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Autore: DK_    15/07/2011    1 recensioni
A volte, proprio non riesci a lasciar perdere.
Genere: Horror, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio , Locke Cole
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Forever Rachel



Una fanfiction su FFVI

di DK






È quasi buio, e lui dovrebbe già essere a casa, e io mi sto lavando le mani in una tinozza di acqua torbida accanto al lavandino quando il mio anulare viene via.

Non sento dolore, solo un umido crac, come il suono del collo di un pollo che si spezza, e poi mi ritrovo a fissare ottusamente la rovina della mia mano mutilata.
Il dito si inabissa e sparisce per un attimo alla vista come un’anguilla prima di tornare a galla. Il cerchio d’oro è ancora lì, si staglia sgargiante e osceno contro la carne candida come il latte.
Il tutto termina in un lacero ciuffo di carne che lascia intravedere la protuberanza dell’osso, che ricorda un qualcosa che ci si aspetterebbe di trovare in una pentola, e lo guardo galleggiare combattendo l’impulso di vomitare, per paura di quello che uscirebbe se lo facessi.

Lo guardo, e penso, avresti dovuto lasciar perdere.

È sempre stato difficilissimo per me.

Anche mio padre me lo diceva quando non ero altro che una bambina, tutta gomiti, ginocchia e petto piatto, troppo piccola per la scuola, troppo grande per restare confinata un minuto di più tra le spesse mura della nostra casa.
Ricordo una passeggiata sui ciottoli illuminati dal sole della nostra città dopo un temporale, scavalcavo e saltellavo nelle pozzanghere salmastre, pestando vermi, cantando canzoni che avevo inventato, con in mano un pasticcino preso da casa.
Ricordo un ragazzo più grande che lo pretendeva, i suoi occhi vicinissimi e la sua testa di zucca e le sue dita avide, ricordo di aver fatto no con la testa, ricordo di aver resistito con tutte le mie forze fino a che non me lo strappò di mano e a me rimase soltanto un labbro gonfio e il vestito rovinato.
Avresti dovuto lasciar perdere, disse mio padre, medicandomi la faccia. Tamburellai con i talloni contro il bancone della cucina e ripensavo a tutte le parole che non osavo dire.
Era MIO.

Fu allora che decisi di non lasciare che nulla che fosse mio mi scivolasse di nuovo tra le dita. Ero una sciocca bambina cocciuta, e sono diventata una sciocca donna cocciuta che avrebbe dovuto imparare la sua lezione.

Il vento ulula attorno alla casa come un essere vivente, picchiando sulle imposte libere, battendo sui ciottoli rimanenti. La tempesta è forte, ma neanche lontanamente forte come quelle del primo anno del nostro matrimonio, delle tempeste uscite direttamente dall’inferno con tuoni simili alle grida e pioggia che odorava di zolfo e cadeva mista a sangue raggrumato.
Alle volte… cadevano anche delle cose.

Il mondo era diverso, allora. Diverso da come era stato, diverso da com’è ora. Era infranto, deturpato, ma comunque pieno di potere.
Certi giorni non era poi così male.
Certi giorni il cielo rosso sangue era pieno di linee brillanti che si spezzavano di colpo e lottavano all’orizzonte.
Certi giorni le urla delle cose che solcavano le pianure erano come un’ammaliante, strana melodia suonata da un flauto.
Era un mondo di orribile distruzione, ma era anche un mondo di magia.

La magia è morta. Lui e i suoi amici l’hanno uccisa in battaglia, e il suo sangue si è propagato attraverso il mondo, strofinando via tutte le tracce di quel che ne rimaneva.
Quasi tutta. Alle volte vorrei potermela prendere con loro, ma non è così semplice.
Sarebbe successo comunque. Anche io l’ho fatto. Io-
Avrei dovuto lasciar perdere.

Delle bende nella credenza. Pesco il dito dalla tinozza come meglio mi consentono i suoi rigidi simili, lo fisso dove dovrebbe stare e lo avvolgo goffamente con la mano libera.
È solo dopo aver finito che mi rendo conto di aver coperto il suo anello.
Gli dirò che mi sono bruciata mentre cucinavo. Riaprirò la fasciatura più tardi e sposterò l’anello all’altra mano, o lo infilerò su una collana.
Non deve sapere di tutto questo, lui-
Naturalmente lo sa. Credi che non possa sentire il tuo odore?

Un debole fetore, che ricorda un po' la carne andata a male e un po' un bordello, mal celato dal profumo di Nikeah, dal muschio di Nashe, dai fiori selvatici, dal bicarbonato di sodio e dal sapone di lillà, gli dei solo sanno quanto abbia provato senza mai riuscire a coprirlo davvero, mai.
L’odore è parte profonda di me.
Qualsiasi cosa io ci metta sopra ne prende il sentore, proprio come i fazzoletti ricamati tra le mie gambe, pizzo finissimo zuppo di sangue e pus.
Accendo le lampade perché così sarà tutto più luminoso quando sarà tornato a casa, e ripongo lo stufato sul tavolo, schierando perfettamente i piatti e le coppe subito dopo.
Ho sempre sognato di occuparmi di casa sua, fantasie di una bambina sciocca alimentate dalle bambole, ma quando è divenuto realtà, non avrei potuto essere più felice.
Non avevo rimpianti, e mi dicevo che non ne avesse neanche lui, nonostante il modo in cui l’aveva guardata, solo in quell’occasione, quando pensava che noi due fossimo distratte.

All’epoca, potevo crederci, quando ancora il vecchio vestito da sposa di mia madre era più chiaro della mia pelle, quando i miei capelli erano qualcosa di meglio di garbugli di paglia, quando potevo sentire il calore della sua mano nella mia mentre lui mi mormorava le parole giuste.
Lui è mio, pensai, e alzai il capo per sorridergli, e lui rispose al sorriso, e cancellai l'idea di lasciar perdere.

Mentre aspetto, mi verso un bicchiere di un sidro forte, e lo butto giù in un sorso solo.
Non ha un brutto sapore. Non ha più nessun sapore.
Chissà se ho più il bisogno di bere, ormai. Ho paura di scoprire la risposta.
Almeno posso ricordare il suo sapore, dolce, ardente e inebriante. Posso ricordare-
Eravamo giovani, e bevevamo troppo. Rotolammo fino al fienile, e mi mise la mano sotto la maglia, e mi baciò dolcemente e mi disse che l’amore era come il vino. Più a lungo durava, più diventava buono.
La tipica battuta che nemmeno gli autori di una crassa commedia Figariana si sarebbero sognati di inserire seriamente nel copione, la tipica frase confezionata su misura per una seduzione spicciola, ma sapevo che lui parlava col cuore.
Lo sapevo con tutto il corpo e le ossa mentre ci baciavamo di nuovo, mentre un delizioso brivido correva tra di noi, e lo sentivo alzarmi il vestito.
Amore come vino.

Ci credetti.
Per quanto mi si possa chiamare una folle cieca, a quei tempi era reale. Era tutto ciò che avessi mai desiderato.
Era come mangiare il fuoco e sentirlo ancora bruciare dentro.
Era amore, e non avevo alcuna intenzione di lasciarlo andare.
Neanche quando il ponte si spezzò sotto di me e le mie dita scivolarono dai suoi bordi frastagliati, né quando la spada del soldato Imperiale si addentrò nel mio seno sinistro, nemmeno quando la morte giunse per avvolgermi tra le sue dita intirizzite.
Neanche quando sapevo avrei dovuto.
Ricordo di essermi svegliata da un lungo sonno, di essermi ritrovata circondata da rose e da un intenso bagliore rosso. Ricordo di aver spalancato gli occhi e di averlo visto insieme ai suoi amici, tutti attorno a me.
Reggeva una pietra sfaccettata tra le mani, la fonte della luce che inondava la stanza. La luce sembrava solida, ed era calda, e fluiva fuori e dentro di me, riempiendomi col suo tocco, raccogliendomi da un posto che ricordavo a stento.
Rivederlo mi riempì di un desiderio familiare, più dolce e più puro di quello che avevo sentito quand’ero morta col suo nome sulle labbra.
Era vivo. Era felice. Avevo l’opportunità di dirgli ciò che provavo-
Ma qualcosa andò storto. C’era un’incrinatura nella pietra splendente, la si poteva vedere quanto percepire. Era ferita. Aveva fatto il possibile a riportarmi in vita, ma non era abbastanza forte.
Mi erano rimasti solo pochi minuti, che però avrei potuto usare per dire a Locke dei miei sentimenti per lui. Avrei potuto dirgli che lo perdonavo. Avrei potuto riposare, dormire-
Ricordo di aver pensato a quanto dolce sarebbe stato lasciare andare tutto, unirmi al potere che sentivo fremere dentro di me e intorno a me, guarirlo, e poi-
Poi vidi lei. Era alle sue spalle, alta, sottile e bellissima nella sua armatura, bellissima in un modo regale e implacabile con cui non avrei mai potuto sperare di rivaleggiare.
Non mostrava quasi alcuna emozione; il suo volto era di pietra, gli occhi azzurri brillavano di lacrime che non avrebbe mai versato.
Non mostrava nulla, ma io vedevo. Io sapevo.
Non grazie al potere che la magicite mi aveva conferito, ma grazie agli occhi che si erano soffermati centinaia di volte su di lui con la stessa espressione.
Avrei dovuto lasciar perdere.
Ma la vidi. Vidi come lo guardava. Vidi come lo voleva, e li immaginai che rotolavano nel fienile, sovrastati da un cielo limpido, scuro e screziato di stelle, e pensai a lui che le diceva che l’amore era come il vino, e qualcosa di caldo si accese dentro di me, un qualcosa che non aveva nulla a che vedere con la magia di Phoenix, e l’unica cosa a cui riuscii a pensare fu
MIO.
Infilai una mano nella fessura logora della superficie di Phoenix. Affondai le dita spinte unicamente da forza di volontà, e lo estrassi.
La magicite emise uno strillo tradito, sprigionando raggi di luce rosso rubino, frantumandosi tra le mani di Locke e cadendo a terra in mille schegge del colore dell’arcobaleno.
Sentii il suo calore perforarmi, e l’aria che sembrava zolfo ai miei polmoni aridi e tremanti. Il mio cuore ricominciò a battere, un rumore sordo ma regolare che non mi ero accorta fosse sparito finché non lo sentii di nuovo. Le mie guance si colorarono, piene di un malsano calore febbrile, ma non lo notai, perché lui stava accorrendo al mio letto, sollevandomi, abbracciandomi, mi bisbigliò che gli dispiaceva tanto, che mi amava, e che non mi avrebbe lasciato andare mai più.
Gettai uno sguardo oltre le sue spalle. In quel momento, uno spasmo contorse il viso della bella donna, fugace e macchiato di sensi di colpa, e tutto il suo corpo ebbe un fremito convulsivo.
Ma l’istante successivo non c’era più nulla, e lei sorrideva, e sapevo che era degna di lui, che si sarebbe presa cura di lui se fossi morta.
Non mi importava. Non ero morta. Ero lì, e le sue braccia mi stringevano forti e ferme, e odorava di cuoio, sudore e di quella fragranza che appartiene solo a lui.
Il pavimento era deliziosamente freddo sotto i miei piedi scalzi. Le lacrime mi sgorgarono dagli occhi e il mio cuore, che non si era fermato un minuto, pulsava velocissimo.
Ma più di ogni altra cosa, sentivo calore. Come se una fiamma mi stesse ardendo nel ventre. Come se una scottatura indolore mi avesse bruciato tutto il corpo.
Ero viva. Gli sarei stata fedele quanto lui aveva giurato di esserlo a me, e saremmo stati insieme, per sempre.
Passò quasi una settimana prima che il calore cominciasse ad affievolirsi. Nel giro di un mese cominciai a sentire il freddo.
Ora il gelo vive dentro di me, e ho dimenticato tutto il resto.
Ieri sono finita sul calorifero e non me ne sono accorta finché non ho abbassato per caso lo sguardo.
Non ho sentito la pelle bruciare. E nemmeno l'odore.
Un’altra benda.
La porta si apre con uno scricchiolio e lui si affretta a entrare, sbattendosela dietro di sé per tenere fuori la tempesta.
È bagnato fradicio per la pioggia, le spalle ricurve, i capelli flosci e smorti ai bordi del viso.
Mi alzo dal tavolo e vado da lui, sfilandogli con cura il soprabito e appendendolo. Gli chiedo com’è andata la sua giornata.
Lui non risponde. Mi sta fissando la mano.

« Mi sono scottata mentre cucinavo » mento. Non lo guardo.
Sento il mio odore, forte e terribile in contrasto col soffio dell’aria fresca della tempesta che lui ha lasciato entrare.
Santi numi, l’intera casa deve-
« Mi spiace » dice, con un sorriso che gli accarezza i lineamenti.
Sembra vecchio.
Provo a convincermi che sono stati la giornata dura alle miniere o il viaggio di ritorno nella tempesta a ridurlo così.
« Sei sempre la solita sbadata dopo tutti questi anni. Devi fare più attenzione. »
E di colpo è troppo.
Di colpo persino un commento banale come quello mi ricorda il brav’uomo che è, e ciò che gli sto facendo. Ciò che lui si sta facendo.
Lo circondo con le braccia prima di accorgermi di quello che sta succedendo.
Il mio cuore ha un improvviso e doloroso attimo di cedimento, vecchi nervi morti che cercano di battere.
Premo il volto nella sua spalla e mi viene voglia di piangere.
Mi viene voglia di dirgli di andarsene, mi viene voglia di salvarlo da me e da se stesso.

Mi viene voglia di dirgli che il nostro amore non è come il vino.
È come latte andato a male. È veleno.

« Ti amo » mormora, passandomi le dita tra i capelli.
Sento un piccolo strappo, e capisco che una ciocca se n’è venuta via con le sue dita. Gli bacio il collo con le mie labbra aride e fredde che devono essere come il tocco di un serpente.
Lui riesce a non tremare. Troppo.

Non posso lasciar perdere. Non ho mai saputo lasciar perdere, dimenticare.
Nemmeno lui può.
Una parte di me vorrebbe solo che se ne andasse. Vorrebbe che io avessi la forza di dirglielo.
So che non lo farò mai.
Andrò avanti così, giorno dopo giorno, rompendomi, consumandomi, finché non sarò altro che un pezzo di carne informe che si contorce in un letto, e lui non mi abbandonerà neanche allora. Non mi abbandonerà perché ha visto me ogni volta che la guardava negli occhi, e si odierebbe.
Io non lo lascerò perché l’ho promesso. Perché lui ha promesso. Perché lui è mio.

« Io – io avevo in mano la pentola a pressione » balbetto quasi incoerentemente, allontanandomi.
Le lacrime mi rigano il viso, spesse e rapprese, ma ci sono. Posso ancora piangere.
È già qualcosa.
Lui le spazza via, facendo scivolare il pollice sulla guancia sotto quel che resta del mio occhio destro, e si sforza in una risata gutturale.
« Scema. Avresti dovuto lasciarla perdere. »





Nota dell’autore: Scritta in una notte. Idea random. Folle fic random. Molto schifo.
Grazie a chiunque abbia suggerito di usare Locke come un minatore. Penso fosse L Cully/nistelle.

Nota della traduttrice: che è sempre youffie XD Volevo soltanto ringraziare Valy_Chan per il beta-reading <3
(rivista molto, molto rapidamente il 15/07/2011)
   
 
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