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Autore: BigMistake    10/07/2011    2 recensioni
Dal prologo:«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»
Ispirato al musical cinematografico del 2004: Mentre si consuma il dramma del Fantasma dell'Opera la Parigi del 1870 sta cambiando. Gli ideali della Rivoluzione sembrano essersi dispersi, i ceti medi vanno via via scomparendo mentre la borghesia ed i nobili si preoccupano solo delle proprie tasche. Gli assetti della società mutano in maniera drastica, vecchie fazioni amiche si trovano su fronti diammetralmente opposti. La Guerra incombe sulla Francia con la sua scia di morti innocenti e corpi straziati, viziando il giudizio del popolo sull'Imperatore e decretandone il declino. Nell'ombra i vecchi giochi di potere e politica continuano a muovere i fili dei propri burattini. Questo è lo scenario mentre l'Opera Garnier è al rogo. Qualcuno osserva la scena, attende risposte da tempo. Ci sono mostri mascherati da Angeli, Angeli caduti che cercano di rialzarsi, ali strappate... Ed al Fantasma dell'Opera non resterà che adeguarsi al mondo che l'aveva rifiutato ...
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Madame Giry, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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ÈPILOGUE: Découvrir d'être vif.

 

Il quadro di una giornata in gran fermento, l’apertura della tanto rinomata stagione con i suoi mille capricci scenografici.

Nuove opere che attendevano il pubblico sempre più indiscreto, affamato di quello che era divenuto un evento a cui in pochi potevano assistere. Una fila interminabile di gente, una coda che arrivava fino all’angolo della strada con somma gioia del abbiente signore che dall’esterno ne ammirava l’estensione.

Il suo più cospicuo investimento.

E pensare che fino a qualche mese prima riteneva l’Opera solo una macchina sfrutta tasche, senza nessun margine di guadagno.

Invece ora, al secondo anno, il profitto si prospettava il triplo rispetto a quello precedente.

Senza contare che trattare con l’amabile Madame Mulheim era assai piacevole.

Tanto piacevole quanto complesso.

Il suo aspetto grazioso nascondevano il suo istinto da spietata e temuta donna d’affari, una rarità in un mondo costruito e retto dagli uomini. Un’arma che in molti aveva tratto in inganno.

Una donna che otteneva sempre ciò che voleva.

Tutto con il minimo sforzo, così come quando aveva ottenuto all’asta quel vecchio rudere. L’aveva pulito, reso splendente, ristrutturato in ogni particolare sotto un’invisibile direzione che prestava progetti dalla genialità assoluta.

E con un impiego di denaro esiguo.

Era lì che la trovava ogni mattina dopo che la carrozza si fosse fermata di fronte al maestoso ingresso dagl’accenni barocchi e neoclassici, con le sue sinuose linee curve e le imponenti statue femminili che ne reggevano il peso, superando lo stuolo d’inservienti che le portavano ogni cosa ritenesse opportuna la sua approvazione.

Uno sciame che ronzava intorno alla propria regina.

Chiunque l’avesse cercata era sicuro che l'astuta Signora dell'Opera si trovasse nel suo Teatro, in cui ogni sforzo veniva ripagato con l’applauso altisonante del pubblico.

In molti dicevano che il monumentale edificio costruito in pochissimo tempo fosse l’esatta copia ridotta dell’Opera di Parigi, altri affermavano che era solo una diceria affinché la pubblicità attirasse ricchi turisti curiosi. E lui, l’eccentrico e misterioso proprietario, che mai si era mostrato apertamente se non in rarissime occasioni alimentava questi pettegolezzi, rendendo la leggenda ancor più viva.

Panem et circenses.

«Buongiorno Signor Schimdt, siete venuto a controllare il vostro denaro? Oppure siete venuto solo ad assistere alle prove?»

Era una donna ammaliante senza dubbio, con lo sguardo arguto e seducente, due grandi occhi mediterranei che sapevano come conquistarsi la benevolenza altrui. Abiti sempre solennemente scuri, ma dalle rifiniture pregiate che indicavano la sua posizione di signora altolocata nonostante fosse in un ambiente ritenuto da sempre meschino.

«No, Madame purtroppo non posso mi attendono alcuni clienti.»

Come non accettare la sua offerta, il soffice dorso della sua mano appena accarezzato dalle rugose labbra da uomo maturo del mite proprietario di fabbriche divenuto un mecenate.

Un libidinoso piacere appena accennato in quella piccola porzione di pelle.

Anche in un semplice gesto, sfilando una ad una le dita dei guanti per poter porgere la mano al suo finanziatore, accennando quel sorriso beffardo e sicuro che le caratterizzava il viso delicato sapeva come coinvolgere le persone che aveva accanto.

Si concedeva solo quel poco per poter godere della compagnia intelligente e raffinata di una persona che si era fatta apprezzare per le sue doti.

Ma era intoccabile, una donna impossibile da affarrare. Fedele ad un'unica persona.

Qualunque uomo avesse tentato di approcciarsi a lei in altri modi, si sarebbe trovato allontanato da molte ragioni.

Un sussurro nel palco in cui soggiornava, il respiro che lento lo invitava ad evitare certi comportamenti, la stessa Madame che declinava ogni profferta di amori clandestini. 

Una delle ragioni ancor più palesi che lei non fosse di nessuno poi era la timida bambolina che le tirava la stoffa dell’abito, cercando di attrarre la sua attenzione.

L’unica cosa che lei temeva le sfuggisse, le venisse strappata da un momento all’altro perché immeritevole di un tale grande dono. Bella come un mattino di primavera appena in boccio, con quelle attente perle d’acquamarina che cambiavano di colore con il gioco luminoso del suo umore, una superficie riflettente sulla sua pelle d’avorio e i lineamenti rinascimentali che ella stessa vedeva nello specchio ogni giorno.

Aveva imparato ad essere tenera, dolce dopo anni di assoluta tortura.

L'aveva imparato con lei, attraverso i suoi giochi, le sue conquiste.

Era cresciuta e si era rafforzata.

Lo specchio di una vita che a lei non era stata concessa, l'amore che lei non aveva avuto eiversato in lei.

La sua dolce bambina.

«Eve, per piacere accompagnala dentro, io vi raggiungo fra un attimo …» La giovane istitutrice rispose immediatamente al suo richiamo, accostandosi discretamente alla bambina che non sembrava avesse intenzione di allontanarsi.

Le teneva accuratamente la schiena invitandola ad ubbidire con la stessa cautela con cui la madre del passerotto spinge il pulcino fuori dal nido.

«Sì, Miss!»

Si convinse, prese la mano della ragazza e la seguì continuando a guardare alle sue spalle finché le fosse possibile, rincuorata dal mormorio incessante della vita teatrale. 

Le donne di servizio erano già a lavoro tra secchi e stracci, affinché ogni marmo brillasse. I macchinisti e gli addetti alla manutenzione serpeggiavano fra le quinte nascosti dai folti tendaggi volando sulle teste di chi sul palco iniziava a provare. Dalla fossa all’esterno si poteva udire gli strumenti accordarsi, mentre i cantanti e i ballerini riscaldavano con gorgheggi e saltelli i loro talenti.

Erano giunte solo nell’atrio semi deserto ed Evelyne già avvertì la piccola figura rilassarsi al suo fianco.

D’altronde, per quella bambina,  era come entrare nella sua casa.

Il ventre caldo e accogliente della musica una grande stanza dei giochi, il suo innato amore per ogni singola nota e il suo talento ereditato così come quella cicatrice che possedeva dalla nascita.

Proprio sotto i lunghi fili di seta castano dorati che si evolvevano in soffici boccoli sulla piccola schiena, si nascondeva un segno che la contraddistingueva. Un taglio rossastro che disegnava la mandibola fino al mento, un’imperfezione solenne, un segno che le ripeteva con orgoglio chi fosse suo padre e le dita di sua madre amavano percepire.

Eppure s’irrigidì di nuovo quando un uomo, incrociando le due nuove giunte, si fermò a fissarle.

Un uomo dai lineamenti puliti, dall’aspetto aguzzo e longilineo di una volpe.

Guance paffute su di un volto magro, disordinati ricci scuri e occhi neri, cangianti, vivi, come se all’interno di essi viaggiasse la sua mente alla velocità di un treno.

Come se la sua intera esistenza dipendesse dall’essere sempre un passo avanti agl’altri.

Si mosse in avanti, il passo sicuro e cauto da predatore, come il Diavolo che assume la forma di lusinga per prendere l’anima del povero innocente. C’era qualcosa in quell’uomo, qualcosa d’indescrivibile, anche se il suo aspetto non tradiva nulla di minaccioso. Eppure Eve sentiva di dover rimanere all’erta, attenta ad ogni sua mossa.

I suoi candidi occhi saettavano convulsamente tra il viso dell'uomo e la bambina che si stringeva con forza alla sua gonna.

Lei istintivamente allungò il braccio cingendo, per quanto possibile, le minute spalle pronta a spingerla lontano, con le sue urla d’allarme boccheggianti nella gola.

L’uomo si fermò, vicino troppo vicino.

«Ma che bella bambina …»

Sorrise furbo, con quello sguardo strano ad illuminargli l’intero volto. Indecifrabile come una sfinge.

Sembrava quasi un ragazzotto borghese nonostante l’aspetto adulto, sempre pronto alla battuta, scanzonato come se non gli importasse di ciò che lo circondava.

Il rigido bastone puntato davanti al volto diffidente della bambina.

La studiava, l’interesse che lo stava cogliendo era al di là della loro comprensione.

Il ritratto riconoscibile di un passato che lui conosceva benissimo.

Che lui aveva amato.

Voleva vederla da un punto di vista privilegiato, voleva scrutare se nei suoi occhi vi risiedesse quella profondità in grado di ucciderti, quel fulgido bagliore che l’aveva stregato anni orsono.

«È vostra figlia?»

Sapeva già la risposta, troppo ovvia per lui che conosceva ogni tratto di lei.

Le sue ginocchia si piegarono.

La ragazza sobbalzò cercando di fare da scudo con il suo corpo, spingendo la piccola dietro di sé.

Lei così spaventata, mentre la piccola non tradiva le sue emozioni.

Dura ed impenetrabile, fiera,orgogliosamente rigida dal momento in cui si era sentita sotto esame.

Come se lo volesse affrontare.

Come se nascondesse il suo istinto connaturato.

«Evelyne!»

Una voce tuonò dal grande ingresso spalancato, riflettendosi in tutto il grande perimetro.

Calda, penetrante, che non aveva alcuna inclinazione se non quella dell’ubbidienza che le era dovuta.

Vi raggiungo fra un attimo …

L’attimo era passato nel tempo di accomiatarsi e lei, impietrita, aveva rivisto la sua vecchia vita piombargli al centro del petto senza nessun rispetto. Quanto era passato dall’ultima volta? Troppi anni per ricordarsi il giorno preciso, troppo pochi per dimenticarne le fattezze.

Era lui.

«Andate dentro, subito!»

Alle sue parole la ragazza raccolse l’ordine come se fosse l’invito ad un the in terrazza, sollevata di non dover subire il peso dell’aria che si era creata attorno alla enigmatica figura di quel signore.

Sentiva la necessità di allontanarsi, la premura.

Persino la corpulenta donna che stava spolverando, prese il suo secchio e la sua scopa cercando impiego altrove.  

Si mosse veloce, non si voleva voltare. Tutto pur di scrollarsi l’inquietudine che avvertiva.

Ma quando i suoi passi affrettati stavano per raggiungere la scalinata d’accesso qualcosa le impresse una forza contraria.

La bambina e la donna si tenevano incatenate tramite gli sguardi.

«Maman?»

Le uscì un soffio, pallido e soffocato in quella sensazione di pena che le stava avvolgendo l’anima innocente.

Era piccola e già con quello spirito arguto da avvertire quando un pericolo era vicino.

Lo stesso istinto che aveva sua madre.

«Vai …»

 

 

Quell’ammasso nero li osservava muto.

Non era solo un angolo buio.

Per nessuno degl’artisti.

Attendevano impazienti un cenno, una risposta alla loro esibizione.

“Vedo con piacere che vi siete ricostruito un vostro piccolo impero, Monsieur …”

Nessuno lo conosceva realmente, nessuno si era tanto avventurato da scoprire il suo aspetto.

Violinisti, cantanti, ballerini, nemmeno i direttori delle varie arti. Persino i suoi giovani allievi non avevano mai potuto vedere il suo volto sempre coperto dall’ombra.

Un’abitudine ormai consolidata.

Non ne conoscevano il viso e solo alcuni avevano avuto il privilegio di ascoltare la sua voce.

Eppure ognuno di loro sentiva i suoi occhi studiarli fin nel profondo, scovare se ciò che veniva alimentata fosse la fiamma della passione e non un mero sogno di vanità e gloria. Perché chiunque avrebbe voluto appartenergli, ma solo alcuni potevano rientrare nella sua ristretta cerchia di eletti.

Una porta che si apriva alle più alte sfere artistiche del mondo.

Una disciplina unica nel suo genere che rendeva la Musica ancor più preziosa.

Dedizione, passione, talento.

E tutti erano un corpo unico, un figlio che cerca costantemente l’approvazione del padre anche contro ogni senso logico, contro ogni ragionevolezza.

Era questo.

Notti intere perso ancora nel turbine della sua Arte.

Apprezzata, amata, voluta.

La sua musica libera e scandalizzante era il giusto sfondo a quello che rappresentava il panorama di una nuova veduta.

Finalmente un mondo pronto ad accertarlo anche così. Ad accontentarlo anche se risiedeva nell'ombra.

E tutto grazie al suo nuovo volto.

Lei rappresentava la sua voce, i suoi ordini, il suo volere.

Ogni particolare curato come se fosse lui stesso a farlo, mentre assisteva dal palco migliore al Gioiello Europeo nella penisola di Coney Island.

Lei era l’unica.

L’unica che conciliava il suo carattere, le sue manie, che lo compiaceva con il suo stesso senso dell’ordine e della perfezione. La sola a poter accedere al palco numero cinque.

Il suo palco.

«Alexandre Vidocq è qui, a Coney Island …»

La vide.

Sconvolta, spaventata.

Poteva udire il suo cuore battere furiosamente sopra i gorgheggi della cantante.

«Pensavo che ci avesse trovati ed invece scopro che sei stato tu ad invitarlo. Dovresti sapere che con la Sûreté non si può scendere a patti. Cosa mi stai nascondendo, Erik?»

Le sue mani tremavano lungo i fianchi, chiudendosi in pugni serrati.

Tornò ad osservare il palco dalla sua poltrona come se quella fosse stata una fastidiosa interruzione.

Il suo sguardo severo baluginava sui suoi artisti, vigilando perennemente su di loro nonostante tutto.

«Non preoccuparti.»

La sua indifferenza era troppo, perfino per lei che sapeva accettare le sue stranezze divenute ormai di ordine giornaliero.

Era troppo perché tutto era in gioco e non più solo la loro vita.

L’ira salì incontrollata, due falcate più lunghe del suo passo, furiose.

Vicina alla sua poltrona, vicina all’unica metà libera del suo viso.

«Era ad un passo da Christine, hai messo in pericolo mia figlia, io …»

Sua figlia.

Era solo sua figlia?

No, non poteva sopportare che si arrogasse questo diritto.

Nessuno poteva farlo, nemmeno lei.

«È anche mia figlia …»

Si sollevò gravando con il peso della sua ombra su di lei, così piccola a confronto da scomparire.

Ma lei restava impettita, altera come un soldato che affronta la battaglia, pronto a ricevere il tanto temuto colpo di grazia.

Fissava i suoi occhi scoccare dardi fiammeggianti sul suo orgoglio divenuto un estenuante muro invalicabile.

«Troppo spesso ti dimentichi di noi per poterlo affermare …» le era uscito, veloce, naturalmente velenoso. Lo aveva colpito nel profondo.

Le sue mancanze, le sue poche attenzioni riservate a brevi momenti, tutte lì, spiattellate in un grido soffocato alla mercé del proprio sguardo.

Madre e figlia unite per racimolare quei pochi pezzetti che concedeva loro.

Lei, per lui, non era più che quei certificati che ne dimostravano la reciproca appartenenza.

Un falso.

Nessun vincolo, nessun legame se non quello lavorativo. La sua personale postina alla stregua, con i servizi che esulavano dai propri compiti quando tornavano nella stessa casa.

No, giurare davanti a Dio di amarsi, sarebbe stata una menzogna.

“Anch’io so riconoscere i falsi, Malice …”

Malice.

Non veniva chiamata così da otto lunghi anni ormai.

Ed invece aveva dovuto sopportare ancora il gravoso carico che quel nome portava con sé.

Il suo passato riaffiorato di nuovo.

La donna che sperava di aver lasciato oltre Oceano.

Non lo sopportava. Non reggeva il confronto con lui, con i suoi occhi, con tutto quello che lei rappresentava.

Non poteva guardare a quell’universo di giada e fondersi con lui.

Ed era stanca di mentire a sé stessa che forse le cose potevano cambiare, trasformarsi, divenire.

Doveva esserci qualcun’altra al suo posto.

Qualcuno che gli riempiva il cuore con la voce melodiosa della sua Arte.

Qualcuno che avrebbe saputo leggere i suoi spartiti e non consegnarli.

Che avrebbe potuto duettare con lui di languide passioni su di un ponte sorretto dal fuoco.

Lei non era una degna sostituta.

«I tuoi ordini.»

Piangeva. Grandi lacrime trattenute invano che le rigarono le gote spennellate di iraconda porpora.

Sì, piangeva.

Perché si era illusa di aver lasciato alle spalle Parigi, il suo orrore.

Si era illusa che lui avesse seppellito il Fantasma. Invece era ancora con loro, con la sua presenza intimidente e il suo sguardo freddo, le sue lunghe gambe e la sua figura resa ancor più imponente dalle spalle larghe ben disegnate.

Dalla sua bianca maschera che non lo abbandonava nemmeno nell’oscura intimità della loro casa.

Malice non avrebbe versato una sola lacrima.

Lucia invece ne era rimasta così ferita da volergli scappare.

«I. Tuoi. Ordini.»

Ogni parola scandita tremante.

Gli occhi già lontani fissati sulla cartelletta adagiata sulla poltrona.

Il palmo della sua mano rivolto nel vuoto ad attendere che si posasse magicamente su di essa.

Il tempo non cura le ferite. Le nasconde.

Il tempo in cui non ricevi una negazione, un segno, quel minimo di rimorso che doveva palesarsi invece squarcia il petto.

Aveva solo serrato le labbra. I suoi muscoli irrigiditi. Il suo sguardo severo e contrito.

La sua maschera facciale uniformata al mezzo volto bianco che si disegnava su di lui asettico, privo d’ogni espressione.

Erik non le avrebbe dimostrato mai che si sbagliava.

No.

Proprio perché non si stava sbagliando.

Tutto per un’informazione.

“Saint Marie, approderà domani nel pomeriggio. Lei sarà qui giusto in tempo per la sua Opera.”

 

 

Un attimo prima non c’era.

Era sicura.

La stanza era chiusa, lo avrebbe giurato. Era stata lei stessa a girare la chiave nella toppa per impedire agl’ammiratori di non intrufolarsi.

Eppure nel camerino della cantante era comparsa la seconda rosa rossa listata di nero che ancora teneva fra le mani.

 “Madame, credo che questo sia per voi …”

Una busta, chiusa ermeticamente.

Il suo simbolo che a chiunque avrebbe incusso timore, ma che lei invece sembrava di conoscere da sempre.

Era quasi confortante.

Un teschio scolpito sulla ceralacca, parole vergate di rosso come se fosse sangue che sgorgava dal quadrato ingiallito della carta.

Ti aspetto sul palco, da sola.

Le loro prime parole dopo un giorno di assoluto e ostinato mutismo. Le prime dopo che lei gli aveva apertamente detto di avergli dato tutta la sua anima, di essere stato una sua marionetta come tanti altri mentre pensava che forse era qualcosa di più.

Si era sempre accontentata di non poter essere amata, di vivere una finzione perenne quando il suo cognome veniva storpiato in quello di lui.

Ed ora forse si sentiva stretta in quel ruolo. Imprigionata.

Le assi venivano appena illuminate dalla lieve penombra delle poche luci ancora presenti.

In piedi, davanti al nulla avvertiva un strano senso di nudità nel trovarsi su di un palco.

La platea deserta sembrava il respiro soffocante di un drago che si udiva al placido silenzio di una notte che volgeva al termine.

L’Opera era stata grandiosa.

Gli applausi lunghi, infiniti, pericolosi.

Le pareti avevano vibrato al loro suono che quasi temeva non reggessero.

Ma lui non ne sembrava totalmente soddisfatto, qualcosa mancava al suo quadro completo.

Sapeva di non essere abbastanza.

Un ripiego.

Era quello a cui poteva aspirare.

Anche se la mattina quando si svegliava e sentiva il calore del suo corpo iniziava a sperare.

Sperava che si accorgesse di lei, anche solo un po'.

No, non l'avrebbe fatto. Nemmeno questa volta.

Non era da lui chiedere scusa. Lei stessa non avrebbe voluto.

La sua bocca era così abituata al sapore amaro, che le sembrava quasi dolce.

Forse si aspettava da lei qualcosa, lì nel suo mondo di tenebra a cui poteva appartenere solo in parte.

Uno scricchiolio nel buio, tra le quinte.

«Erik, sei tu?»

Presto, molto presto lo avrebbe saputo.

Le sue spalle si voltarono prima del suo sguardo.

Lo scricchiolio continuava sempre più amplificato.

Sempre più forte.

Gli occhi faticavano a distinguere la sagoma che ne stava emergendo.

Trasse un respiro che si trattenne nel suo petto.

Non è possibile …

Non era lui.

Una sottile figura minuta avvolta in fine abito di seta, i lunghi capelli raccolti che ai primi e flebili bagliori sprigionavano riflessi ramati su di una pelle nivea e delicata. Il suo volto più maturo non nascondeva la bellezza che ricordava risplendere nelle rarissime occasioni passate.

Erano ancora bambine.

Sedute nei campi a leggere e cantare, librandosi in pensieri alieni che esulavano dalla tristezza della realtà.

«Lucia …»

Ogni parola smorzata in gola, la sua mano che ancora cercava inutilmente la sua croce sul seno spogliato da qualsiasi oggetto non degno. L’emozione calda che dallo stomaco prese a salire, salire sempre più vertiginosamente fino a raggiungere la testa che vorticava nel turbinio d’immagini, ricordi e speranze.

«Beatrice …»

Lente le lacrime iniziarono a sgorgare, zampillando con stille luminose dai loro occhi.

Il loro cammino un riflesso incondizionato.

Le sue bianche mani cercavano di ricordare al tatto ogni lineamento del suo viso, cancellando per sempre il costruito ricordo di una ragazzina irriconoscibile, distesa su quel tavolo dal legno intriso di sangue. Non più.

Ora non più.

Beatrice sapeva che non era lei.

Avrebbero potuto ingannarla su molte cose, ma non su questo.

Lucia, la sua piccola Lucia era viva.

La sua anima ne avvertiva l’essenza, eppure quel giorno aveva confermato il suo nome su quel corpo privo ormai di ogni alito di vita, pur che tutti credessero che fosse lei.

Pur di proteggerla.

Ma c’era qualcosa in lei, qualcosa di disperato e diverso.

Un fiore che stava lentamente appassendo al fiore dei suoi anni.

Qualcosa che sapeva derivare dalla moltitudine di lettere che aveva letto.

Un velo appannato che le ricopriva lo sguardo.

La paura inconscia che tutto questo fosse un sogno e null’altro.

Singhiozzava, incapace di trattenersi. Una bambina a cui le era stato strappato tutto.

L’infanzia, l’amore, l’innocenza.

Tutto.

«Lucia, cosa ti hanno fatto?»

I loro cuori persi in un solo ed unico battito, si percuotevano ferocemente nei loro petti.

Quasi volessero strappare gli abiti.

Quasi volessero sfondare ogni impedimento di ossa, carne e sangue, pur di raggiungersi ancora una volta ed una volta soltanto.

Un abbraccio asfissiante in cui si erano ritrovate nella notte prima che Lucia partisse.

Si erano dette addio quando ancora avevano le esili braccia da bambine spaventate.

Ed ora da donne finalmente ricongiunte.

 

 

Avevi mai visto l’oceano?

Mai, prima di allora in quella sera lontana.

Una nuova vita.

Nuove speranze.

La visuale della città ormai addormentata si stendeva sotto i suoi piedi.

Per una volta nessuna musica. Il mormorio di una notte cullata dal raro stormire dei gabbiani, la loro caccia, il porto in lontananza laddove il cielo si confondeva con il mare creando un gioco di velluto nero e grigio.

Lo incontro di nuovo, eppure oggi mi appare di un confortante infinito.

Un confortante infinito al limitare dell’orizzonte, un quadro dipinto per l’imperatore indiscusso di un regno che non avrebbero più potuto strappargli.

Ma che avrebbe potuto perdere. Tutto.

Stava accadendo, non era mai stato uno stolto. Piuttosto un acuto osservatore.

Stava accadendo come si aspettava dall’insoddisfazione che leggeva sul suo viso, dal rammarico di quando gli chiedeva di tornare nel caldo giaciglio che lo aspettava ogni sera, seducendolo con languide promesse di un amore facile, non tormentato.

Un amore divenuto sano.

Un amore che lui non sapeva gestire, a lui parallelo e che ora credeva non potesse sanarsi facilmente.

Era un rischio conscio.

Un rischio che aveva calcolato, un rischio che avrebbe potuto rovinare i precari equilibri della sua vita.

Stava arrivando la neve.

Tutto era statico, immobile nel plumbeo cielo del primo dicembre.

Solo leggere folate argentine che gli gonfiano il mantello.

Restava in attesa.

L’aria fredda solleticava la pelle. Una sensazione piacevole. Da assaporare.

Come il calore del suo corpo mentre la spiava dormire.

Questa volta no, non sarebbe rimasto a guardare.

Era il suo momento, il suo soltanto.

Anni passati a sorvegliare ogni cosa, a desiderare il completo controllo su di ognuno.

Non era più necessario ora.

Sovrastando dall’alto tetto del suo teatro si sentiva padrone di sé stesso.

Libero.

Libero dalle etichette, dai dogmi, libero dal suo genio sfogato.

Libero della sua maschera.

L’aveva tolta.

Adagiata sulla balaustra lo guardava, pregandolo muta di tornare al suo posto.

Non era più sola.

Conosceva quell’anonima copertina nera chiusa da quel laccio squamato dal tempo.

Lo aveva guidato in quella notte oltre i confini. Gli aveva donato le chiavi per il nuovo mondo.

Conosceva le esili dita che esitavano su di essa.

Stava per prenderla ed indossarla di nuovo.

Così vicina, così avvolgente da sembrargli sicura.

Un gesto naturale, meccanico come il semplice respirare.

Ma le dita, che prima sfioravano il quadernetto, lo bloccarono.

«Sapevo di trovarti qui …»

Era unicamente bella, più bella di come era sempre stata.

Dolcemente trasformata in quello che nascondeva sotto una coltre di fierezza.

Era tornata ad essere sé stessa.

Senza più schermi, senza più dubbi.

I suoi splendidi occhi privati di ogni frivolo vezzo, della furbizia che la caratterizzava, della seduzione che applicava.

Privati della rabbia, della paura, dell’odio.

Libera.

Come lui.

«L’hai tenuta con te tutto questo tempo …»

E non c’erano parola da pronunciare, né recriminazioni.

Ogni cosa si traduceva in quel piccolo oggetto d’argento che era tornato ad adornarle il collo.

La sua croce, il suo amuleto, la sua fede, ogni cosa che le era rimasta di quando si era sentita umana.

L’unica cosa che l’aveva fatta sentire protetta e amata.

Un simbolo di quanto in realtà si stavano nascondendo.

Nessuno dei due l’aveva mai detto.

Nessuno dei due si era sbilanciato.

Nessuno aveva osato esporsi fino dire quelle poche ed intense sillabe.

Forse non esistevano parole adatte. Solo un tenero gioco di labbra che si sfiorano, una pallida carezza che cresceva di passione quando la sua mano si avventurava sulle rossastre curve della sua piaga, sul suo animo maledetto, sul suo cuore che aveva ripreso a battere nel preciso istante in cui l’aveva sentita calda tra le sue braccia.

L’amore, quello vero, era questo dunque.

L’aver desiderato e ottenuto quel bacio senza ricatti o menzogne.

L’aver voluto una vita con lei conquistandola di giorno in giorno.

L’aver osservato insieme i primi fiocchi di neve sciogliersi sulla loro pelle ed imbiancare i primi tetti.

«Christine ne sarà felice …»

 

 

 

Coney Island, 1872

 

Devo chiederti perdono.

Oltre ogni scusa, oltre ogni parola io devo farlo. Devo farlo perché non ci sono stato e tutt’ora fatico a comprendere cosa sia realmente accaduto.

Perdonami.

Ti ho lasciata da sola e non avrei dovuto.

Sono scappato, io che mi sono sempre vantato di non aver paura di niente.

Sono stato un codardo e me ne pento più di ogni altra cosa.

La paura costante che tutto questo avrebbe significato solo altro dolore.

L’aver rovinato un’altra vita.

Due vite.

Sono stato uno stolto, accecato troppo dal mio ego per poter vedere oltre di esso.

Mi pento di tutto.

Della rappresaglia che ti ho mosso, solo perché non capivo.

Il tempo è scaduto, tiranno si è preso la sua parte lasciandomi solo quello necessario a dire “Non ora”.

Sei qui, avvolta dalla calda luce del tramonto.

Canti leggera, in un sussurro una vecchia ninna nanna con quella tua pronuncia che reputavo fastidiosa, il tuo accento che ho imparato ad amare solo perché tuo.

Ti osservo e vedo solo il tuo sorriso estatico.

Una semplice curva che assorbe ogni raggio di luce che entra dalla balconata, che attira il mio sguardo.

Niente mi sembra più bello ora di questo.

Tu non hai mai dubitato, l’hai sempre definito un dono anche se era mio figlio, il figlio dell'orrore che lessi nel viso di mia madre.

Non ci sono stato, mai. Stolto mostro sfigurato dal cuore reso di pietra.

Ho letto la delusione in te ogni giorno.

L’ho letta quando le tue mani accarezzavano dolcemente la curva naturale che cresceva sul tuo corpo armonico e le tua dita percepivano i movimenti di vita che si stavano sviluppando con sempre più prepotenza. Discreta e silenziosa, fingevi di non avere quel rigonfiamento ad impacciarti piacevolmente i movimenti.

Ed io continuavo a restare in disparte, ad irrigidirmi quando tu stessa presi le mani e m’invitasti a sentire quello che percepivi dentro di te.

L’ho fatto, Lucia non sai quante volte.

Tu dormivi.

Accarezzavo di nascosto te e il tuo ventre solo perché ero terrorizzato da cosa poteva nascondere.

Un mostro come me.

Invece, ho dovuto ricredermi.

Mia figlia.

L’hai chiamata Christine. Un ilare gioco con i tuoi sentimenti.

Le hai dato il suo nome così che la potessi amare anche tu.

Ho sempre pensato di sapere cosa vuol dire amare. Sciocco e presuntuoso, mi sono illuso.

Dovresti riposarti, eppure sei qui in questa stanza e non vuoi allontanarti.

La tua volontà di ferro impiegabile a qualsiasi altra, persino alla mia.

Sei riuscita nell’impresa in cui molti hanno fallito.

Hai sconfitto il Fantasma dell’Opera.

Mi hai sconfitto.  

Ora.

Quando hai rivolto quel tuo sorriso a me.

Quando ti sei avvicinata con lei, fragile e piccola fra le tue braccia e fra le mie divenuta di cristallo.

Tu esperta, madre da quando avevi scoperto di esserlo.

Io impacciato e teso, padre solo quando ho sentito il suo pianto entrando nella nostra casa.

Non ci sono stato nemmeno allora.

Non ci sono stato mentre davi alla luce nostra figlia.

Invece ora, sono con te prostrato ai tuoi piedi e alla tua forza.

Lucia, cosa sei stata capace di donarmi dopo quello che hai passato?

Quanto ancora dovrai dimostrarmi che ho un’anima prima che riesca ad accorgermene?

No, non so cosa vuol dire amare, non so nemmeno se io sia capace a farlo realmente.

Ma non chiedermi di starvi lontano, non chiedermi di lasciarti.

Non potrei. Mai.

È difficile, mia Lucia. È difficile guardarmi e reputarmi umano.

Vorrei soltanto che il tempo smettesse di scorrere.

Vorrei non svegliarmi mai dal sogno che finalmente sto vivendo.

Voglio che tutto resti così, con te che cerchi di rassicurarmi attraverso le tue sapienti mani e la bambina che ha allungato le sue dita per prendere la mia maschera.

Forse è come te.

Vorrebbe togliermela per vedermi.

Vorrebbe che almeno con voi non mi nascondessi.

Che mi vedessi come Erik.

Come tu non hai mai smesso di chiamarmi.

Come tu mi hai sempre visto.

Erik.

L’uomo a cui tu hai regalato la vita.

 

 

FINE

 

Note dell'autrice: Snif! Snif! L'ho scritta eccola qui. Non mi sembra vero sinceramente. Un fatica enorme sia nello scrivere sia nel comporre nella mia testa le immagini che ho cercato di restituirvi.

Per chi non avesse capito Vidocq non aveva mai voluto uccidere Lucia (Erik forse un po') ma decide di lasciarli stare perché l'ha sempre rispettata come persona.Oltretutto aiuta Erik a trovare la sorella di Lucia e a farle incontrare. All'inizio avrei voluto scrivere tanto di loro due, quello che si sarebbero raccontate, di Beatrice sposata ad un nobile inglese e felice in Inghilterra, di Lucia che riusciva finalmente a vivere in pace con sé stessa però, come Erik, mi sono sentita in dovere di lasciarle sole. Lo so è stupido sono personaggi inventati però era come il saldare un debito.

Come specificato nel capitolo Erik e Lucia hanno un Teatro a Coney Island (questo è il piccolo accenno di Love Never Dies) -lei lo amministra, contratta con i finanziatori e fa le commissioni, lui è direttore artistico, scenografo e tutto quello che vuole oltre ad esserne proprietario- , hanno preso il nome Mulheim (questo il piccolo accenno de Il Fantasma di Manhattan) e hanno avuto una figlia che Lucia ha voluto chiamare Christine, il suo modo per esorcizzare il suo Fantasma e questa idea mi è venuta in mente con una frase "Così avrò anch'io una Christine da amare." Lucia non pensava che potesse avere figli ovviamente, ma questo è un racconto ed ovviamente il suo corpo si è donato completamente solo quando ha imparato ad amare.

Inoltre, uno dei simboli che più mi è piaciuto descrivere è quello della croce che Lucia ha gettato a terra la sera dei veri mostri. Erik l'ha conservata per molto tempo e l'ha usata come prova per dimostrare alla sorella Beatrice che era viva, assieme al suo diario colmo di lettere indirizzate a lei (una volta rivista le ha riconsegnate alla leggittima proprietaria). Questo secondo me è una enorme dimostrazione d'amore che Erik le ha incoscentemente fatto.

L'ultima parte è una pagina del diario di Lucia scritta dal nostro fantasmone quando è nata Christine. Spero vi sia piaciuto entrare nei suoi sentimenti maturati con tutta questa vicenda.

Ed infine hanno scoperto di amarsi, anche se lo negavano anche ora.

Ho voluto un lieto fine, romantico e spero che apprezziate, comprendiate e vi aggradi.

Per ogni vostra curiosità comunque io sono qui pronta per rispondervi.

 

Ringrazio ogni visitatore, ognuno di voi che ha messo la mia storia tra le seguite e le preferite.

Ringrazio chiunque verrà qui d'ora in poi.

Con questo è tutto gente.

Il master sentitamente ringrazia.

 Io non sarei nulla senza coloro che leggono e condividono con me i miei sogni.Grazie per aver  vissuto con me questa storia, grazie grazie grazie.


I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally

   
 
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