Credits:
Uno dei quadri citati è totalmente inventato (e non
apparterrebbe
comunque alla corrente impressionista), mentre quello descritto per
la corrente del “Realismo” è intitolato
“Le Spigolatrici”,
opera di Jean-François Millet.
Note
dell'autore:
E'
una storia particolare per me. Il genere fantascientifico vale per
l'atmosfera in cui è calata la storia: ci tenevo a rendere
bene
l'idea di un futuro a metà fra il post-apocalittico e "1984"
di George Orwell, con i suoi regimi totalitari privi di
libertà e
che hanno paura del pensiero libero, ma nemmeno così in
là nel
futuro, con macchine super-evolute. E' particolare secondo me, ed
è
l'ennesima opportunità di dar sfogo alle mie teorie che i
concorsi
di Eylis riescono a darmi (no, non smetterò mai di
ripeterlo).
Noticina: ero tentata di mettere anche il genere
Romantico, ma a ben vedere ci possono essere varie interpretazioni
del legame che verrà a instaurarsi fra i personaggi di cui
leggerete; questo anche perché quando avevo delineato la
storia di
base non
era così che doveva andare.
Chi la leggerà avrà carta bianca da parte mia
comunque, in questo
senso. =]
Ultimissima nota: "Impressionismo" e
"Realismo" - che come saprete sono importanti correnti
artistiche dell'800 - citate da me nella storia, non sono quelle
originali (almeno non nel caso dell'Impressionismo); la loro
definizione è stata stravolta, e durante la storia potrete
capire
perché ve lo dico.
Ringraziamenti: A Eylis, perché grazie al suo
concorso ("La
Cornice e... l'Invisibile") ho potuto scrivere questa storia
(anche se ha vinto il settimo posto)!
Solo
macchie di colore
Luglio
224
L'ambiente
era grande, perfettamente illuminato. Un fascio di luce cadeva
esattamente sul quadro appeso alla parete che stava osservando;
attorno a lui c'era solo un vago mormorio, che andava crescendo
quando nella sala dal soffitto a botte passavano le mandrie di
bambini - non gli pareva giusto chiamarle scolaresche: troppo
chiassose, troppo maleducate, come gli animali: mandria andava
benissimo come definizione. Certo non la intendeva in senso
dispregiativo. Erano ben altri quelli che lui avrebbe chiamato
insulti.
Il quadro che stava osservando era uno dei più
importanti della mostra. Appuntò qualcosa sul taccuino,
cercando di
fare un velocissimo schizzo delle cose più interessanti.
Poche in
realtà, poiché l'opera era interamente composta
da macchie:
sembrava che l'artista avesse preso la latta del colore e ne avesse
lasciato cadere il contenuto sulla tela, senza curarsi di dove
sarebbe andato. Erano rare le pennellate, ma proprio per questo erano
più visibili. Gli storici dell'arte della sua epoca - ben
pochi,
quindi - chiamavano quella corrente "Impressionismo", che
aveva ben poco a che fare con ciò che veniva dipinto.
Annotò
ancora due frasi, poi mise il punto che decretò il suo
passaggio
all'ennesima opera della mostra.
Aveva ancora il capo chino sui
suoi appunti quando lo sguardo incrociò un paio di scarpe da
ginnastica. Poi un paio di jeans un po' lisi e scoloriti, una
maglietta gialla... pelle olivastra, capelli castano scuro nascosti
da un berretto e...
"Salve."
… due occhi color
giada, magnetici e ridenti.
Un ragazzino.
Ne ricambiò il
saluto con un cenno del capo, ma per incomprensibili ragioni fece
fatica a riscuotersi e volgere lo sguardo da un'altra parte. Alla
fine ci riuscì.
Questa
volta il quadro era quasi interamente rosso; qualche schizzo qua e
là
di verde e giallo coronava l'opera. Tutto lì. Si
appuntò il nome -
ovviamente provvisorio, ma sapeva che bene o male sarebbe rimasto
quello per
sempre
- e poi la presunta data. Fece per andarsene.
"Cosa vedi in
questo quadro?" gli domandò il ragazzino, all'improvviso.
Si
fermò. Non sapeva perché l'aveva fatto, era stato
istintivo. Così
come tornare indietro e rimettersi al suo fianco per osservare il
dipinto.
"Vedo quello che è stato dipinto: macchie di
colore."
Vide il ragazzino reclinare la testa di lato e
sbuffare.
"Tutti così voi apprendisti storici dell'arte: non
ve ne frega un tubo di niente di quello che potrebbe nascondere un
quadro dietro ogni pennellata, vero? Vi accontentate di prendere
appunti con i vostri taccuini." si lagnò. Non era una vera
critica, però. Sembrava più un'affermazione
consolidata
dall'esperienza.
"E' questo che ci è stato insegnato a fare
dai nostri maestri..."
Sentì
di doversi difendere.
Il ragazzino alzò le spalle, apparentemente
disinteressato a quella blanda scusa. Poi gli lanciò
un'occhiata
strana e sorrise.
"Come ti chiami, amico?"
"...
Sirius."
"Io sono Gabriel. Ho vent'anni anche se non
sembra."
L'altro rimase stupito: sapeva che a causa degli
sconvolgimenti naturali avvenuti negli ultimi duecento anni circa non
avrebbe dovuto fidarsi delle apparenze, ma l'idea che quel ragazzino
avesse solo tre anni meno di lui lo sconvolse.
"Già. Ti
facevo più giovane... Ora mi spiego perché mi hai
dato del
tu."
Gabriel rise.
"Sì, e ho rischiato grosso: per
quanto ne sapevo potevi avere persino quarant'anni!"
Sirius
non poté che dargli ragione. Inaspettatamente si
trovò a ridere di
gusto anche lui.
Metà
del mese, Luglio 224
Un'altra
mostra, stesso luogo. A Sirius cominciava a piacere quella
galleria.
Dal suo incontro con Gabriel aveva imparato a
soffermarsi di più su ciascun lavoro, senza prendere
eccessivi
appunti. Stava fermo immobile, con gli occhi puntati sulla tela.
Cercava di carpire i segreti che nascondeva.
"Ancora
nulla?"
Riconobbe subito la voce. Non si adirò per
l'interruzione, anzi sorrise. A fianco a lui c'era di nuovo Gabriel,
in una posa che imitava quella del loro primo incontro. Questa volta,
però, al posto della maglietta gialla indossava una camicia
a righe
e dei pantaloni bianchi, lisi... e sporchi. Questo dettaglio
colpì
la sua attenzione.
Ignorò la domanda precedente e gli chiese:
"Cosa è successo ai tuoi pantaloni?"
Gabriel si guardò
le gambe, perplesso. Quando notò anche lui la gigantesca
macchia
rossa allargò gli occhi.
"Oh, no! Non mi ero accorto di aver
preso quelli sbagliati...!"
Rimasero qualche secondo in
silenzio: Sirius perché non sapeva cosa dire, Gabriel
perché invece
sembrava riflettere. Poi l'espressione crucciata di lui si
rilassò,
e l'apparente ragazzino tornò a sorridere come se niente
fosse.
"Dettagli. Ormai sono qui, non posso certo tornare a
casa solo per cambiarmi dei pantaloni! Comunque non è
successo
nulla, tranquillo: non è sangue, se è questo che
temi!"
scherzò.
"No, certo che no..." risposte laconico
Sirius.
Si conoscevano da una quindicina di giorni, pensò
quest'ultimo. Avevano preso a frequentarsi anche fuori dalla
galleria; alla fine della mostra precedente, infatti, percorsa
interamente assieme, si erano dati appuntamento lì sugli
stessi
scalini su cui allora si stavano lasciando. La compagnia dell'altro
era piaciuta ad entrambi. Oltre alla sua passione per l'arte,
però,
Sirius non conosceva null'altro di Gabriel. Dove abitava, cosa faceva
per vivere... né perché l'arte gli piacesse
così tanto. Gabriel
sapeva che lui era lì per studiarla volendo diventare uno
storico
dell'arte, glielo aveva detto... ma l'altro perché era
lì?
"Comunque
non hai risposto alla mia domanda precedente."
"Cosa?
Scusa, ero soprappensiero..."
Gabriel rise.
"Ho
notato. Allora, visto nulla? Guardavi la tela come se avessi capito
qualcosa, finalmente..."
Sirius si prese qualche attimo per
riflettere. Lasciò da parte i suoi pensieri e
tornò a osservare la
tela, cercando di non pensare a Gabriel che lo guardava sorridendo
con quei suoi grandi occhi verdi.
Questa volta il quadro era
"Realista": si trattava di una scena di vita quotidiana, di
quelle che poteva ammirare anche lui dal balcone della sua vecchia
casa quasi ridotta in macerie, che si affacciava sui campi. Donne dal
capo coperto si affaccendavano a raccogliere le spighe sfuggite alla
mietitura.
Se avesse dovuto mettere a confronto il quadro con la
sua realtà, però, un particolare avrebbe stonato:
nella sua epoca
non c'era bisogno del lavoro di queste donne, poiché nessuna
spiga
sfuggiva alle macchine - che l'uomo aveva imparato ad usare solamente
da cent'anni.
La Storia, quella scritta sui libri, non lo
raccontava, ma chi aveva memoria lo aveva tramandato ai suoi figli,
che a loro volta lo avevano fatto con i loro. Era solo grazie a
questa catena infinita che lui poteva sapere la verità.
Duecentoventiquattro
anni prima il Mondo era ripartito da zero.
La Quarta Guerra Mondiale aveva raso al suolo tutto ciò che
esisteva. La razza umana aveva rischiato l'estinzione; si erano
salvati solo una ventina di individui, che avevano dovuto ricostruire
la loro società partendo dal nulla. A causa delle radiazioni
emesse
dalle bombe che avevano sterminato i loro simili, però, i
loro corpi
erano deboli. La maggior parte dei figli nati dalle loro unioni
crebbero così senza i genitori, senza memoria del passato;
solo i
pochi che avevano avuto la fortuna di poter crescere con chi li aveva
generati seppero la verità e poterono raccontarla.
La mente umana
non è un computer, però. Come ogni racconto
tramandato oralmente,
molti dettagli vennero persi... Uno di questi fu la datazione,
così
l'anno in cui la popolazione raggiunse i quattromila individui venne
chiamato Anno Zero.
La nuova umanità era ignorate. Non conosceva
la Storia, e quei pochi che sapevano negavano ogni accadimento prima
di tale data, se non la "nascita dell'uomo", portatore di
tutta la conoscenza grazie a cui potevano sopravvivere. Non importava
che palazzi e tecnologia esistessero già, che fossero
antecedenti
l'Anno Zero: prima non esisteva nulla.
Affermazioni
rafforzate dal Re, discendente del primo figlio nato dalla prima
coppia venutasi a formare dopo la catastrofe. Egli veniva chiamato
"Miracolo"...
"Ho capito, ti sei addormentato"
disse Gabriel.
Sirus si riscosse all'improvviso, strizzando gli
occhi. Si sentiva intontito, come se si fosse veramente addormentato
e si fosse appena risvegliato. Sospirò.
"Scusami, non riesco
a concentrarmi."
"Eppure prima che mi avvicinassi
riuscivi a guardare questo quadro tutto sorridente!" lo prese in
giro l'altro.
A quel punto Sirius, stupito, si girò verso di lui.
Incontrò immediatamente gli occhi di giada di Gabriel, il
cui
sorriso era decisamente troppo grande... e ammaliante.
"E-eri
qui?"
Balbettò
senza motivo.
"Ero qui, giusto a due passi... Volevo vedere
come te la cavavi senza di me" confermò.
Sirius tacque. Non
sapeva cosa dire, cosa pensare: si sentiva come un bambino che doveva
imparare ad andare sulla bicicletta senza le rotelle e il padre gli
diceva Non
ti lascio nemmeno un attimo,
che gli sarebbe stato sempre dietro... ma immancabilmente non lo
faceva.
E il bambino cadeva, facendosi male.
"Non me la
cavo molto bene" disse alla fine. Era la verità
dopotutto.
Gabriel annuì - e per la prima volta lo vide fare una
faccia seria - ma non commentò.
Poi gli chiese: "Secondo te
c'è qualcosa
anche in questo quadro, Sirius?"
Era anche la prima volta che
diceva anche il suo nome. Lo aveva sempre chiamato "amico".
"C'è
sicuramente un messaggio. Qualcosa di invisibile che tocca a noi
vedere, come nei quadri dell'altra mostra..."
Sirius girò
appena la testa.
Con la coda dell'occhio vide che Gabriel stava di
nuovo sorridendo, questa volta soddisfatto.
Alla fine della
mostra Gabriel gli disse "Vienimi a trovare, questo è il mio
indirizzo. Devo farti vedere delle cose". Gli cacciò in mano
un
pezzetto di carta tutto stropicciato e poi, letteralmente,
fuggì.
Quella notte Sirius pensò che quel biglietto doveva
aver rappresentato qualcosa di veramente importante per l'amico. Un
immenso passo avanti, difficile da compiere.
Altrimenti non si
sarebbe mai potuto spiegare perché quel bigliettino era
così
malridotto, come se il vecchio proprietario l'avesse stretto
più
volte nel pugno, indeciso...
* * *
L'edificio a cui
stava davanti non poteva definirsi tale. Era più un vecchio
rudere
abbandonato in mezzo ai campi, lontano dal centro sovraffollato della
città - dove c'era il museo. Sui suoi muri cresceva l'edera;
la
pianta arrivava fino al tetto, e da lì continuava ad
arrampicarsi
fino al camino, che poteva intravedere. A fianco della casa erano
cresciuti degli alberi, e Sirius rimase ad osservarne le chiome verdi
con interesse.
Gli facevano venire in mente gli occhi di
Gabriel.
Tutto lì sembrava "di Gabriel", perciò
concluse che il posto era quello giusto, non si era sbagliato;
Gabriel
non avrebbe mai potuto abitare in un posto diverso, si
disse.
"Sirius!"
La voce dell'amico arrivava da
lontano. Doveva averlo intravisto dalla piccola finestra, ora
spalancata. Un tralcio d'edera pendeva verso il terreno, come se il
ragazzo avesse spalancato con violenza qualcosa che non veniva
nemmeno aperto, solitamente.
Gli sorrideva da lontano, e Sirius
non poté che fare altrettanto. Così come non
riuscì ad evitare di
salutarlo con un cenno della mano invece che col solito cenno della
testa, dato che l'altro si stava sbracciando.
"Vieni, vieni!
Presto! Ti stavo aspettando...!" lo sentì dire mentre si
avvicinava.
Poi Gabriel scomparve. Riapparve sull'uscio del
rudere, totalmente vestito d'edera anche quello. Aveva un sorriso
gigantesco.
"Entra pure. Vuoi qualcosa da mangiare? E' stato
difficile trovarmi?"
Lo riempì di domande, causandogli una
risata. Fu breve però, perché non voleva fargli
pensare di stare
ridendo di lui. Anzi, il suo comportamento così strano, per
nulla
"adulto" o da maestro, come quello che teneva quando erano
al museo, era davvero... adorabile. Come se si trovasse davanti ad un
bambino, non più ad un ragazzo di soli tre anni
più piccolo di
lui.
"Le istruzioni erano chiarissime. Non ho fame,
grazie..." gli rispose gentilmente.
Fu in quel momento che si
accorse dell'odore che stava respirando da quando era entrato. Era
forte, gli faceva girare la testa ma allo stesso tempo era davvero
buono.
"Cos'è quest'odore?"
"Ti da'
fastidio...?" si preoccupò subito Gabriel, alzando la testa
di
scatto verso di lui.
Si era avvicinato a quello che sembrava un
cucinotto, sistemato nell'angolo più estremo della casa. Da
fuori
non sembrava, ma la casa era davvero grande. Quella stanza doveva
essere davvero gigantesca, non osava immaginarla senza tutti quei
mobili coperti da teli sporchi e teloni.
Deduceva che fossero
mobili, almeno. Cos'altro avrebbero potuto essere, dopotutto?
Gabriel
gli si avvicinò tenendo in mano due bicchieri puliti e una
bottiglia
di liquido ambrato.
"Bevi?" gli chiese con un
sorriso.
Sirius negò con la testa. "Sono astemio"
rispose.
L'altro scoppiò a ridere. Appoggiò forte la
bottiglia e
i bicchieri sul tavolo, poi si sedette su una cassetta di legno. Si
stava letteralmente piegando in due dalle risate.
"Amico,
amico! Non è quello che pensi, è solo banale
thé al limone, mica
liquore!" esclamò.
Sirius si sentì arrossire. "Oh."
Gabriel
prese qualche respiro profondo e riuscì a calmarsi. Quando
tornò a
guardarlo, però, il sorriso divertito non era scomparso
dalle sue
labbra e nemmeno il rossore sulle guance.
"Scusami, era una
domanda facilmente fraintendibile. Mi correggo..."
Cercò di darsi un tono; tossì. "Vuoi
qualcosa da bere?"
"Il thé andrà benissimo,
grazie."
Gabriel annuì soddisfatto e gli indicò un'altra
cassetta di legno.
"Quella purtroppo è l'unica sedia che
posso offrirti" si scusò.
Si sedette immediatamente,
dimostrando che ciò non gli dava affatto fastidio. Dovette
far
piacere a Gabriel, perché il suo sorriso si
allargò ancora di
più...
"Allora, cosa dovevi farmi vedere?" gli chiese
con noncuranza ma sorridendo.
... e poi sparì, così com'era
apparso al suo arrivo. Sirius si chiese cos'aveva detto di sbagliato:
aveva solo chiesto perché lo aveva fatto andare
lì.
Quando si
rese conto dell'errore si diede dell'idiota.
"No-non era una
rimostranza! Cioè, non volevo dire che mi ha dato fastidio
dover
venire qu-"
"Lo so" lo interruppe. Gabriel recuperò
una parvenza di sorriso. "Tranquillo, non è quello che hai
detto che...", e si bloccò.
Lo vide mordersi il labbro. Era
indeciso, ma perché?
"Dovevo farti vedere delle cose.
Solo... non sono più così sicuro...".
Lo guardò negli occhi alla ricerca di coraggio.
Sembrò racimolarne abbastanza per una semplice domanda.
"Perché
studi per diventare storico dell'arte, Sirius?"
Lo aveva
chiamato per nome... perciò era una domanda seria.
Cercò di
rispondergli al meglio.
"Voglio dimostrare al Mondo che
l'arte è lo specchio del Passato e che il Passato esiste."
Gabriel
annuì. Aveva ritrovato il sorriso.
"E ti piace l'arte? O la
studi solo per questo motivo?"
Sirius ci pensò.
"L'arte
mi piace. Mio nonno dipingeva per diletto..."
Vide
Gabriel agitarsi sulla cassetta a quell'affermazione.
S'insospettì.
"Non trovi stupido ciò che tuo nonno
faceva... vero?"
Sirius guardò Gabriel negli occhi: era
terrorizzato. Lo guardava come un condannato a morte guarda per
l'ultima volta chi gli è caro prima di morire. Come se
dovesse
perderlo da un momento all'altro.
"... No, non lo trovo
stupido, anzi."
Gabriel sembrò riprendere a respirare. I
suoi occhi luccicavano e Sirius continuò a parlare.
"Solo
che non capivo mai cosa mio nonno stesse dipingendo."
La
tensione svanì. Gabriel ridacchiò,
abbassò lo sguardo in modo che
non potesse vederlo mentre si portava una mano al viso. Quando la
ritirò, Sirius poté vedere sulle dita tracce
umide.
Lacrime.
"Perché stai piangendo, Gabriel? Perché
mi hai fatto venire qui...? Perché mi fai queste domande
proprio
ora?" non poté trattenersi dal chiedere.
Gabriel prese un
profondo respiro e si alzò. Nei suoi occhi non si vedeva
più paura,
solo un'emozione indefinita.
Prese a camminare lentamente verso
l'ammasso di teloni dall'altra parte della stanza.
"Oggi
l'arte è vista solo come strumento di svago. Il Miracolo ha
deciso
che deve essere solo un mezzo di intrattenimento di massa. La gente
deve avere un posto dove può distrarsi mentre lui racconta
bugie al
Mondo... Io lo so. So
che un Passato esiste."
Si
girò verso Sirius. In quel momento nei suoi occhi c'era
determinazione, e Sirius pendeva dalle sue labbra dopo quelle
affermazioni.
"Anche mio nonno dipingeva. Anche lui era
figlio di gente che Sapeva... esattamente come te. Dipingeva per
mostrarmi con le immagini ciò che avrebbe dovuto tramandarmi
a
parole..."
Afferrò un telone.
Sirius entrando non lo
aveva notato, ma tutti i teloni, uno escluso, erano collegati fra
loro. Per cui quando Gabriel ne tirò via uno, facendolo
cadere a
terra, caddero anche tutti gli altri.
Il tempo rallentò, i teloni
scivolarono via e i quadri vennero rivelati pian piano ai suoi occhi:
posti su cavalletti di legno o su mobili alti dalle superfici piatte,
i dipinti lo fissavano, con i loro bellissimi colori sgargianti, come
se fossero appena stati dipinti. Scene di ogni genere erano state
rappresentate con dovizia di particolari, come se si trattasse di
fotografie.
Uno in particolare lo colpì...
Sirius cominciò a
piangere. Sentì le lacrime rotolargli sulle guance mentre
guardava
il viso sorridente del suo anziano padre, abbracciato ad un altro
uomo che aveva un sorriso bellissimo sulle labbra. Lo stesso sorriso
di Gabriel, che ora era bagnato dalle lacrime.
“Mio nonno e
tuo padre erano amici. Condividevano le stesse idee e per lo stesso
motivo dipingevano. Avevano fondato un Circolo, che però
è stato
chiuso appena ne è stata scoperta l'esistenza: era troppo
pericoloso
secondo il Governo. Induceva la gente a pensare cose che andavano
contro ciò che diceva il nostro Miracolo” gli
spiegò Gabriel a
cena.
Mangiarono seduti allo stesso tavolo a cui avevano pranzato
e cenato suo padre e suo nonno.
“Ho conosciuto tuo padre prima
che morisse. Mi ha raccontato di te e del tuo sogno di diventare
storico dell'arte... Voleva che diventassimo amici.”
Sirius alzò
lo sguardo dal piatto, fissando il viso di Gabriel. Gli sorrise
apertamente, e l'altro fece lo stesso, senza crucciarsi della
mancanza di commenti. Quando poi lui tornò a mangiare in
silenzio il
loro gramo pasto, Sirius fissò ancora i quadri.
“Li hanno
dipinti tutti mio padre e tuo nonno?” chiese.
“Sì, tutti. Si
sono ispirati a ciò che gli avevano raccontato i loro
genitori.”
Sirius annuì. Era ancora abbastanza piccolo quando
suo padre gli aveva fatto vedere le sue opere, ma fra la moltitudine
che ora aveva davanti ne riconosceva alcune.
“Senti, perché la
prima volta che ci siamo incontrati in galleria mi hai rifilato
quella solfa?” gli chiese Gabriel all'improvviso, a bocca
piena.
“Quale solfa?” chiese l'altro, perplesso.
Gabriel lo
fissò con un sopracciglio inarcato.
“Vedo quello che è stato
dipinto” lo scimmiottò, poi sorrise.
“Eccetera,
eccetera...”
Sirius ricordò e rise.
“Per non essere
considerato un pazzo o un eretico dovevo pur fingere di essere
d'accordo, non credi?” rispose.
“Giusto.”
“E non potevo
certo sapere chi eri veramente...”
“Neanche io sapevo chi eri
tu.”
Sirius quasi si soffocò con il boccone.
“Cosa?!”
“Quando
mi hai detto che ti chiamavi Sirius mi è tornato in mente
tuo padre,
così mi sono buttato” ammise Gabriel con un'alzata
di spalle.
“Sei
stato uno sciocco! Lo sai, vero?” si arrabbiò
Sirius.
Non osava
nemmeno immaginare cosa avrebbero potuto fargli se lui non fosse
stato.... lui,
insomma. Il Governo era inflessibile su certe cose, e l'arte gli era
nemica. Per questo si arrabbiò.
Gabriel però ne rise.
"Me
ne rendo conto, però è andato tutto bene, quindi
non
pensiamoci!"
Sirius sbuffò e riprese a sbocconcellare il
cibo nel suo piatto, borbottando. L'altro rise ancora e
ricominciò a
mangiare anche lui.
Mentre ripuliva le dita dal brodo di pollo, a
Sirius tornò in mente l'unico telo rimasto. Si mise dritto
sulla
cassetta e, girando di nuovo la testa, lo fissò.
"Senti, è
da prima che volevo chiedertelo ma... Anche quello è un
quadro?"
gli chiese indicandolo.
Gabriel vide cosa stava additando e
arrossì. Mugugnò qualcosa che l'amico non
capì.
"Ehi,
parlo con te" gli fece notare ridendo.
"Sì, anche
quello... però non voglio fartelo vedere!" rispose
l'altro.
Gabriel era diventato tutto rosso e non osava guardarlo
in faccia, così Sirius si alzò velocemente in
piedi e si avvicinò
all'oggetto misterioso.
"No!" gli urlò dietro l'amico
quando se ne accorse.
Era troppo tardi, però. Sirius aveva
afferrato la copertura e l'aveva strattonata, rivelando ciò
vi era
nascosto sotto. Rimase a bocca aperta, senza parole. Dietro di lui,
Gabriel tossì imbarazzato. Probabilmente si stava mangiando
le mani
per non aver trovato un posto migliore dove nasconderlo...
"Ecco...
non volevo fartelo vedere fino a che non fosse stato finito."
Sirius
disse la cosa più stupida che potesse passargli per la testa
in quel
momento, invece.
"Dipingi anche tu."
Era ancora
scosso dal soggetto del quadro.
"Già. Dipingo le cose che mi
colpiscono, in vista di una prossima catastrofe e delle storie che
potrebbe fare la gente del futuro pur di non parlare del Passato"
scherzò senza convinzione Gabriel.
"Mi pare una buona idea,"
rispose seriamente Sirius. "Ma questo non sarebbe utile a
nessuno, penso... perché nessuno mi conoscerà nel
futuro".
Quindi
nessuno avrebbe potuto capire che quello era lui. Probabilmente gli
avrebbero dato anche un titolo totalmente diverso da quello che
avrebbe scelto Gabriel, come stavano facendo in quella stessa epoca
con i quadri che erano stati ritrovati.
Gabriel lo aveva dipinto
esattamente com'era, solo in modo più artistico: i capelli
serici di
Sirius avevano pagliuzze di bianco e di giallo vivo qui e
là, gli
occhi castani ne avevano invece di verdi, la pelle chiara era appena
più colorita lì dove c'era un po' d'ombra, e le
labbra erano di un
colore più scuro di quello reale, ad esempio. Inoltre non
tutto era
definito: la sua immagine emergeva da uno sfondo fumoso... magico.
Sembrava fluttuare, senza contorni precisi.
L'amico si fece
avanti, affiancandolo, e la magia svanì in un alito di
vento. Poi
Gabriel si avvicinò al quadro e alzò una mano per
toccarlo. Fermò
i polpastrelli a un centimetro dalla superficie, e rimanendo immobile
parlò.
"Non servirà a nulla conoscerti, Sirius. Non gli
servirà a nulla, perché il significato invisibile
di questo quadro
è semplice e immediato, ed è quello che conta."
Allora
si girò e gli sorrise. "Cosa vedi?"
Di nuovo quella
domanda. Sarebbe riuscito a rispondergli stavolta?
Sì, questa
volta sì. Si rese conto che la risposta gli saliva da sola
alle
labbra, e sorrise.
"Amicizia."
Il sorriso di Gabriel
era più luminoso che mai.
"Voglio vederlo quando sarà
finito. Sono sicuro che sarà bellissimo... dopotutto lo
è anche il
soggetto!" scherzò per la prima volta.
E Gabriel rise. Rise
e lo prese in giro per questa sua prima e unica battuta sino ad
allora.
Sì, si disse Sirius.
Sarebbe diventato uno storico
dell'arte.
Lo sarebbe diventato per lui.
Per lui e i suoi
quadri.
Per preservarli e farli arrivare integri nel futuro.
In
una cornice migliore di quella in cui erano stati creati,
perché se
la meritavano.