del piccolo
Remus:
dolce, profondo, spaventato.
-
Io… - lo sente balbettare, imbarazzato, ma non gli
dà
modo di proseguire.
-
Lo so, - lo rassicura. Il terreno bagnato le
solletica le piante dei piedi: arriccia le dita sull’erba,
mentre un brivido
freddo le scorre lungo la schiena. – Non
c’è bisogno che mi spieghi niente.
Remus
corruga le sopracciglia, sconcertato. Non sembra granché
più tranquillo.
-
Io non ti ho… - scandisce lentamente, percorrendo la
sua figura scarmigliata con un’occhiata fugace. –
Vero?
Nonostante
la domanda non sia delle più chiare,
Hermione crede di intuire che cosa intenda.
-
No, - risponde decisa, determinata a dissipare ogni suo
dubbio. – Non mi hai fatto niente. Niente di niente.
Remus
pare sollevato, ma continua a scrutarla con
malcelato sospetto, come se si stesse chiedendo cos’altro
oltre a un Lupo
Mannaro selvatico possa averla ridotta in quello stato. Forse non le
crede, o
forse ritiene che sia pazza.
-
Sto bene, -
ribadisce Hermione. Sia fisicamente che
mentalmente, vorrebbe specificare. – Vorrei
solo… - Si guarda intorno,
appurando il fatto che non si trova più nella stessa
foresta, nonostante gli
alberi fitti e la penombra. - … trovare le mie scarpe.
Ma
dei suoi mocassini, in quella specie di campo di
battaglia di sterpaglie e umidità, non
c’è traccia.
-
Le avrai perse scappando, - commenta Remus, amareggiato,
stringendosi nel mantello. Non si è rilassato un solo
istante da quando aprendo
gli occhi l’ha vista e Hermione non lo può certo
biasimare.
Svegliarsi
nudo in una radura in compagnia di una
ragazza che pare essere appena uscita da un’incontro
ravvicinato con – beh, un Lupo
Mannaro e sapere di essere con ogni
probabilità il potenziale responsabile di ben più
di un paio di scarpe perdute
non dev’essere piacevole.
-
Non sono scappata, - sbotta Hermione d’istinto, senza
in realtà ricordare nulla di ciò che
l’ha condotta in quel luogo, e soprattutto
in quel tempo. Pensava di dover essere lei ad avventurarsi tra i
meandri più
nascosti della mente di Remus, non di essere catapultata da
un’identità
all’altra senza poter fare nulla a riguardo.
Il
ragazzo che le si trova di fronte in quel momento
avrà almeno diciotto, diciannove anni: per quale motivo
l’inconscio di Remus
l’ha trasportata tanto lontano dalla personalità
precedente?
Dieci
anni in un secondo: forse le sue calze potrebbero
essere anche più rotte di così.
-
Devi avere un istinto di preservazione piuttosto
malandato, allora. - Remus
si stringe
maggiormente il mantello attorno al corpo e si alza in piedi,
incrociando le
braccia sul busto. – Avrei potuto ucciderti.
Hermione
scalpiccia i piedi tra le foglie bagnate. –
Cuore Grifondoro, - ridacchia. – Sono abituata a rischiare la
vita in imprese
impossibili.
Remus
si irrigidisce per l’ennesima volta. – Sei una
studentessa di Hogwarts?
-
Lo ero. Mi sono diplomata l’anno scorso. – Le
parole
le sfuggono di bocca prima che possa mordersi la lingua.
Uno
sguardo sbilenco. – Anch’io. E non ti ho vista a
Grifondoro, né in nessun’altra Casa.
Hermione
si raddrizza la tracolla sul petto,
giocherellando nervosamente con la cinghia. Questo
perché tu hai frequentato la mia stessa scuola
vent’anni prima di me, pensa
con un gemito.
-
Diciamo che ho un segreto anch’io, - risponde invece,
sperando che possa bastare.
Remus
pare sul punto di ribattere qualcosa – il suo
petto si gonfia, le sue labbra si schiudono – poi, quasi
avesse realizzato solo
in quel momento di trovarsi in una situazione troppo compromettente per
potersi
permettere di indagare più a fondo, si limita ad annuire,
nervoso.
-
Sei sicura di stare bene? – chiede dopo un lungo
istante di silenzio. – Io non… era da tanto che
non mi succedeva. Di solito non
sono da solo nelle notti di luna piena.
Hermione
gli sorride appena. – Non mi hai fatto niente.
Sto bene. – Ridacchia. – Vorrei solo un paio di
scarpe.
Remus
deglutisce vistosamente, per il sollievo o forse
per l’imbarazzo. – Io avrei una… Non
è proprio una casa, ma
è qualcosa,
poco lontano da qui. – Si porta una mano sulla nuca, ben
attento a mantenere
sollevato il mantello, e si scompiglia i capelli con fare ansioso,
guardandola
di sottecchi. - Lì ho dei vestiti puliti, magari troviamo
anche qualcosa che ti
vada bene.
Il
trillo di un altro sonaglio risuona in lontananza,
oltre i tronchi scuri del bosco.
-
Magari, - accetta Hermione, i pugni stretti attorno
alla cinghia della tracolla.
E
cominciano a camminare in quel modo, a piedi nudi
sull’erba bagnata, mentre l’ombra della luna
sbiadisce all’orizzonte.
Il
qualcosa
di cui parlava Remus è un minuscolo casino da caccia in
muratura, sbilenco e
crepato in più e più punti. A Hermione ricorda
vagamente una versione
miniaturizzata e di pietra della Tana: Remus la guarda stranito nel
vederla
sorridere da zigomo a zigomo dopo averlo scorto nel bel mezzo di un
prato
incolto, ma Hermione non riesce a trattenersi. La Tana è
andata distrutta durante un
feroce scontro almeno un anno e mezzo
prima, e la villetta che il Ministero ha fatto edificare al suo posto
in
memoria dei caduti della famiglia Weasley non ne è che una
pallida imitazione,
la riproduzione Carnevalesca a fronte di un originale vissuto e
graffiato.
Le
scalette che conducono alla porta d’ingresso sono di
duro granito, ma ciononostante parecchie fenditure e un numero
indefinito di
solchi percorrono ogni singolo gradino. Una parte del corrimano
è incrinato e
spaccato, troncato più o meno a metà, mentre
un’altra pende inerte da una
grossa asta flessibile di ferro battuto.
-
Vieni qui per trasformarti? – chiede Hermione
seguendolo sugli scalini, evitando una crepa dall’aria
particolarmente
minacciosa. Nel puntare lo sguardo verso il basso per tutelare i propri
piedi
da spiacevoli incidenti si accorge di quanto siano sporchi: si
vergognerebbe,
se quelli di Remus non fossero in condizioni anche peggiori.
-
L’ho fatto solo una volta, - risponde il ragazzo,
senza voltarsi. Parla velocemente e con un filo di voce, a disagio.
– Vado da
un’altra parte. In quel
posto non ti
ci avrei portata.
Hermione
ripensa ai graffi sui gradini: una sola
trasformazione, tutti quei danni. Del resto ricorda più che
bene le condizioni
della Stamberga Strillante, a Hogwarts. Per Remus deve essere stata
dura
trovare un altro nascondiglio dove rinchiudersi nelle notti di luna
piena senza
dare nell’occhio. Anche se a quanto pare l’ultimo
che ha trovato non è troppo
sicuro, visto il modo in cui è riuscito a fuggire e a
vagabondare per i boschi.
Io
non… era da tanto che non mi succedeva. Di solito non sono
da solo nelle notti
di luna piena.
Quella
notte James, Sirius e Minus non sono stati con
lui.
Che
sia per quel motivo che lei si trova lì?
La
porta del casino si apre con un cigolio sinistro,
sfregando contro il lastricato. Remus l’ha aperta con una
chiave raccolta da
sotto un sasso: a quanto pare è abituato a non avere addosso
indumenti e tasche
in cui tenerne una e quindi a dover fare a meno della bacchetta, di
tanto in
tanto.
Hermione
si lascia condurre all’interno, curiosa ed
emozionata. Si sente le dita cosparse di farfalle, desiderosa di
toccare ed
esplorare ogni cosa.
Le
pareti sono foderate di fotografie, il pavimento di
tappeti. Aprendo l’uscio, quello che fronteggia
l’ingresso si è arricciato su
se stesso: un panno intrecciato sui toni del marrone e del rosso,
costellato di
piccoli e confusi rombi gialli, quasi qualcuno avesse steso a terra un
maglione
extra-large della signora Weasley. Hermione si scopre a osservarlo
incantata
senza un motivo in particolare, rischiando perfino di inciamparvi.
Il
resto della casa è un collage disordinato di
immagini e colori: cornici sbilenche, strani soprammobili, cimeli
ridicoli
esibiti come trofei. Su una mensola storta di legno massiccio giacciono
un paio
di corna che con ogni probabilità devono essere appartenute
alla forma animale
di James.
Hermione
sorride tra sé e sé al pensiero di quanto quei
quattro debbano aver riso, quando Ramoso ha perso
le corna alla fine della stagione degli amori.
A
Harry piacerebbe così tanto questo posto, pensa,
osservando
affascinata le foto di gruppo che tappezzano le pareti.
L’ennesimo
“puoi
farcela” le rimbomba tra un timpano e
l’altro, costringendola a chiudere
gli occhi e a massaggiarsi le tempie.
-
Di là c’è il ba… stai bene?
– sbotta Remus,
cominciando a raccogliere vestiti da un attaccapanni sgangherato.
-
Sto bene, sto bene.
Pochi
minuti dopo ha i piedi immersi in una tinozza
nera ricolma fino all’orlo di acqua calda, grata che non sia
bianca così da non
vedere chiaramente la sporcizia sulla superficie ormai non
più trasparente, mentre
Remus è seduto al suo fianco, pulito - in virtù
di un incantesimo veloce ed
efficace pronunciato con abitudinaria sicurezza - e soprattutto
vestito.
Hermione
avrebbe potuto seguire il suo esempio e rassettarsi
magicamente, ma lui ha insistito che mettesse ammollo almeno i piedi,
gonfi,
lerci ed escoriati dopo la passeggiata tra gli arbusti.
Chissà
dove sono finite le sue scarpe.
Dopo
aver riscaldato per la seconda volta l’acqua nella
tinozza, Remus appoggia sul cuscino del divano di fianco a lei una
salvietta e
quelli che a occhio e croce sembrano pantaloni di velluto, per poi
adagiare a
terra un paio di pantofole rosa.
-
È roba della fidanzata di un mio amico, - si
giustifica. – Ogni tanto lo accompagna qui e rimane per
qualche giorno. Lo
chiamano “il campeggio dei lupetti”. Non so se hai
presente, è una cosa
Babbana. L’ultima volta si è…
Ma
si blocca, interrotto da un pensiero.
-
Non mi sono presentato, - sentenzia con un sospiro. –
Sono un coglione.
Hermione
sorride: al momento sul volto di Remus c’è
un’espressione molto buffa. E dolce.
In
effetti avrebbe dovuto pensarci: nonostante lei sappia
perfettamente il suo nome, nonché molte cose che di sicuro
ben poche persone in
quegli anni conoscono di lui, ai suoi occhi lei è una
completa sconosciuta.
-
Io sono Hermione, - mormora tranquillamente per
stemperare l’imbarazzo.
-
Remus.
Quando
i loro palmi si toccano, in una timida stretta
in bilico tra una tinozza d’acqua calda e un paio di
pantofole rosa, Hermione
sente i piedi galleggiare sotto di sé, le gambe intorpidite.
Le
mani di Remus sono grandi come ragnatele: catturano
tutte le farfalle sui suoi polpastrelli, una ad una, impedendole di
ritrarre le
dita.
È
come incontrarsi per la prima volta.
I
pantaloni di velluto sono tiepidi sulle sue gambe e
le pantofole sono esattamente del suo numero, di una morbidezza
familiare e
rassicurante.
È
roba della fidanzata di un mio amico.
Sta
forse indossando i vestiti di Lily? Le sembra quasi
di essere lei la ragazza che li ha dimenticati in quel cubicolo, tanto
se li
sente perfetti indosso.
Hermione
stringe tra i palmi la tazza di tè che Remus
ha preparato mentre lei si cambiava, sfregando il pollice su una
sbeccatura
tagliente del bordo. Si morde un labbro, poi lo appoggia sulla ruvida
escoriazione della ceramica e lo lascia scivolare appena avanti e
indietro, con
l’impressione di stare riassaporando una vecchia sensazione
passata.
Si
accorge dello sguardo incuriosito di Remus troppo
tardi e sobbalza, cercando di celare quello strano comportamento
bevendo un
sorso di tè.
Si
scotta la lingua, ma non lo dà a vedere. Piuttosto
solleva gli occhi sul volto del ragazzo, che ora la sta scrutando quasi
tristemente. Forse si lascia contagiare dalla sua malinconia, o forse
desiderava
semplicemente chiederglielo fin dall’inizio, ma dopo una
breve pausa silenziosa
Hermione si appoggia la tazza sulle cosce e prende un respiro profondo.
-
La prima volta…
ha fatto molto male?
Mentre
l’eco delle urla del bambino udite appena qualche
ora – anno – prima le rende più amaro il
sorso di tè appena ingollato, un altro
sonaglio trilla nelle retrovie della sua coscienza.
Remus
si attira un ginocchio al petto e puntella il piede
sul cuscino del divano. – Da morire, - risponde, limpido.
-
Eri da solo?
-
All’inizio sì. All’epoca avevo solo
sette anni, e mia
mamma è Babbana. Era terrorizzata. – Parla piano e
con tono assorto, quasi non
riuscisse a credere di stare davvero confidando certe cose a qualcuno.
– Dopo
una settimana di tentativi inutili di far sparire il morso, la prima
notte di
luna piena mi ha portato in un bosco lontano dal villaggio e mi ha
detto di
tornare a casa il mattino dopo. Poi si è sentita in colpa ed
è tornata
indietro.
Hermione
ascolta con attenzione. Dunque è così che
è
andata: alla fine la madre di Remus è tornata a prenderlo.
-
E tu non sei più riuscito a perdonarla.
Dovrà
esserci un motivo, se il suo inconscio l’ha
condotta proprio in quel tempo, in quel momento.
Remus
scuote il capo al di là della tazza fumante. –
Certo che l’ho perdonata. Era disperata, non sapeva cosa
fare. – Le occhiaie
sotto i suoi occhi paiono stemperarsi al pensiero della madre, tanto
che
Hermione se ne sente quasi gelosa. – È Babbana,
aveva paura che uccidessi
qualcuno nel villaggio. Non girano esattamente delle belle storie sui
Lupi
Mannari, e la maggior parte di esse sono vere.
Rimane
in silenzio per alcuni istanti, durante i quali
il Lumos galleggiante lanciato sul lampadario oscilla ed emana un
chiarore a
tratti più fioco, poi riprende a parlare.
-
A volte per la disperazione si fanno cose
sconsiderate. Soprattutto quando il problema sono le persone a cui vuoi
bene.
All’improvviso,
un altro stormo di sonagli comincia a
trillare nella mente di Hermione. È come una chiamata alle
armi, uno squillo di
trombe della cavalleria poco prima che inizi la battaglia. Il suono,
così
penetrante e aggressivo, la turba a tal punto che la tazza le scivola
dalle
mani e ruzzola sul divano, macchiandolo, per poi cadere a terra e
rotolare sul
tappeto.
Il
tè si spande a macchia d’olio sulla federa scura e
un fuoco artificiale di schizzi si infrange sul pavimento.
Solo
allora Hermione si riscuote, gli occhi per qualche
strano motivo ricolmi di lacrime.
Puoi
farcela,
ripete Harry in un anfratto lontano della sua
coscienza. Sei forte, aggiunge Ron.
Ma
ciascuna di quelle affermazioni non fa che trasmetterle maggiore
angoscia,
riducendola carponi sul tappeto.
-
Ehi, - esclama Remus, subito al suo fianco.
-
Mi dispiace, - singhiozza Hermione. Senza che possa
fare nulla per frenarle, le lacrime cominciano a solcarle le guance.
– Mi
dispiace tanto.
Che
cosa le sta succedendo?
Che
cos’è quella sensazione?
Remus
la afferra per le spalle, costringendola a
rialzarsi in piedi. – Non fa niente, - cerca di rassicurarla,
raccogliendo la
tazza e appoggiandola su un tavolino traballante poco distante da loro.
– Si
sistema. Si sistema tutto.
Hermione
emette un altro singulto, il cuore
accartocciato nella cassa toracica. Sono
i sonagli. Sono quei maledetti sonagli: la faranno impazzire.
Raccoglie
la tracolla dal divano, dove ha riposto la bacchetta.
– Adesso pulisco, - balbetta, frugando tra le pagine di uno
dei tomi che ha
portato con sé. Le sue dita brancolano a vuoto,
così abbranca i libri e li
estrae della borsa per poi abbandonarli in malo modo su
un’isola asciutta di
pavimento, riprendendo la propria ricerca con ancora più
foga.
-
Hermione, - la interrompe Remus, stavolta con maggior
vigore.
La
ragazza si immobilizza, guardandolo dal basso verso
l’alto, il fiato corto e le guance bagnate.
-
Lascia stare, - mormora lui, gentile. – Le macchie verranno
via meglio da asciutte. – Le indica l’altro divano,
quello sul quale stava
seduto poco prima, e la spinge delicatamente in quella direzione.
– Tu siediti
qui, e stai tranquilla.
Qualche
schizzo di tè si sta allungando pericolosamente
in direzione dei libri, così Remus si china a raccoglierli,
maneggiandoli come
solo chi li ama almeno quanto lei potrebbe fare.
Si
siede al suo fianco a una distanza ragionevole, ma
la vicinanza è sufficiente a inviarle un lungo brivido caldo
su per la schiena.
Hermione,
ancora turbata, lo osserva accarezzare la copertina
del primo dei due manuali. Trattiene il fiato.
Se
dovesse intuire qualcosa…
Deve
essere delicata. Fare piano, molto piano. Non deve forzare la mano.
-
Dissociazione della personalità, eh? Hai scelto una
specializzazione originale.
Incuriosito,
Remus sfoglia distrattamente le prime
pagine, una luce sibillina negli occhi. In quell’unico
momento, nell’espressione
intrigata sul suo viso, Hermione riesce a scorgere tutta la
serenità che non ha
mai avuto modo di vedere sul volto dell’uomo che giace in un
letto d’ospedale a
un’intera dimensione da lì.
Nei
suoi lineamenti spigolosi eppure ammorbiditi dalla
giovinezza, scorge qualcosa di Tonks: un cenno di sconsideratezza,
forse. Di
irriverenza. Che sia quella minuscola scintilla ad averli resi tanto
uniti?
Eppure il suo viso è mille volte più interessante
di quello di Tonks.
Hermione
inspira a fondo e abbandona il capo sull’imbottitura
del divano, finalmente tranquilla.
-
Non ti sto aiutando affatto, - esala in un soffio,
attirando le ginocchia di lato sui cuscini di tessuto grezzo e liso.
Fortunatamente non ha macchiato né i pantaloni né
le pantofole.
A
un’occhiata interrogativa di Remus, sorride appena.
–
Io dovrei aiutarti, - ripete, mesta. – Farti sentire meglio.
Lui,
di tutta risposta, comincia a ridere. – E perché
mai? Sono io quello che ti ha aggredita in un bosco.
Hermione
cerca una sua mano con la propria, così come
ha cercato quella del piccolo Remus quando questi le ha chiesto se
davvero
sarebbe rimasta con lui fino a quando non fosse guarito.
O
forse no, non allo stesso modo.
-
Tu non mi hai fatto niente, - asserisce decisa, gli
occhi fissi sui suoi.
L’espressione
di Remus, da divertita che era, si
scioglie in una maschera cerata di delicata sorpresa.
-
Dovresti stare attenta, sai, - mormora, in un alito
di voce appena udibile. – Potrebbe quasi sembrare che tu
abbia un segreto
peggiore del mio.
Il
suo sguardo si fa brillante, al chiarore incostante
del Lumos sospeso sopra le loro teste. Si insinua in quello di Hermione
come
un’iniezione sottopelle: intenso, diretto, bruciante, tanto
che lei ne avverte
la puntura ancora prima di accorgersi che i loro volti si stanno
avvicinando,
scivolando in avanti seguendo un filo invisibile, teso con precisione
chirurgica.
Non
sa se siano le sue labbra a sfiorare per prime
quelle di Remus, o quelle di Remus a sfiorare per prime le sue: dal
momento che
le loro bocche si incontrano si dividono in parti uguali colpa e
merito.
Quando
infila le dita tra i suoi capelli e spinge appena
il busto contro il suo, il tintinnio leggero di un sonaglio le sfiora
la
coscienza.
Delicato.
Piano, molto piano.
Stare
tra le braccia di Remus è come fluttuare: pare
quasi di nuotare, a ogni sfiorarsi di pelle. Ci si muove lentamente,
spostandosi di tanto in tanto grazie a una corrente più
energica, poi l’enfasi
torna a quietarsi in un mite rimanere sospesi, l’uno ancorato
al fondale
dell’altra.
Ed
è bello. É dolce.
É
come essere sempre nudi, pur senza essersi spinti
oltre una carezza leggera al gancetto del reggiseno o alla cintura dei
pantaloni. Oppure, quando non lo si è, essere vestiti non
sembra più lo stesso,
perché il tessuto si gonfia o aderisce alla pelle a seconda
di quanto
l’immaginazione riesce a galleggiare davvero, sulla
superficie di quel momento
di totale incoscienza.
I
capelli di Hermione giacciono ad appena pochi centimetri
dalla chiazza di tè spanto sul tappeto ai piedi del divano.
Remus li pettina
pigramente con le dita, impigliando i polpastrelli nelle ciocche ricce
e scure.
Con
gli stessi polpastrelli percorre un tracciato
leggero sulle sue guance, avvicinando le labbra al suo orecchio.
-
Non devi aiutare tutti, Hermione, - sussurra,
allontanando un boccolo bruno da una minuscola macchia di
tè. – Non ce n’è
bisogno.
Hermione
volta il capo a guardarlo, accigliata. Sente
il cuore emettere un pigolio, al centro del petto.
-
Perché me lo dici? – sussurra a propria volta,
quasi
stesse dormendo e dovesse fare attenzione a non svegliarlo.
Remus
le accarezza il volto con il dorso della mano,
discendendo dalla sua fronte alla sua bocca, dischiusa per lo stupore.
-
Lo sai.
Il
pigolio diventa una crepa, lunga e sottile. - Io
sono qui per aiutarti. Per riportarti indietro.
All’improvviso
il pavimento appare impietosamente duro
sotto la sua schiena. Smette di fluttuare, precipitando sul fondale.
Respirare
diventa difficile.
Remus,
i lineamenti spigolosi ammorbiditi dalla
giovinezza e un cenno di irriverenza, – sconsideratezza,
forse – emette un
sospiro triste.
-
Sei sicura di volere davvero tornare indietro? –
esala in un soffio.
Hermione
cerca la sua mano sul tessuto ispido del
tappeto. La stringe forte, la gola stretta da un nodo pungente.
-
Sì che ne sono sicura.
Tu
sei sicura di tante cose.
…
non
poi così tante.
Remus
la guarda fisso negli occhi. – Hermione…-
bisbiglia. Le sue pupille sembrano allargarsi, nel nucleo delle sue
iridi. - A
me non piace il miele.
Il
cuore di Hermione perde un battito.
Sei
un tipo goloso, eh?
Non
mi piace! Non lo so come ci è finito!
Capisco.
I barattoli di miele sono dei veri rompiscatole al giorno
d’oggi.
-
Ma… - protesta, flebile. Le mani di Remus sono come
ragnatele, e i suoi polpastrelli sono cosparsi di farfalle.
-
È a te che piace. – Sempre soltanto un alito di
voce.
– Giusto un filo, sciolto nel tè. Ti rilassa. Lo
bevi sempre, quando sei
agitata.
Hermione
corruga la fronte, gli occhi ancora una volta
sul punto di colmarsi di lacrime.
Perché
sta per piangere?
-
Ma
come fai a…?
Remus
si appoggia un indice sulle labbra, facendole
cenno di rimanere in silenzio e di ascoltare. Il suo sguardo
è limpido, terso. -
Quelle ciabatte non sono di Lily, - bisbiglia. - E neppure quei
pantaloni. Li
hai comprati in un negozietto Babbano vicino a dove lavora tua madre,
quando
sei andata a trovarla due mesi fa. Li metti quando senti la sua
lontananza.
La
morbidezza familiare, la sensazione che le fossero
stati cuciti addosso. Eppure…
Stringe
con più forza il palmo di Remus, piantandovi le
unghie. - Me li hai dati tu! Me l’hai detto tu
che…
D’un
tratto un braccio la spinge in avanti, e lei si
ritrova premuta contro il suo petto, a singhiozzare senza freno sul suo
maglione. Le lacrime le scavano le guance come radici che le affondano
nel
petto, scosso dai singulti.
-
Io devo riportarti indietro! – Hermione conficca le
dita nella lana del vecchio pullover, tirandone i fili. –
Sono l’unica che…
Solo io posso! Devo aiutarti! Devo aiutare tutti.
La
mano di Remus le culla la testa, tessendo i ricci
tra i polpastrelli. – No, Hermione, no. - La sua voce gentile
penetra nella sua
pelle come inchiostro, macchiandole i pensieri. - Non devi. Non puoi.
Dopo
la morte di Voldemort erano cambiate molte cose.
Uno
dei voluminosi libri che ha portato con sé
all’interno della tracolla scivola dal cuscino del divano e
cade aperto a
terra, ad appena qualche passo dal suo viso.
Le
pagine sono bianche, immacolate.
Mi
scusi, forse lei potrà essermi utile. Sto conducendo una
ricerca per
l’apprendistato presso il Dipartimento Lesioni da Incantesimi
del Ministero… Cercavo
materiale sulla Dissociazione della personalità. Un manuale,
un’enciclopedia, o
qualsiasi altra fonte abbia a riguardo. Qualunque cosa, non importa.
Ragazza
mia, quella è una materia sperimentale. Tutto quello che
posso avere a riguardo
è un mucchio di rotoli di pergamena, niente di stampato. Ma
sei sicura che il
Ministero accetti ricerche del genere?
Sono
sicura.
Erano
cambiati tutti, dopo la fine della guerra. Era
cambiato Harry, che non dormiva più di quattro ore a notte e
sentiva il bisogno
viscerale di visitare i parenti di quasi tutte le vittime dello
scontro; era
cambiata Ginny, che dopo alcuni mesi aveva smesso di seguirlo e poco
dopo aveva
smesso anche di aspettarlo. Era cambiato Ron, così cresciuto
e responsabile,
pur rimanendo forse l’unico a parte George in grado di
sopperire all’assenza di
Fred con qualche ridicola messinscena.
Erano cambiati Bill e Fleur, che avevano fatto della propria bambina la
propria
pace e in lei avevano trovato la speranza che il Mondo Magico aveva
trovato in
Harry.
Erano cambiati Arthur e Molly, che avevano fatto dei figli perduti il
proprio
armistizio e pareva non avessero ancora cessato di sentirsi in guerra.
Ed
era cambiata lei, Hermione.
Remus
sospira, affranto, ma non smette per un attimo di
accarezzarle i capelli.
-
Tu non sei qui per riportarmi indietro, perché io non
sono andato da nessuna parte. Capisci, Hermione?
Stare
tra le braccia di Remus è come fluttuare. Pare
quasi di nuotare, a ogni sfiorarsi di pelle. Ci si muove lentamente,
spostandosi di tanto in tanto grazie a una corrente più
energica, poi l’enfasi
torna a quietarsi in un mite rimanere sospesi, l’uno ancorato
al fondale
dell’altra.
E,
infine, i ricordi ritornano a galla.
La
morte di Voldemort, i festeggiamenti, le
commemorazioni, i pianti.
La
gioia, e subito dopo il senso di perdita. La pace, e
la mancanza di uno scopo.
Il
senso di impotenza: la convinzione di essere troppo
deboli, inadeguati, manchevoli, mentre il mondo si trasforma in peggio
e nulla
può essere fatto per impedirlo.
Era
la sua ragione di vita: sistemare le cose, renderle
più tollerabili, dare una mano quando possibile. La faceva
sentire viva, la
faceva sentire utile. Dava un significato a tutto.
Poi,
la fine della guerra aveva cambiato ogni cosa.
Non
c’era nulla che potesse fare, nulla che potesse
dire. Le tracce che quello scontro aveva scolpito in ognuno di loro
erano
indelebili, avevano mutato la loro personalità tanto quanto
le cicatrici
avevano sfregiato il viso di Remus.
Tutta
la sua cultura, tutti i suoi libri, non valevano nulla
a fronte di un simile scenario, non se non poteva sfruttarli a
vantaggio
proprio e delle persone a cui voleva bene.
Poi,
un giorno, aveva letto un articolo sulla Gazzetta
del Profeta, firmato Nicholas F. Marshall.
“Forse,
l’unico modo per
convivere con se stessi è una doppia
personalità.”
Hermione
conosceva quelle teorie: sapeva che erano sperimentali, sapeva di non
potervi
fare pieno affidamento. Non si trattava di scindere
l’inconscio, ma di
addormentarne la componente più dolorosa e del tutto
superflua, quella parte di
coscienza che compiangeva fatti la cui unica influenza sulla psiche era
lo
squilibrio.
Le
era
parsa una buona idea: un modo per fare finalmente qualcosa di concreto,
dare un
contributo tangibile contro quell’uggioso e catatonico
torpore post-guerra.
Le
ricerche avevano impiegato settimane, ma alla fine aveva rintracciato
la
formula che faceva a caso suo: un vecchio incantesimo, rimodernato per
esercitare il proprio effetto su più di un soggetto
contemporaneamente, ideato
in origine per agire sul solo attore della formula e poi modificato.
La
sua
prima cavia era stata la bibliotecaria, Tracy Strauss.
Tracy
aveva perso il marito due anni prima, durante il crollo di un archivio
interno
alla Gringott. Dopo quel giorno, non aveva più letto nemmeno
una pagina.
L’incantesimo
aveva funzionato alla perfezione: non solo non aveva intaccato un
singolo
ricordo, – Hermione aveva trascorso ore e ore ad ascoltare la
signora Strauss compiangere
il marito e la felicità smarrita – ma non ne aveva
neppure svigorito
l’intensità. Eppure, dopo appena qualche ora dalla
pronuncia della formula, la
bibliotecaria che non toccava un libro da quasi due anni aveva raccolto
un
manuale di Storia della Magia da uno degli scaffali della Sezione
Saggistica e
si era immersa in una lettura appassionata, ininterrotta.
Hermione
si era sentita così felice quel pomeriggio che aveva quasi
pensato di fare
visita ai propri genitori, dopo settimane di rinvii dei loro
appuntamenti
periodici.
Tuttavia
aveva
preferito tornare a casa, scaldarsi una tazza sbeccata di tè
e riprendere a
studiare le preziose pergamene che aveva rintracciato nelle settimane
precedenti, seduta su una delle sedie esili e di fattura grezza che
circondavano il tavolo del salotto di Grimmauld Place.
Aveva
indossato i pantaloni e le pantofole che aveva comprato nel negozietto
vicino
allo studio dentistico di sua madre, perché in fondo le
mancava davvero tanto,
ed era stata tentata di stendersi un pannetto sulle ginocchia quando ne
aveva
visto uno, probabilmente cucito da Molly, appoggiato su uno degli
scranni lì a
fianco. Si
trattava di una coperta intrecciata sui toni del marrone e del rosso,
costellato di piccoli e confusi rombi gialli e fin troppo simile a un
maglione
in formato extra-large.
Aveva
desistito, - faceva ancora abbastanza caldo per
la stagione in corso, in fondo - per poi rivolgere la propria
attenzione ai
rotoli di pergamena, disposti sul legno come una muraglia di carta.
Infine,
aveva recitato la formula.
Tutto
ciò
che ricorda degli attimi successivi è un forte boato al
centro del petto e la
sensazione di starsi sbriciolando in mille pezzi.
Si era accasciata sui fogli di pergamena, le
labbra che si rifiutavano di emettere qualsiasi suono e le braccia che
brancolavano
al buio sul tavolo, cozzando contro qualsiasi ostacolo sul proprio
percorso.
Aveva urtato la tazza sbeccata di tè, il cui contenuto si
era riversato a
macchia d’olio sul legno prima di ruscellare a terra, sul
pavimento incrinato.
Poi, nel tentativo di ricollocarla in piedi, aveva rovesciato la
piccola
ampolla colma di miele: lunghe strature di liquido ambrato avevano
cominciato a
defluire dal vetro tra le dita della sua mano sinistra, tracciando
sentieri
filamentosi sulla sua pelle.
Dopo
qualche istante, il suo corpo aveva cessato di muoversi. Era rimasta
per lunghi
minuti immobile, il capo abbandonato di lato sul legno, incapace
perfino di
sbattere le palpebre.
Tutto
ciò
che aveva potuto fare, prima di perdere finalmente conoscenza, era
stato
osservare inerte la mensola al di là del pannetto cucito
dalla signora Weasley,
disadorna a eccezione di una singola cornice:un ritratto di Tonks, seduta
su una poltroncina imbottita e rivestita di damasco fiorato, il busto
avvolto
da un largo pullover viola dalle maniche sformate.
Accovacciato sulle sue ginocchia, inquieto e
imbronciato, c’era Teddy.
Remus
le infila una mano tra i capelli alla base della
nuca, inducendola a sollevare il viso. Ancora una volta, un sussurro:
– Capisci
ora?
Hermione
annuisce soltanto, la gola occlusa dal pianto
e dall’inquietudine.
-
Non ci sono io in quel letto d’ospedale.
La
crisi esistenziale di Remus, la disperazione di
Tonks, le istruzioni dei Medimaghi: tutte invenzioni della sua psiche?
Delicato.
Piano, molto piano.
Quella
volta il Guaritore aveva parlato al maschile.
Puoi
farcela. Il
pizzicore dell’accenno di barba di Harry sulla
propria guancia…
Sei
Forte.
Il bacio leggero di Ron sulle proprie nocche.
C’è
lei, in
quel letto d’ospedale. Harry e Ron non sono lì per
assisterla in una missione
delicata e pericolosa, ma per vegliarla dal suo capezzale.
Il
sonaglio non è appeso alla porta di Remus, ma alla sua.
Tonks,
Teddy, la poltroncina damascata, Harry, Ron, il
miele, il pannetto arricciato ai piedi della porta del casino da
caccia, le
pantofole, i pantaloni, la tazza sbeccata, il tè rovesciato,
i libri. È tutto
così assurdamente cristallino da ferirle
l’orgoglio, per il modo in cui il suo
inconscio è stato in grado di ingannarla.
Rimane
solo una cosa che ancora non riesce a spiegarsi.
Preme
le mani sul torace di Remus – quello giovane,
quello che ha baciato, accarezzato, quello con il quale ha
fluttuato - e gli si allontana appena per riuscire a
guardarlo
in volto.
-
Se io sono in quel letto… - mormora, la voce resa
roca dalle lacrime. - Tu dove sei?
Remus
socchiude le labbra in un sorriso appena visibile,
poi si china a baciarle la fronte. – Proprio qui, - risponde,
un filo di
malinconia a congiungere le parole come una collana di perle.
– E là, nei
ricordi del me stesso più
vecchio.
Hermione
avverte la crepa nel proprio petto farsi più
profonda e ingollare acqua, mano a mano che il pavimento del casino da
caccia
diviene sempre più duro e il suo cuore sempre più
gonfio.
-
Era l’unico modo, - prosegue Remus, attirandola
ancora una volta a sé. – Non saresti mai tornata
di tua spontanea volontà.
Saresti rimasta bloccata tra una personalità e
l’altra senza mai più riuscire a
rialzarti in piedi. Ma se ti fossi convinta che qualcuno aveva bisogno
del tuo
aiuto… allora, forse…
Non
una singola farfalla rimane libera dalle mani di
Remus: i pensieri di Hermione cercano di dibattersi tra un filo di
ragnatela e
l’altro, ma non c’è scampo.
Non
può fare altro se non continuare ad ascoltare.
-
Non sei tu a essere entrata nella mente di Remus
Lupin, ma Remus Lupin a essere entrato nella tua. Ha sparpagliato
alcune delle
proprie identità più problematiche sperando di
attirare la tua attenzione e
beh… - Un sorriso. - … a quanto pare a me spetta
almeno la medaglia d’argento. Anche
se forse sua moglie non la pensa allo stesso modo.
Hermione,
un battaglione di sonagli che vibra tra uno
schiaffo di consapevolezza e un altro, appoggia la fronte sul petto di
Remus,
prendendo fiato.
-
In poche parole sono un’altruista patologica, -
mormora, inspirando il profumo del suo maglione. Il suo inconscio
può
ingannarla in tutti i modi che più lo aggradano, ma
quell’odore è reale.
Una
risata gentile. – Qualcuno la chiamerebbe Sindrome
dell’Infermiera.
-
Altruismo patologico suona meglio.
Remus
le scompiglia i capelli, poi si solleva a sedere,
trascinandola con sé. – Allora Hermione, -
esclama, un sorriso malinconico
tratteggiato sulle labbra. – Preferisci rimanere qui, con un
ricordo che presto
svanirà, oppure tornare a vivere?
Hermione,
in ginocchio al suo fianco, inspira a fondo e
chiude gli occhi. Stringe nei pugni il suo maglione, conficcando le
unghie
nella lana ispida quanto una coltre di pelo. Poi si protende in avanti.
Non
sa se siano le sue labbra a sfiorare per prime
quelle di Remus, o quelle di Remus a sfiorare per prime le sue: dal
momento che
le loro bocche si incontrano, si dividono in parti uguali colpa e
merito.
Qualche
istante più tardi, a una dimensione di
distanza, il sole che filtra dalla finestra a graticola illumina un
sonaglio
tondo e dorato delle dimensioni di un Boccino, appeso alla porta di una
stanza
d’ospedale tramite un nastrino color glicine. Una leggera
corrente d’aria lo fa
ondeggiare lungo il pannello di legno dell’uscio.
Hermione
apre gli occhi.
Crack, fanon o canon? Slash, Het, Threesome?
GOD SAVE THE SHIP!
I ♥ Shipping è un'idea del «
Collection of Starlight, » said Mr Fanfiction Contest,
« since 01.06.08 »