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Autore: Melanto    23/07/2011    11 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lungo sonno della Lucciola
- Part XII: The men who sold the world -

 

La prima cosa che i suoi occhi videro, non appena si aprirono, fu quel puntino isolato, perduto nel cielo sempre senza sole. Tremolava di un bagliore deciso, che nonostante minacciasse di spegnersi da un momento all’altro, continuava a rimanere lì, testardo.
Una stella.
«E’ sera.»
Proprio come il finto Mamoru gli aveva detto, se n’era reso conto da solo.
- Sì. È arrivato il momento. -
La creatura fece scivolare via il braccio e anche se il gesto fu lento e gentile, il significato non cambiò: era ora di andare.
Yuzo abbandonò la spalla, contro cui era rimasto appoggiato, controvoglia. Gli parve che il tempo si fosse rallentato ulteriormente. Il cielo era bloccato su quella stella, il mare aveva smesso di mormorare le sue onde, la brezza era scomparsa. La fissità, l’artificialità dell’illusione in cui si era rinchiuso gli divenne tanto evidente da infastidirlo. Gli venne voglia di sfondare a suon di pugni quel mondo di cartone.
Si alzò, ripulendo i calzoncini dalla sabbia, e Mamoru fece altrettanto. Si ritrovarono uno di fronte all’altro, ma mentre il suo accompagnatore non aveva alcun timore a guardarlo dritto negli occhi, lui il suo sguardo lo faceva vagare tra i granelli di sabbia che carezzavano i loro piedi.
- Cosa hai scelto? -
Non rispose.
- Non c’è più tempo, Yuzo. - incalzò Mamoru con calma. - Non hai ancora capito cosa stavi cercando? -
«Ti ho già detto che non ho nulla da cercare» rispose, un po’ brusco. Odiava essere messo alle strette, aveva bisogno di spazio e tempo e invece, seppur in maniera più dolce, la creatura lo stava chiudendo all’angolo, proprio come aveva fatto suo padre.
Mamoru accennò uno strano sorriso che lui non vide.
- Hai almeno pensato a quello che vuoi davvero? -
«Sì.»
Certo che ci aveva pensato, aveva pensato alle conseguenze e si era risolto che avrebbe scelto ciò che avrebbe fatto meno soffrire le persone a cui teneva. Solo che era troppo difficile e si era reso conto che ci sarebbe sempre stato dolore, qualunque fosse stata la sua decisione.
Mamoru non gli diede tregua.
- Allora? - Silenzio, ancora. - Yuzo. -
Questa volta, il tono deciso con cui venne proferito il suo nome lo costrinse ad alzare lo sguardo.
Quello di Mamoru era scuro come il mare più profondo, in cui la luce non arrivava più e il blu diveniva nero. - Vuoi andare… - gli vide girare il viso verso la tavola d’acqua infinita. Andare oltre. Morire. -…o vuoi tornare? - gli occhi di nuovo nei suoi. Tornare a casa. Vivere.
Delle due l’una, non esistevano più vie di mezzo.
Yuzo guardò il mare, il fluire delle onde che si era cristallizzato nel fermarsi dell’illusione. Non avanzavano, le creste non si infrangevano.
«Non posso sperare che le persone cambino dall’alba al tramonto. Dentro di loro, resteranno sempre le stesse. Certo, per un po’ ci si potrà illudere che le cose siano diverse, ma poi tutto finirà col tornare come prima. E tornerà il dolore. Se invece si andasse avanti, partendo da qui, il dolore passerebbe, con il tempo. Passerà.» lo guardò, l’espressione di Mamoru era indecifrabile. «Io vado.»
La verità era che aveva una paura fottuta di entrambe le cose.
L’altro non replicò, ma lo scrutò talmente in profondità che Yuzo lo sentì come entrare in lui, attraverso gli occhi, e scavargli il petto. Per la prima volta ne ebbe timore.
Poi, Mamoru sbatté le palpebre e sollevò il mento, spezzando il filo di tensione che si era creato.
- Sei sicuro? -
«Solo gli sciocchi non hanno dubbi» provò a scherzare e la creatura gli concesse un sorriso leggero.
- E sia, dunque. Allora non ti resta che salutare. -
«Dobbiamo già separarci?»
- No, io non stavo parlando di me. - ma si corresse. - Volevo dire, dovrai salutare anche me, ma alla fine. Ora devi andare e salutare loro. -
Il panico dilagò negli occhi di Yuzo come una macchia d’olio nell’acqua.
«Loro? Loro chi? Di che parli?!»
- Le persone a cui tieni di più. È la prassi. Abbandonerai per un po’ questo altrove per tornare nel tuo mondo fisico, ma ricorda: loro non ti vedranno. -
«Ma… ma io non-»
Il finto stupore sul viso del suo interlocutore era odioso. - Qualcosa non va? Mi sembravi deciso fino a un attimo prima, perché ora vacilli? -
Yuzo indietreggiò di un passo. Si sentì di nuovo messo alle strette e in questi casi agiva sempre in maniera impulsiva.
«No, io… certo che sono deciso! Ma mi stai mentendo! Non è affatto la prassi!»
- Io non mento - tuonò Mamoru, secco. Poi addolcì il tono in maniera ironica. - Non mi credi? -
Sì, lui non mentiva. Di solito. Yuzo lo sapeva che in quel caso, però, gli stava rifilando una balla, ma non ebbe il coraggio di insistere.
«Che succederebbe se… se io non volessi farlo?»
La creatura si strinse nelle spalle. - Niente, oggettivamente, ma c’è il rischio che tu possa pentirtene per l’eternità. E quando parlo di eternità non scherzo. Una volta dall’altra parte, il tuo tempo diventerà eterno e non potrai più fare nulla se sarai attanagliato dai rimorsi. Rimarrai infelice per sempre. -
Quelle parole sembrarono convincerlo. Mamoru sapeva benissimo come piegare le sue reticenze.
Afflosciò le spalle in segno di resa.
«Che devo fare?»
L’altro sciolse un sorriso più dolce, e questa volta sincero. Recuperò quel passo di distanza che Yuzo aveva messo tra loro e gli sfiorò una guancia affinché il giovane alzasse di nuovo lo sguardo su di lui.
- Dovrai solo chiudere gli occhi, al resto penserà il tuo cuore. Sarà lui a portarti dalle persone che, più di tutti, desideri salutare. - Yuzo annuì. - Noi ci troveremo alla fine del viaggio. -
Ma lui aveva paura di sapere cosa lo avrebbe aspettato una volta che il tempo e l’opportunità di rivedere tutti fosse terminato.

 

“(Grace, grace) /
(Grazia, grazia)
Reaching out, looking for some way to escape the crowd /
Allungando la mano, cercando un modo per scappare dalla massa,
you whispered words that I’ve been searching for /
hai sussurrato le parole che stavo cercando.
Somehow you answered my call /
In qualche modo hai risposto alla mia chiamata.
Reaching out I feel I’m rising up /
Allungando la mano, sento che sto risalendo.

 

A Yuzo bastò chiudere gli occhi un momento per ritrovarsi altrove nell’attimo in cui li riaprì. E quell’altrove non era sconosciuto o una sua proiezione mentale. Quella era Nankatsu e quella era la casa dei suoi nonni materni.
L’immagine di nonno Kyoshi, seduto nel piccolo giardino dietro casa magari intento a leggere proprio un volume che gli aveva prestato lui, gli fece desiderare di poter scappare via. Fuggire a gambe levate. E se era così terrorizzato anche senza averlo ancora visto, figurarsi dopo.
Ad ogni modo, non poteva tornare indietro, ma solo andare avanti. Percorrere l’ultima tratta di quel viaggio e dire addio.
Avanzò con passo incerto all’interno del cortile anteriore. Diversamente da casa sua che era recintata da siepi e muretto, con cancello automatico e quant’altro, quella del nonno aveva una bassa staccionata che delimitava il giardino posto sul retro e un piccolo cancelletto che l’uomo chiudeva solo la sera, infatti lo trovò socchiuso. Yuzo scivolò all’interno, camminando sull’erba accuratamente tagliata e rendendosi conto di come i suoi passi non producessero il minimo rumore. Inspirò a fondo prima di girare attorno alla casa e poi espirò lungamente, come sollevato, quando vide che suo nonno non c’era. Non sapeva perché il suo cuore l’avesse portato proprio lì, ma continuò a camminare.
La vetrata che introduceva nel salotto era aperta, nell’oscillare della tenda sul principio della sera, e lì ebbe le risposte che stava cercando. E che lo uccisero con la peggiore delle armi a disposizione: il senso di colpa.
Seduta al tavolo, c’era sua madre. Aveva gli occhi fissi su di un fascio di gigli, unica nota chiara nella semioscurità.
Yuzo rimase a guardarla da lontano, realizzando la sua presenza così vicina. Si rese conto che gli era mancata più di quanto avrebbe mai creduto. E anche se avvertiva il cuore perforato da spine, percepì un calore intenso affievolire il dolore.
Si avvicinò; lei non sentì i suoi passi, guardava i fiori toccandone i petali con gli occhi, occhi stanchi, addolorati, mentre le mani restavano ferme sulla superficie del legno.
Yuzo le si sedette di fronte. Sorrise.
«Ciao, mamma.»
Haruko non rispose, fuori un grillo aveva già iniziato a cantare. Lui la rivide candida come quei gigli in giorni d’estate simili a quelli, ma perduti in memorie lontane. Fece scivolare la mano sulla superficie, poggiandola su quella della donna.
«Chi te li ha regalati? Sono belli. Sei bella, mamma.»
Negli occhi di Haruko qualcosa si smosse e le dita sussultarono. Sollevò lo sguardo, improvvisamente lucido di lacrime, e schiuse le labbra.
Lo guardava, ma non lo vedeva.
«Finirà presto, te lo prometto. E questo dolore… lo porterò via con me.»
Lui sorrise ancora e chiuse gli occhi, lasciandola ai gigli e al canto dei grilli.

 

“Suddenly, I’m up on the surface now where I can see /
All’improvviso, sono sulla superficie, ora, dove posso vedere
and picture the person who I need to be /
e immaginare la persona che ho bisogno di essere,
and I know, yes I know I can make it /
e so, sì lo so che posso farlo.
See me now, I’m slowly rising up /
Guardami ora, sto lentamente risalendo.

 

Il fischio d’un treno gli disse che era altrove e riaprì le palpebre.
Gente seduta o in piedi era silenziosamente attorno a lui. Chi leggeva il giornale, chi ascoltava la musica. Un vagone della metropolitana.
Chi poteva mai aver raggiunto?
«Sì, sono in metro.»
Quella voce provenne nitida, lì accanto, familiare. Amata.
Yuzo restò come ghiacciato sul posto, convinto di non aver la forza per fare nient’altro se non restare immobile. Eppure, più ascoltava quella voce, più la necessità di girarsi diveniva vera, reale, e il suo corpo non era che una marionetta nelle mani di quel desiderio.
«Sì mamma, il viaggio è andato bene. Ci vediamo più tardi. Ciao.»
La punta del piede, il frammento di gamba, risalire lungo il ginocchio e poi la coscia, il fianco, il braccio, il profilo del petto, la spalla. La persona che gli era accanto entrava lentamente nel suo campo visivo. I capelli scuri erano raccolti in una mezza coda legata alla buona che lasciava scoperta la linea del viso e la direzione dello sguardo fisso sul cellulare, ora chiuso.
Sospirò il suo nome con la stessa meraviglia con cui si evocano le cose preziose.
«Mamoru…»
Quello vero.
Gli parve di non vederlo da un tempo infinito per quanto, in qualche modo, fosse rimasto accanto a lui da che quel sonno era iniziato, ma le sensazioni che stava provando erano differenti. C’era una quiete piacevole, nel suo cuore, quando si trovava con la creatura che ne aveva assunto le sembianze. Adesso, invece, sentiva quello stesso cuore battere così forte da fargli male. Esplodere. Gli spilli conficcati più a fondo nella carne, fino alla testa. Sorrise d’estasi mentre affogava nella consapevolezza che il loro ultimo incontro sarebbe stato un addio.
«…sei proprio tu…»
Mamoru non lo udì; la spalla poggiata contro il palo di ferro che correva accanto a dove era seduto, il viso inclinato verso il basso e fili corvini, che sfuggivano alla coda spettinata, scivolavano lungo la tempia e poi restavano a oscillare nel vuoto ai movimenti del treno.
Aveva la bellezza incantatrice dei miraggi.
Yuzo abbassò lo sguardo, notando il borsone giacente tra i piede. Il sorriso assunse una nota entusiasta.
«Sei tornato da Yokohama? Deve essere bellissima in questo periodo. E come stanno andando gli allenamenti? Guarda che Marzo arriva in fretta, vedi di impegnarti, ma cerca di non fare sempre di testa tua.» La sua risata si infranse contro il silenzio del suo profilo.
Gli occhi di Mamoru erano sempre lì, ancorati su quel telefono, sembrava aspettassero qualche chiamata importante e invece, a scrutarli a fondo, non osservavano nulla; il suo sguardo passava attraverso le cose e restava chiuso in spazi mentali invalicabili. Era talmente perso che sobbalzò quando il treno si fermò alla stazione, avvisando i passeggeri. In fretta afferrò il bagaglio e lasciò il mezzo.
Yuzo gli tenne dietro, camminando al suo fianco. Nel via vai frenetico della gente, gli sembrò esistessero solo loro due.
«Come mai non sei tornato a casa? Non sei stanco per il viaggio?» addolcì il tono, valutando il passo deciso con cui il suo migliore amico camminava. «Dov’è che stai andando?»
All’esterno della metropolitana il cielo era viola e indaco. Il tramonto era morto in un’agonia di rosso e arancio di cui non c’era più traccia. La loro pelle venne baciata dal suo ultimo fiato, caldo di scirocco. Era brezza piacevole che stemperava la calura del giorno.
Yuzo capì quanto gli fosse mancato parlare con lui solo in quel momento, mentre gli restava accanto. Certo, c’era stata la creatura misteriosa e senza nome, ma non era la stessa cosa. Avrebbe voluto parlare con Mamoru in eterno, ma poi si ricordò che aveva scelto di andare avanti, perché tornare avrebbe fatto troppo male, in futuro. Così cercò un particolare inutile cui aggrapparsi, per non sentirsi già morire prima d’aver completato quell’addio. Lo trovò nel suo gesto di spegnere il cellulare ed eclissarlo nella tasca dei jeans.
«Non dovresti spegnerlo e se ti cercassero? Che direbbe la ragazza con cui devi vederti?» Sorrideva, ma il solo pensiero lo feriva, anche se non ne aveva alcun diritto. «Lo so che hai un appuntamento. Sono sempre stato bravo a indovinare quando si tratta di te…» sospirò, rassegnazione sul viso, ma non smise di sorridere. «Sì, sono sempre stato bravo.»
Si fermarono entrambi davanti a un attraversamento pedonale illuminato di rosso. Mamoru si sciolse i capelli con un gesto deciso. Sul volto, persisteva un’espressione triste che continuava a guardare le cose pur non vedendole.
Yuzo inclinò leggermente il capo.
L’attraversamento divenne verde.
«Perché quella faccia? Non puoi presentarti a un appuntamento galante con quell’espressione mogia, altrimenti la ragazza penserà che ti scoccia la sua compagnia.» Rise. «E vedi di trattarla bene, quante volte t’avrò detto che non si gioca con i sentimenti altrui?» lo ammonì bonariamente, agitando l’indice. Come nulla fosse. Come se Mamoru potesse davvero vederlo e arrabbiarsi per quel tono da saputello che lo mandava in bestia perché gli seccava dover ammettere che aveva ragione. Illusione. In qualsiasi altrove sarebbe andato, le illusioni sarebbero sempre rimaste con lui.
Proprio in quel momento il giocatore dei Marinos si fermò all’improvviso e Yuzo si volse, arrestandosi qualche passo più avanti. Mamoru aveva lo sguardo sollevato e fisso in avanti. A lui parve che il piglio severo si sciogliesse in una malinconia che gli spezzò il cuore. Quell’espressione non gliel’aveva mai vista, quella smorfia che trasmetteva dolore nonostante fermezza.
«Siamo arrivati?» domandò, leggermente titubante, e tornò a guardare al lato opposto.
La struttura dell’ospedale gli spezzò il cuore a metà, rivelando una matrice intricata di spine.
Il suo ex-compagno di scuola lo superò; aveva ripreso a camminare. I passi più veloci di prima cui lui si accodò, con qualche attimo di ritardo. Non disse più nulla, non l’interrogò. Lo seguì in silenzio all’interno dell’edificio, tra corsie semideserte a quell’ora e infermiere vestite di bianco che passavano loro accanto, accennando saluti con il capo. L’odore dei medicinali gli provocò una vertigine.
Vide Mamoru percorrere quasi di corsa gli ultimi metri, fino a fermarsi davanti a un vetro. L’aspettativa sul suo volto scemò e si spense nell’ennesima attesa delusa.
Sulle prime non ebbe il coraggio di raggiungerlo, mentre l’altro rimaneva lì, immobile, a guardare oltre quella barriera trasparente. Lo osservò a distanza, convinto che sarebbe rimasto inchiodato in quel punto, ma di nuovo, come quando si era trovato in metropolitana, il suo corpo divenne marionetta di una forza non sua che muoveva i fili. E li muoveva bene, anche se avvertiva i piedi pesanti. Le due metà del suo cuore erano tornate a fargli male. Non erano morte nell’attimo stesso in cui si erano separate, ma avevano raddoppiato il dolore. Aveva una sensazione. La sentiva strisciare. E questa sensazione gli sussurrava a chiare lettere il nome della persona che Mamoru stava contemplando con tanta afflizione. Il nome di chi si nascondeva al di là del vetro.
Raggiunse l’amico, lo affiancò.
E si volse.
Gli occhi divorarono sé stesso, il proprio corpo immoto in quel tripudio di lenzuola bianche e pareti candide, di tubi e flebo che nutrivano. Aveva gli occhi chiusi.
«Stai ancora dormendo…»
Mamoru lo disse con un tormento che lo pugnalò alle spalle, proprio come lui aveva pugnalato tutti loro. Le lacrime gli salirono agli occhi e non sapeva se fosse per la vista del proprio guscio vuoto, per la sofferenza che avvertiva provenire dal suo migliore amico o perché Mamoru fosse andato da lui ancor prima di tornare a casa. Da lui. Lui soltanto.
Fece per allungare una mano sul vetro, quando l’altro si mosse, entrando piano nella stanza. Lui lo seguì prima con gli occhi e poi col resto di sé. Sgusciò all’interno, avanzando con passo lento e misurato. Si fermò all’altro lato del letto guardando il proprio corpo con la gola arida e i brividi.
Mamoru lanciò il borsone accanto alla porta e il tonfo che fece fu così secco da farlo sussultare. Sul viso del giocatore dei Marinos c’era ora un’espressione gelida e distaccata. Arrabbiata.
Lo vide avvicinarsi al letto, le mani nelle tasche, e guardarlo dall’alto. Torreggiava sul suo corpo come il corvo sulla carcassa di una preda. Poi, si appoggiò alla sbarra laterale.
«Per una volta ti trovo da solo, senza tuo nonno o tua madre. Bene, così possiamo finalmente parlare, noi due.» Aveva un tono sprezzante, carico di rancore.
Yuzo si rese conto, per la seconda volta, di non aver mai visto nemmeno quella di espressione.
«Non aspettarti carinerie o parole di conforto perché da me non ne avrai.» Si sporse, il viso minaccioso che si avvicinava al suo, e la voce si trasformò in sibilo. «Stronzo. Bastardo. Vigliacco. Idiota. Che diavolo ti è saltato in mente?! Che fine ha fatto il tuo coraggio?! Te lo sei giocato a carte insieme all’intelligenza, imbecille?!»
Yuzo sorrise, nonostante le parole. Anzi, forse proprio in virtù di esse. Chissà da quanto tempo Mamoru le aveva tenute chiuse dentro di sé, in attesa di potergliele sputare contro e sfogarsi. Lo capì dal modo in cui il viso era contrito, dal rossore che gli aveva colorato le guance, da come stringeva il manico della sbarra tanto da tremare.
«Hai… hai una seppur vaga idea di quanto io sia incazzato?! Credo proprio di no, altrimenti ti saresti svegliato da un pezzo. Beh, sappi che sono così furente che se non fossi in un letto di ospedale ti cambierei i connotati a forza di sberle!» Mamoru prese fiato, inspirando a fondo. Si guardò intorno e si costrinse ad abbassare la voce o avrebbe fatto accorrere le infermiere. «Ti rendi conto di quanto stiano soffrendo i tuoi genitori? Tua madre è piantonata qui ogni singolo giorno ad aspettare un miracolo e anche tuo padre… sì, proprio tuo padre, Yuzo, la persona che tanto detesti, viene per restarti accanto!»
Quella notizia lo stilettò al ventre. Incassò il colpo, indurendo l’espressione. Non doveva dargli importanza, sapeva che tanto si sarebbe trattato solo di un’altra, fottuta illusione, perché le persone non cambiavano, non cambiavano mai.
«E ti rendi… ti rendi conto di quanto noi, tutti noi, i tuoi amici, stiamo soffrendo nel sapere di non poterti avere più nella nostra vita?» La rabbia era scemata, si era ritirata come l’onda sulla battigia. La presa attorno alla sbarra aveva perso di forza fin tanto da sciogliersi. Il viso di Mamoru aveva abbandonato il piglio contrito e rancoroso, lasciando solo un’espressione di resa, sconfitta. «Ti rendi conto di quanto stia soffrendo io?... no, tu non lo sai… non lo sai.» Lo vide ingoiare con sforzo, gli occhi lucidi, all’improvviso. Il giovane distolse lo sguardo e si portò una mano alla fronte. «Scusa.»
Yuzo si sentì annegare nella sua rassegnazione, nel suo dolore che era denso, colloso, ci si restava invischiati e bruciava come sale su ferite impossibili da rimarginare.
«Vai via, Mamoru… vai via non restare qui…» Lo supplicò, ma l’altro rimase. Era così frustrante non essere uditi.
Il terzino riprese il controllo e tornò a sollevare lo sguardo. Guardò il braccio del portiere, disteso lungo il fianco, rosa contro bianco. Fece scivolare le dita lungo la pelle, fino a prendergli la mano e Yuzo strozzò un respiro a metà; avvertì di netto il suo calore che lo carezzava adagio, con dolcezza, tanto che si guardò la propria mano, ma era fatta di niente mentre quella che Mamoru stava altresì stringendo era reale. La sua parte reale. Come nella matematica dei numeri complessi. Lui era la parte immaginaria.
«Perché hai fatto una cosa così stupida? Proprio tu… che sei sempre stato quello più misurato tra noi, quello più calmo. Perché non ne hai parlato con me? Avremmo potuto trovare insieme una soluzione, una qualsiasi… Io non ti avrei mai lasciato affondare. Perché non l’hai fatto?» Il terzino continuava ad avere gli occhi fissi su quelle dita strette nelle proprie, aspettava davvero delle risposte e Yuzo si sporse, s’avvicinò al letto e stavolta fu lui ad afferrare con forza le sbarre di sicurezza. Così vicini, ma distanti anni luce.
«I-io… io volevo…»
«Non dire bugie.»
Yuzo sussultò. Che l’avesse sentito?
Mamoru sollevò lo sguardo sul viso addormentato, le sopracciglia ancora aggrottate, ma questa volta stava sorridendo. «Tanto lo so che sarebbero la tua risposta. Vero?» Stancamente, si sporse di nuovo. «Credevo davvero di conoscere cosa nascondessi dentro di te. Sul serio, lo credevo.»
«Ma è così! Tu sei quello che mi conosce meglio!» la sua voce si fece accorata, mentre le mani stringevano ancora più forte. «Meglio di chiunque altro, Mamoru!»
«Non era abbastanza.»
Dagli occhi neri, una lacrima precipitò in caduta libera lungo la guancia e Yuzo tacque, affogando in essa. La presa che si scioglieva, priva di forza.
Mamoru scrollò le spalle e iniziò a ridere, ma quella risata faceva male. «Lo sai? Sto diventando pazzo. Sempre più spesso mi ritrovo a parlare da solo. E ho paura degli scoppi. Non riesco più a vedere un film d’azione né i fuochi d’artificio. Ogni volta che sento uno sparo… penso a te… e non respiro più. Te l’ho detto, sto diventando pazzo. Te ne parlo così, magari, ti senti almeno un po’ in colpa e decidi di tornare.»
Più vicino al suo viso, il giovane gli sfiorò la fronte dove le bende venivano cambiate giornalmente. Ci voleva tempo affinché le ferite rimarginassero del tutto, ma i segni non se ne sarebbero più andati. Al massimo sarebbero stati camuffati, nascosti, e seppure gli occhi degli altri non li avrebbero visti, lui avrebbe sempre saputo che sarebbero stati lì.
Yuzo percepì il contatto con le sue dita che ora toccavano dove le fasciature non riuscivano a coprire. Il sorriso di Mamoru non si mosse.
«Deve essere davvero un bel sogno, eh, Yuzo? Altrimenti ti saresti già svegliato da tempo. Ma non puoi dormire per sempre… abbiamo ancora un sacco di cose da fare, da vedere… da vivere… quindi, torna presto.» Si avvicinò ancora, tanto che il portiere avvertì il suo respiro contro la palle, il calore delle labbra sulla fronte e l’umido delle lacrime piene di dolore. «Impazzirò del tutto se non lo farai.»
Un brivido lo attraversò da capo a piedi; in ogni parte dello spirito sentì quel vibrare gelido che arrivò a pungergli gli occhi nel vederlo chino su di lui, fronte contro fronte, e nuove lacrime nei begli occhi neri ora serrati.
Gli venne da piangere e si toccò la fronte, proprio lì, dove avvertiva la sua presenza.
«Non volevo… farti questo… non volevo…» ma le sue parole avevano un suono che non poteva raggiungerlo e rimasero lì, sospese nella sua realtà solitaria.
Mamoru deglutì a fatica e tornò ad alzarsi, passandosi poi il dorso della mano sul viso. «Ci vediamo domani, ok?» attese per un attimo quella risposta che non arrivò e infine lasciò finalmente la sua mano, con estrema lentezza e cura. Prese il borsone, uscì dalla stanza, fermandosi ancora un momento a osservare il corpo di Yuzo dal vetro.
Lo spirito del portiere gli tenne dietro, quasi rincorrendolo.
«Perché non torni?» sospirò Mamoru ed era a pezzi. Il cuore era un mosaico scomposto di tasselli abbandonati. Appoggiò la fronte contro il vetro. «Perché?…»
Yuzo si fermò alle sue spalle, guardando quella schiena che gli era sempre sembrata solida e forte, incrollabile. Mamoru era sempre stato sicuro di sé e delle sue azioni. Non l’aveva mai visto così, sembrava non avere più una direzione, sembrava aver perso l’ago della propria bussola. Ed era tutta colpa sua.
Le due metà del suo cuore si frantumarono in altre decine di pezzi, così tanti che non avrebbe più saputo rimetterli insieme.
«Perdonami…»
Sussurrò, facendo scivolare le mani attorno al suo corpo, la testa appoggiata sulla spalla.
Mamoru sussultò, sollevando il capo di scatto. Una sensazione forte di calore sul ventre e la spalla. Una sensazione familiare, come se qualcuno lo stesse abbracciando. Poteva quasi avvertire la presenza d’un corpo dietro di sé. Esalò un respiro strozzato mentre gli occhi tornavano sulla figura distesa nel letto.
Appoggiò una mano sull’addome, dove avvertiva quel tepore piacevole.
«Yuzo…»
«Sono qui…» ma il portiere sapeva di non essere un’entità fisica e tangibile. Lui era spirito, una proiezione mentale, e poteva essere semplicemente avvertito, come una sensazione diversa, ma niente di più. «…guardami, sono qui.»

 

“You give me grace /
Mi dai la grazia,
in a world that doesn’t sleep at all /
in un mondo che non dorme del tutto.
You give me grace /
Mi dai la grazia,
it’s a place I’ve never been before /
è un posto dove non sono mai stato prima.
You give me grace /
Mi dai la grazia
and in all of the confusion you’re the peace in my soul /
e in tutta la confusione, tu sei la pace nella mia anima,
that’s why I will never really be alone /
ed è per questo che non sarò mai davvero da solo.

Well yeah, these are difficult times /
Bene, sì, sono tempi difficili,
these are difficult days /
sono giorni difficili,
but I know we can face it /
ma so che possiamo affrontarli.
Ours are difficult lives /
Le nostre sono vite difficili,
in a difficult place /
in un posto difficile.
Oh you give me grace to say when I got it wrong /
Oh, mi dai grazia di ammettere quando sbaglio,
the grace and the will to carry on /
la grazia e la volontà di andare avanti.
Reaching out I feel I’m rising up /
Allungando la mano sento che sto risalendo.

Simon WebbeGrace

 

«Ciao.»
Quella voce fece sobbalzare entrambi.
Mamoru si volse di scatto alla propria destra, mentre Yuzo scioglieva l’abbraccio. Le reazioni furono diverse, i sentimenti che le mossero anche.
«Signor Morisaki!» Mamoru si sentì come preso alla sprovvista. Si passò velocemente una mano sugli occhi per riprendere il controllo, e proferì quel glaciale. «Salve.»
Yuzo, invece, aveva avuto la sensazione di morire davvero. Inchiodato sul posto. Lo stomaco ritorto, la testa che pulsava velocemente e con forza; aveva freddo, un freddo di cui non riuscì a liberarsi. Era paura. Paura di rivederlo, di leggere la disapprovazione nei suoi occhi, il rancore, il disprezzo. Di avere la conferma che le persone non possono cambiare mai per davvero. Ma tutto ciò che i suoi occhi videro fu un uomo in abiti così informali che, sul momento, non gliel’avevano fatto riconoscere.
«Papà...», lo squadrò da capo a piedi, «ma… dov’è la tua… la tua cravatta e… e la giacca e… quelli sono… jeans? Hai la barba…»
L’uomo aveva un’espressione accogliente che non aveva mai visto in lui. Si rivolse al giocatore dei Marinos, accennando un sorriso – un sorriso –.
«Eri passato a salutarlo?»
«Sì. Sì, io… io stavo andando-»
«Ah! Ma resta!» Baiko s’affrettò a fermarlo, gesticolando animatamente. «Resta qualche altro minuto, Mamoru.»
Di nuovo, entrambi lo guardarono come se lo vedessero per la prima volta.
«Ma… come fai a sapere il suo nome? A te… non è mai importato niente dei miei amici…» Yuzo era confuso.
Mamoru, invece, non si sarebbe mai aspettato che potesse trattenerlo, non dopo quello che era successo. Spostò lo sguardo dall’uomo al vetro e poi di nuovo all’uomo. Avrebbe voluto rifiutare con il solito modo scostante, oppure approfittare del fatto che erano da soli, questa volta, e sputargli contro tutte le sue colpe. Invece, non fece nessuna delle due cose. «D’accordo.»
Baiko si mostrò entusiasta e gli indicò le sedie che costeggiavano il muro, proprio lì accanto. Si sedettero ai capi opposti ed erano visibilmente a disagio, chi per un motivo e chi per un altro. Yuzo, da parte sua, continuava a non credere a quello che stava vedendo, eppure i suoi occhi non mentivano. Si avvicinò di un passo, mantenendosi più distante.
Fu suo padre a rompere il silenzio. Vide il borsone di Mamoru ed esordì: «E… e tu dove giochi?»
«Yokohama.»
«Ah! Yokohama! E’ una città così… così vitale, tecnologica. Ci sono stato varie volte, per lavoro.»
Il portiere era sconvolto: suo padre parlava dei propri affari con un ragazzo che nemmeno conosceva?!
«Quindi tu sei con i… i Marinos, giusto?»
Quello era il colmo: suo padre parlava di calcio? Ma se lo aveva sempre detestato!
La stretta allo stomaco non si allentò, ma sembrò assuefarsi a quella strana ansia, ignorandola completamente. Era troppo preso da loro, in quel momento, da quel dialogo surreale.
«Sì.» Anche Mamoru era perplesso, guardava il padre del suo migliore amico di sottecchi. «E lei… è venuto per leggergli qualcosa?»
«Oh, no! Quest’oggi musica!» Baiko mostrò il lettore mp3.
«Capisco.»
L’uomo gli parve diverso. A dire il vero, non era la prima volta che lo incontrava all’ospedale. Sapeva che lui andava di sera mentre la signora Haruko restava lì tutta la mattina e il pomeriggio ed era già da un po’ che gli era sembrato… strano. Anche quando se l’era trovato davanti dopo che aveva aiutato suo padre. Gli era parso così lontano dalla persona che era stata prima dell’incidente; le maschere della severità e del rigore si erano come dissolte, solo che lui era stato reso cieco dalla rabbia repressa che non aveva saputo controllare. Strinse le ginocchia nelle mani.
«Hai parlato un po’ con lui?-»
«Signor Morisaki, sono davvero dispiaciuto per quello che le ho detto, l’altro giorno» lo interruppe parlando d’un fiato senza guardarlo negli occhi. «Mio padre mi ha riferito che lei, nonostante tutto, ha preso le mie parti. Sappia che un po’ mi ha comunque rimproverato. Me lo meritavo.»
Yuzo si fece di colpo più attento: di che parlavano? Che era successo?
«Non preoccuparti.» Baiko scosse il capo, l’aria di tranquillità che lo circondava sembrava infrangibile e pareva quasi espandersi per avvolgere chi gli stava intorno. «Non hai bisogno di scusarti, in fondo, è la verità. Se Yuzo ha agito in un determinato modo è solo a causa mia, ne sono consapevole.» Sospirò, girandosi a guardare il vetro e la sagoma del figlio che si riusciva a intravvedere. «Io non l’ho ascoltato quando avrei dovuto farlo, ma ho continuato a tirare dritto seguendo le mie convinzioni, nemmeno fossi stato uno schiacciasassi. Ero così sordo e cieco che… che non mi ero accorto di non conoscere niente di lui.» abbassò lo sguardo sul lettore musicale che rigirava tra le mani. «Per la prima volta, dopo anni, che sono entrato nella sua camera… ho capito che gli unici ricordi che avevo di Yuzo erano quelli in cui era un bambino che correva sulla sabbia e rideva… Non conoscevo la sua vita, non conoscevo i suoi gusti, ignoravo i suoi sogni e le sue aspirazioni. Certo, mi aveva parlato del calcio, ma non lo avevo ascoltato. Non l’ho ascoltato per così tanti tempo che abbiamo finito col divenire due estranei.»
Yuzo si rifiutava di credere a quello che stava sentendo. Si rifiutava. Doveva esserci qualche distorsione nella realtà, magari proprio ad opera della strana figura che gli aveva fatto compagnia. Suo padre non era tipo da dire certe cose, con un estraneo per giunta. Non poteva essere così… Anche quella era un’illusione, illusione che le persone potessero cambiare, ma suo padre non era mai cambiato in tutti gli anni che lui aveva provato a parlargli, a capirlo e farsi capire.
«Che padre di merda.» Baiko si mise a ridere, volgendosi a guardare Mamoru.
Ridere.
Le labbra aperte, curvate verso l’alto, i denti snudati, il naso arricciato.
Era come guardarsi allo specchio.
In quella smorfia allegra, in quell’esternazione della felicità, loro si assomigliavano davvero tanto come gli avevano sempre ripetuto.

«Ti prendo! Ti prendo!»

«E’ così che dite voi giovani, vero? Siete un po’ più sboccati di com’ero io alla vostra età, ma in fondo il concetto non cambia. Ho dovuto aspettare che lui arrivasse allo stremo della sua sopportazione perché mi svegliassi e mi rendessi conto di quanto avevo perso e stavo ancora perdendo.» Baiko si illuminò. «Lo sai che abbiamo quasi gli stessi gusti musicali? Certo, quelli che ruttano nel microfono glieli lascio più che volentieri, ma… ma ci piacciono le stesse canzoni dei Beatles.» Sul volto un’espressione estatica. «E Bowie… mio figlio ascolta Bowie e io non lo sapevo. Io, invece, ho scoperto che mi piacciono i Nirvana.»
«I Nirvana?! Papà! Ti sei ascoltato i miei CD?!» Per Yuzo quella fu la riprova che quell’uomo non era suo padre, non poteva esserlo. Suo padre era…
«Sono stato uno stupido idiota. Ma voglio rimediare. Sto cercando di fare tutto quello che mi è possibile per cercare di recuperare il tempo perduto; non è detto che io ci riesca, ma non sono disposto a cedere.» L’uomo sorrise al giovane al suo fianco. «…tu che ne pensi?»
Mamoru non rispose subito, ma d’improvviso si rese conto che per quanto fosse stato arrabbiato con lui, ora sentiva che qualcosa era definitivamente cambiato. «Dico che a Yuzo verrà un colpo quando la vedrà.»
Baiko sbottò a ridere di cuore, grattandosi la nuca. «Oddio, sì. Credo proprio di sì. Lo lascerò sconvolto, tanto che penserà d’esser finito nel posto sbagliato.»
Mamoru rise con lui. Erano giorni che non lo faceva, che non rideva davvero, e ora gli veniva una voglia disperata di piangere che non riusciva a spiegarsi, era così contraddittoria.
Baiko lo osservò passarsi più volte le mani sugli occhi per cercare di nascondere le lacrime e camuffare il rossore. Non aveva più dubbi, che in parte erano già stati fugati dalle fotografie che aveva trovato in camera di Yuzo, ma ora poteva dire d’essere certo al cento per cento che il sentimento di suo figlio era reciproco. Tempo fa non l’avrebbe mai detto d’esser così sensibile e attento. Sorrise con affetto.
«Tieni molto a lui» esordì, attirandosi lo sguardo del giovane, che arrossì visibilmente, cercando rifugio nei capelli lunghi.
«Sì, signore.»
L’uomo appoggiò il viso in una mano. «Ne sono felice. Per fortuna Yuzo ha trovato degli ottimi amici. Credo che sia grazie a voi se è riuscito a sopportarmi fino ad ora. Grazie a te.»
Mamoru era a disagio, si vedeva. Lo sguardo vagava per il pavimento. Non doveva mai aver affrontato quel discorso con nessuno. Probabilmente, pensò Baiko, nemmeno con i suoi genitori. Accentuò il sorriso. C’era sempre una prima volta.
«Ami mio figlio, non è così?»
Il terzino balzò in piedi come se gli avessero appena infilzato il sedere con un forcone, l’espressione incredula, ma mai quanto quella di Yuzo, che, invece, era di totale sgomento.
«Papà! Ma che diavolo stai dicendo, sei impazzito?! Mamoru, dannazione, digli qualcosa!»
Ma le labbra di Mamoru s’aprirono e chiusero un paio di volte, senza emettere suono. Abbassò lo sguardo e serrò i pugni lungo i fianchi.
Yuzo si volse lentamente verso di lui.
«Mamoru…» lo guardò come lo vedesse per la prima volta. I pezzi del suo cuore si sciolsero per tornare una pasta compatta e gli spilli abbandonati non si mescolarono più con il sangue.
«Sì.»
Negli occhi, il terzino aveva un’espressione colpevole.
«Perché non glielo hai mai detto?» Baiko mantenne un tono tranquillo e calmo, sereno, che confuse entrambi.
«Come facevo?! Mi avrebbe odiato a morte!»
«Beh non puoi saperlo se non provi.»
«Papà ha ragione!» Yuzo si intromise anche se non poteva essere udito, il fatto che avesse appoggiato suo padre passò in secondo piano. «E poi non ti avrei mai odiato, ma… ma come ti viene in mente una cosa simile?!» Il suo spirito era un crogiolo di emozioni che si dibattevano come anguille, attorcigliandosi tra loro.
«Diglielo quando si sveglierà.» continuò Baiko. «Non esitare, rischi di perdere l’attimo e poi… potresti rimpiangerlo per tutta la vita.»
Il rimpianto. Yuzo pensò alle parole del suo accompagnatore: anche lui avrebbe finito col rimpiangere in eterno il rifiuto di salutarli. E forse, solo adesso, cominciava a capire perché quell’essere avesse insistito tanto, fino ad arrivare a mentire, purché lui li incontrasse ancora, un’ultima volta.
Mamoru scrutò l’uomo con uno strano timore. «Non… non è disgustato o… contrario?»
«No, oh no. Affatto.» Baiko sbuffò un sorriso. «Poco prima che Yuzo si sparasse gli avevo detto che ci sarebbe mancato solo che lui fosse stato un deviato... Avrà pensato che ero un mostro. Da quando sto rischiando di perderlo, mi sono ritrovato a rivedere tutte le mie priorità e ho capito che l’unica cosa davvero importante, per me, è riaverlo indietro. Non mi importa del resto, lui è e resterà mio figlio, non cambia nulla. Gli voglio bene per quello che è.» Incrociò le mani sulle gambe, tornando a sorridere. «Promettimi che glielo dirai, Mamoru.»
«E… e se…»
«Non sono i ‘se’ a mandare avanti il mondo. Fidati di me: andrà bene.»
Yuzo lo guardò senza riconoscerlo o, forse, vedendolo per la prima volta. «Tu… tu lo sai. Sai che anche io sono come lui. E non ti arrabbi?» Era sconvolto.
Quante cose erano cambiate dal momento in cui aveva chiuso gli occhi. Ma lui sapeva… era sempre stato fermamente convinto che le persone non potessero cambiare in maniera così radicale, arrivare a stravolgere sé stessi tanto in profondità.
«Che ti è successo, papà?» gli domandò, non riuscendo a capire chi avesse di fronte adesso; una persona diversa o forse… forse solo quella che era stata un tempo, prima di chiudersi in un’austerità invalicabile.
Mamoru annuì piano alle parole di Baiko. «Glielo prometto.»
L’uomo sorrise con un certo sollievo, alzandosi di slancio. «E’ l’ora del jukebox!» esclamò, passando accanto al giovane. Affettuosamente gli strinse la spalla e lo superò per entrare nella stanza dove riposava suo figlio.
Yuzo non lo seguì subito, ma rimase accanto al suo ex-compagno di scuola. Lo osservava con dolcezza, rimanendo sulla linea del suo sguardo, anche se gli passava attraverso.
«Me lo dirai davvero? Guarda che ci conto.»
Mamoru aveva un leggero sorriso; lo superò e tornò a fermarsi presso il vetro, osservando Baiko che parlava animatamente con suo figlio, mentre lo spirito di quest’ultimo decise che era arrivato il momento di ascoltarlo.
Piano entrò nella stanza, camminando a passo lento. Si portò davanti a lui, per poterlo osservare meglio.
«…e visto che ti ho dato anche una mano con chi-sai-tu», stava dicendo l’uomo, «appena ti sveglierai mi dovrai un favore, quindi ce ne andremo a vedere la partita dei Giants.» Lo vide sfregarsi furbescamente le mani e lui non riuscì a trattenere una risata.
«Sei… un patito di baseball? E da quando?»
«Ehi, ehi, non ridere, ok? Tu non lo sai, ma io giocavo da giovane, ero il miglior lanciatore del liceo. Lo sai come mi chiamavano?!»
Il portiere si avvicinò al bordo e si sedette sul letto. «No, come?»
«Braccio di ferro!»
Yuzo rise più forte. «Braccio di ferro?!»
«Braccio di ferro, sissignore! Non ero niente male» si gongolò l’uomo, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo schienale della sedia. Aggrottò le sopracciglia mentre l’espressione si faceva mesta. «Avrei potuto continuare, ma… ma un giorno, dopo il diploma, tuo nonno mi disse che il tempo dei giochi era finito. Ti ricorda niente?»
Yuzo abbassò lo sguardo. «Quindi… anche tu…»
«A volte, quando ci si sente vittima delle scelte dei propri genitori si pensa sempre: ‘Ah! Non farò mai una cosa simile a mio figlio! Io sarò diverso’. E anch’io lo dissi, tanto tempo fa. Chissà che succede poi quando le situazioni, le frasi, le ingiustizie si ripresentano tal quali. Ci dimentichiamo troppo facilmente di quello che diciamo, dovremmo pensarci di più.» Baiko fece scivolare le braccia, disincrociandole. «Io avevo dimenticato tutto di me e non avevo mai conosciuto te. Un vero spreco…» sollevò lo sguardo con decisione e un sorriso più convinto; gli prese una mano e Yuzo avvertì quel calore familiare di quando era piccolo e, con quelle stesse mani, suo padre lo prendeva in braccio. Aveva sempre avuto un tocco rassicurante.

«Ti prendo! Ti prendo!»

La sabbia sotto i piedi, il sole negli occhi, il mare nelle orecchie. Due braccia che lo afferrano e lo sollevano nel suono di risate che però non era più riuscito a vedere. Ma ora quel viso era riemerso dai ricordi sommersi dalle incomprensioni. Era tornato in superficie, e il suo sorriso era come se non se ne fosse mai andato, una memoria che si sapeva già di avere, annidata da qualche parte troppo in profondità per essere tirata fuori. Il suo sorriso era lì. Lo aveva trovato.
Se stava davvero cercando qualcosa, forse era proprio quello.
«…ma possiamo cambiare tutto! Possiamo recuperare quel tempo che ci siamo negati. Che io ti ho negato! Certo non possiamo tornare indietro, ma possiamo sempre andare avanti e quello che ci siamo lasciati alle spalle ce lo racconteremo perché non vada perduto.» Si sporse verso il suo corpo, sistemando meglio la sedia e prendendogli la mano con entrambe le sue. «Ad esempio, comincio io. Ecco, vediamo, oggi… oggi sono andato al mare, dove ti portavo sempre quando eri piccolo. Te lo ricordi?»
Andare avanti.
Avevano addirittura ripreso a parlare la stessa lingua.
Andare avanti e non tornare indietro.
Andare.
Morire.
Yuzo continuò a sorridere. «Certo che me lo ricordo.»
«Sono andato lì, con la Smith&Wesson. La 15 Special.» Baiko spostò lo sguardo sulle dita immobili di suo figlio, racchiuse tra i suoi palmi. «L’ho smontata interamente e l’ho lanciata dagli scogli. Pezzo per pezzo.»
«Ma papà, era la tua preferita!»
«Lo so che non è molto Natura Friendly, ma… dovevo farlo. Al mare sono legati i ricordi più belli che ho con te… volevo che divorasse anche i peggiori.» L’uomo inspirò a fondo, negli occhi aveva uno sguardo sereno. «Niente più armi in casa. Domani mi disferò anche delle altre, ma prometto di non gettarle a mare, questa volta!»
Yuzo era titubante. Era sempre stato convinto che gli piacessero e che facesse il suo lavoro perché amava farlo, ma forse, alla fine, nemmeno lui conosceva davvero suo padre. E quel pensiero lo sconvolse. Lui, proprio lui che aveva tanto sindacato sui suoi comportamenti, che si era sentito vittima della sua ottusità… era stato ottuso a sua volta.
«Dopotutto, non ne ho più bisogno perché oggi ho lasciato l’azienda.»
«Cosa… hai fatto?!»
Baiko sorrideva e questo lo confuse più di quanto non fosse già.
«Eh, sì. L’ho lasciata a tuo cugino Shunsuke. Ha sempre messo passione in quello che faceva perché amava lavorare lì, io, invece… la vuoi sapere la verità?» si avvicinò, le sopracciglia aggrottate e anche Yuzo si sporse. «L’ho sempre odiata.»
«Eh?!»
«Anche io sono stato costretto a lavorarci, nonostante non lo volessi. La ‘Golden Gun’ è stata la tomba dei miei sogni per anni e anni, lì dentro ho seppellito me stesso, sotto la polvere da sparo e il piombo. Ma… penso che i sogni siano un po’ come le fenici e in fondo al cuore non muoiano mai. Per questo ho deciso di iscrivermi all’università… un’altra volta. Voglio finalmente fare quello che ho sempre desiderato e cioè l’architetto.»
«Davvero?! Volevi fare l’architetto?!» Yuzo se ne scoprì fortemente entusiasta e la sua fantasia corse più veloce del tempo, immaginando l’uomo dietro un grande tecnigrafo a disegnare case, magari proprio in quello studio sempre dominato dalla penombra delle tende pesanti, tirate dietro la scrivania. Avrebbero dovuto toglierle e lasciare che la luce entrasse prepotentemente per illuminare fogli e disegni, squadre, matite. Ridacchiò, sarebbe stato un disordinato cosmico, ne era sicuro, e in quella convinzione sentì gli occhi farsi lucidi e qualcosa graffiare dall’interno del suo cuore di nuovo integro per venire allo scoperto.
«Non lo sapevo… io non ti conoscevo… Parlami ancora un po’ di te, papà…»
Come se l’avesse sentito, Baiko si riscosse. Anche lui era rimasto a osservare suo figlio per alcuni momenti, ma il silenzio che cadeva quando taceva gli pesava come una macigno. Lo schiacciava nemmeno l’avesse avuto sulle spalle. Così, s’animò, lasciando la mano di Yuzo per prendere il lettore mp3.
«Allora, quest’oggi niente lettura. Anche se vorrei davvero sapere se quel Talbot del libro ha un debole per il Primo Tenente.»
Yuzo arrossì fino alla punta delle orecchie. «Oddio, papà, mi stai leggendo Golding?! Ma quel libro è pieno di hint slash!»
«Secondo me, il Primo Tenente ci starebbe!»
«Ossignore, cosa devo sentire.»
«Ma lo scopriremo un’altra volta. Guarda cosa ho portato?» Baiko srotolò il filo delle cuffiette, mettendone una Yuzo che avvertì il contatto al proprio orecchio e le dita di suo padre sulla guancia che lo carezzarono con affetto, come quando era piccolo. Ricordò anche quello. Era meraviglioso. «Ho scelto le canzoni che ho preferito dai tuoi CD. Abbiamo gusti molto simili, lo sapevi? E ce n’era una che volevo ascoltare con te… ho visto che è la tua preferita, l’hai scritta un po’ ovunque. Sui libri, sui quaderni... lo sai che anche io lo facevo? Scarabocchiare sui libri, intendo. Tuo nonno si arrabbiava un sacco per questo.»
«Papà, a parte che entrare nella camera di un figlio diciannovenne è come ritrovarsi in un campo minato, ma ti sei messo anche a spulciare tra i miei libri?» scosse il capo, non era veramente arrabbiato, più che altro divertito. E commosso. Suo padre stava davvero cercando di recuperare il tempo perduto, voleva davvero conoscerlo. E non era l’illusione di un momento passeggero; era sicuro che quello non sarebbe cambiato e che niente sarebbe più tornato indietro. Il dolore avrebbe avuto una fine. Sarebbe passato, come era stato sicuro. Ma si ricordò che lui non ne avrebbe fatto parte, perché era lì solo per dire addio e dopo sarebbe scomparso, lasciando le illusioni a loro, questa volta.
Baiko fece partire la musica, prendendogli nuovamente la mano, e le note della canzone arrivarono all’orecchio di Yuzo, che poggiò interamente la mano sulle sue. Il cuore, fermo nello stomaco, continuava ad avere qualcosa che lo graffiava, che voleva uscire. Si sarebbe spezzato di nuovo.
«Oh, sì… questa la adoro…» mormorò.
Aveva preso la scelta sbagliata?
«E’ anche la mia preferita» confessò l’uomo e si mise a canticchiarla.
Fuori dalla stanza, Mamoru era rimasto a osservare il lungo monologo portato avanti dal padre di Yuzo. Come sapevano cambiare le cose, in maniera così profonda da stravolgere un’intera esistenza. Le vite delle persone erano tutte collegate, come una fragile catena. Bastava rompere un anello e tanti altri avrebbero potuto rompersi di riflesso, per le semplici vibrazioni. La loro catena aveva un anello spezzato, ma non ancora rotto del tutto, mentre loro… loro erano in bilico: se Yuzo fosse morto, si sarebbero frantumati con lui.
«Mamoru?»
Il giocatore dei Marinos si volse, notando la figura della signora Haruko. Le fece un inchino. «Buonasera.»
La donna appariva stanca, eppure lesse serenità nei suoi occhi.
«Ero sicura fossi tu. Sei appena tornato?»
«Sì, poco fa, e sono passato a trovarlo. » Il giovane sbuffò un sorriso, tornando a guardare oltre il vetro. «Abbiamo avuto tutti la stessa idea.»
Anche Haruko si volse e non nascose la sorpresa, non tanto per la presenza di suo marito – sapeva che l’avrebbe trovato ancora lì – quanto per tutto il resto.
«Ma che sta… facendo?»
Il sorriso di Mamoru si allargò. «Gli sta cantando una canzone, l’avrebbe mai detto?»
«No…», gli occhi della donna si inumidirono per l’emozione, «…no, non l’avrei mai detto.»
Ma le cose, ormai, non erano più come prima, inutile negarlo, però era una sensazione piacevole. La stessa che l’aveva condotta all’ospedale, quella sera. Quando quel pomeriggio Baiko l’aveva raggiunta a casa e le aveva dato quel fascio di gigli non aveva sentito nessun sentimento astioso. Sorpresa, tanta, e incertezza. E voglia di tornare di nuovo uniti, tutti e tre, insieme. Il rancore era morto, soffocato da qualcosa di molto più forte: l’amore per la sua famiglia.
«We passed upon the stairs, we spoke of was and when. Although I wasn’t there, he said I was his friend. Which came as some surprise, I spoke into his eyes: ‘I thought you died alone, a long long time ago…’»
Si misero a canticchiare entrambi, sembravano una coppia di vecchi amici che non si vedevano da tempo e avevano un sacco da raccontarsi.
«Oh, no. Not me. I never lost control. You’re face to face with the man who sold the world.»
Avevano tanto da ricordare e condividere, ancora. Perché non l’avevano mai fatto prima? Perché non avevano mai cercato di parlare o ascoltare. A muso duro avevano sempre portato avanti le proprie convinzioni, con una testardaggine che li rendeva davvero padre e figlio.
Yuzo era stato disposto ad andarsene via di casa per non tornare più.
Baiko aveva confuso autorità con tirannide.
Senz’armi, s’erano già uccisi a vicenda nello sciogliersi del tempo.
In quei versi trovarono così tanto di loro che si sentirono come se qualcuno avesse sventrato i loro toraci per cavarne i cuori. C’era sangue dappertutto e il loro sangue era lo stesso, stessa radice, stessa origine.
«I laughed and shoock his hand, and made my way back home. I searched for form and land, for years and years I roamed. I gazed a gazely stare at all the millions here. We must have died alone, a long long time ago…»
La voce di Baiko si incrinò e si fece più incerta nel realizzare che suo figlio sarebbe potuto restare lì, immobile e silenzioso, con gli occhi chiusi per anni interi, che non avrebbe potuto rimediare a tutti i suoi errori né avrebbero potuto recuperare il tempo perso, e imparare a conoscersi per quello che erano. Non avrebbe mai potuto chiedergli scusa. Non avrebbe mai potuto vederlo giocare. Non avrebbe mai potuto vederlo sorridere, parlare delle stupide ‘cose da uomini’ o qualsiasi altra cretinata che un padre avrebbe potuto fare con un figlio.
Non avrebbe potuto dirgli quanto era orgoglioso di lui.
Aveva sempre forzato sé stesso a non pensarci, a credere che non fosse mai troppo tardi, a infondere sicurezza ad Haruko, ma ora, quella stessa sicurezza, la sentiva camminare su gambe malferme. Lo sconforto aveva trovato un modo per fare breccia dentro la sua corazza, e tirarlo a fondo.
«Who knows? Not me. We never lost control. You’re face to face with the man who sold the world.(1)»
Strinse la sua mano con forza, negli occhi la disperazione rifluì come un’onda di burrasca, divorandone serenità e sgretolando tutta la forza d’animo. La bocca assunse una piega sofferente sul finire della musica che, straziante, suonava ancora nelle cuffiette.
«Mi dispiace…» Ricurvo su quelle dita chiuse nelle sue mani, pianse come se non gli fosse rimasto nient’altro che quello: lacrime. «Mi dispiace, Yuzo, mi dispiace! Perdonami, sono stato cieco e sordo! Un fottuto mulo! Torna indietro… dammi un’altra possibilità… una sola…»
«Anche a me… anche a me dispiace da morire.» Il portiere appoggiò il viso nella sua spalla. Adesso sì, sarebbe potuto morire all’istante. Lo sentiva. Il cuore annientato, squarciato da quella sensazione graffiante che aveva continuato a grattarlo dall'interno. Si scuoiava e mutava la pelle, per permettere alla consapevolezza di ciò che aveva sempre cercato di uscire fuori e fargli capire di averlo proprio lì, contro il suo spirito. Era suo padre. L’aveva cercato così tanto da dimenticarsene, persi entrambi dietro parole che non avevano più senso, persi dietro la testardaggine, dietro il non sapersi ascoltare. Pianse talmente forte che era convinto che stavolta l’avrebbero udito. «Ho fatto una cosa orribile che un figlio non dovrebbe mai fare! Sono arrivato anche a desiderare che sparissi! Mi dispiace, papà!»
Avrebbe voluto abbracciarlo stretto, dirgli che gli era mancato in tutti quegli anni e che… che avevano tutto il tempo del mondo per recuperare, ma il suo tempo stava finendo. Era una certezza terribile che sentiva in ogni parte dello spirito, talmente stanco da essere divenuto pesante come pietra.
- Così, alla fine sei riuscito a trovarlo. -
Era la voce di Mamoru pur senza esserla. Yuzo sollevò il viso, scorgendo la figura familiare della creatura senza nome che gli era rimasta accanto fin dall’inizio. Sorrideva, tenendo le mani nelle tasche.
- Come ti dissi, le cose perdute si trovano sempre, basta solo saperle cercare. -
Era venuto a prenderlo, ne era certo, e d’improvviso capì che non voleva andarsene, che non voleva lasciare la sua famiglia e Mamoru, la sua vita. Voleva tornare indietro per andare avanti.
«Io… io…»
La creatura sorrise ancora, e in quegli occhi neri c’era un calore così forte che se ne sentì avvolgere, interamente, come un abbraccio protettivo.
- E’ il momento di svegliarsi, lucciola. Vivi il tuo tempo senza avere paura. -
Yuzo spalancò gli occhi, alzandosi in piedi; fece per raggiungerlo, ma lo spazio della stanza sembrò dilatarsi all’infinito e la figura nota e sconosciuta al contempo farsi lontana. Il portiere allungò una mano verso di lui.
«Ma io… io non ti ho… non ti ho…»
…ringraziato.
La frase morì nel nero che sciolse i colori e le immagini, negli occhi che si chiudevano, nel corpo che cadeva verso un suolo invisibile, nella leggerezza che lo spinse in alto come nel ventre del mare.
E la superficie aveva frammenti di luce che smerigliavano il mondo.

«Ti prego… ti prego…»
La voce di Baiko era un filo sottile. Non aveva mai supplicato nessuno, ma se gli avesse permesso di riavere suo figlio, si sarebbe messo anche in ginocchio. Non ce l’avrebbe mai fatta senza di lui, non sarebbe mai riuscito a superare lo strazio interiore. Era proprio vero: l’importanza delle persone si riconosceva nel momento in cui si rischiava di vedersele strappate di mano, per questo continuava a stringere quella di Yuzo con tutta la forza che aveva, per impedire che gli sfuggisse via.
«…’iants…»
Baiko sussultò. La sua schiena venne percorsa da un brivido che gli fece alzare la testa di scatto e strozzare il respiro.
Due occhi nocciola, lì, davanti a lui, lo stavano guardando.
«…’iants… i… Giants… quando… li… vediamo?» Yuzo lo guardava, gli stava parlando, anche se con estrema fatica, trascinando le parole. «…però… vieni… allo… stadio…»
Yuzo gli stava sorridendo.
Yuzo era sveglio.
E lo aveva ascoltato.
Baiko ingoiò le lacrime, deformando le labbra nel sorriso peggiore e più vero di tutta la sua vita.
«Ma certo! Certo che ci andiamo! È ovvio! E faremo… faremo il tifo sfegatato! Peggio degli ultrà!»
«Non… montarti la… testa… Braccio… di ferro…» Yuzo gorgogliò una risata, prendendolo in giro, e Baiko rise con lui, e pianse ancora, senza riuscire a fermarsi.
«Yuzo!» Haruko apparve dal nulla, spalancando la porta della stanza. Quasi correndo, la donna raggiunse entrambi  e si appoggiò alla spalla di Baiko per cercare sostegno perché sentiva il proprio corpo nelle mani dell’adrenalina; era acido, scioglieva la tensione, scioglieva ogni cosa e le faceva credere d’esser fatta di gelatina. Il miracolo che aveva atteso per giorni, con costanza e pazienza, era proprio davanti ai suoi occhi.
«…mamma…»
La donna lo accarezzò subito e per lui fu così bello riuscire a sentire di nuovo il suo tocco affettuoso sul viso, così familiare; un ricordo che sarebbe sempre rimasto con lui, come traccia indelebile nel suo cervello e nel suo corpo.
«Ciao… ciao, tesoro. Tesoro mio…» Yuzo la vide asciugarsi gli occhi alla meglio e poi rivolgersi a suo padre. «Vado a chiamare le infermiere.»
Attese che avesse lasciato la stanza prima di attirarsi l’attenzione di Baiko. Nella testa si rincorreva l’eco delle parole ovattate che l’avevano raggiunto e la musica e la certezza che lui era lì, vicino, e non gli avrebbe più voltato le spalle.
«…papà…»
«Mi dispiace! Mi sono comportato male, non ti ho mai ascoltato e ho solo preteso. Ma ti prometto che cambierò, devi credermi! Sono stato un pessimo padre, io-»
«…non sei… pessimo… no… ti ho… mai detto… che… ti voglio… bene?»
Baiko strozzò in gola tutte le parole che avrebbe voluto dirgli in quel momento, parole di scuse e autoaccuse, ma le lacrime erano molto più forti della sua volontà di trattenerle. Abbracciò suo figlio e diede libero sfogo alle ansie e alle paure accumulate in quei giorni, alle attese interminabili e al senso di colpa.
«Temevo d’averti perduto!» disse, mentre Yuzo sorrideva e pensava che suo padre era sempre stato un uomo che si sarebbe fatto ammazzare prima di piangere davanti a qualcuno. Ma ora sapeva farlo senza provarne vergogna. Ebbe la strana sicurezza che fosse profondamente cambiato e l’uomo di ferro che era stato un tempo non sarebbe più tornato a tormentare le loro vite. A fatica, riuscì a sollevare una mano per poterlo toccare.
«Le cose… perdute… si trovano… basta solo… saperle cercare… E noi… noi ci siamo trovati.»
Continuò a sorridere, mentre la memoria di ciò che aveva vissuto diveniva sempre più labile e lontana. Nemmeno ricordò più chi gliele avesse pronunciate, quelle parole. Ma doveva essere stato qualcuno di speciale.
Lentamente girò il capo e le sue iridi trovarono Mamoru, oltre il vetro, con le mani appoggiate sulla superficie, gli occhi spalancati e rossi: non sapeva se ridere di gioia o piangere per lo stesso motivo.
Lui agitò piano una mano, in segno di saluto e l’altro fece lo stesso. Nel suo sguardo lesse qualcosa che non riuscì a comprendere e le lacrime gli apparvero come parole sconosciute. Osservandole tracciare scie lucide lungo le guance, Yuzo comprese che avrebbe dovuto parlargli. Parlargli a ogni costo, perché il tempo non aspettava nessuno e fintanto che avesse continuato a camminare su quella Terra, avrebbe dovuto dire a Mamoru che avrebbe voluto lui al suo fianco, e nessun altro, per trovare la giusta strada nel rumore dei suoi passi.

 

*§*§*

 

Nell’aria anche quell’estate c’era odore di gigli e bucato appena steso.
Le cicale cantavano aggrappate a un tronco non troppo lontano e quasi coprivano il tinnire del ghiaccio nel bicchiere.
Sventolare di lenzuola candide su fili di ferro e fuggire di note musicali dalla vetrata aperta del terrazzo che portava in giardino. Tracciavano una scia sonora che arrivava in ogni angolo della casa. Più smorzata, accarezzava la lavatrice silenziosa e i coltelli da cucina a riposo. Scivolava sulla superficie liscia del tecnigrafo posto accanto alla vetrata dello studio e attorno alla cornice di uno scatto, appeso sulla cappa del camino, in cui era immortalata la Facciata della Natività della Sagrada Família; sulla scrivania, accanto a un castello di sabbia, un’altra foto ritraeva i tre sorridenti turisti con l’immensa basilica alle spalle.
E la musica non aveva confini, arrivava ovunque. Si sedeva su scarpe da ginnastica parcheggiate all’ingresso e poi saliva le scale, infilandosi sotto le porte per uscire dalle finestre; le ali di legno di un aeroplano divennero il giusto trampolino. Dal salotto, le note nascevano da un vecchio stereo, reperto di modernariato come la bici parcheggiata nel giardino; sul piatto, il disco continuava a girare sotto lo sguardo vigile dei Suruga no Tou-chan, nella loro divisa nera e arancione, che sorridevano fieri tra mazze da baseball e guantoni. In mezzo a loro, la coppa del secondo posto conquistata al Campionato Dilettantistico Senior e negli occhi la sicurezza di chi, l’anno dopo, avrebbe raggiunto il gradino più alto del podio.
«E con questo, ho finito!»
Baiko sbatté letteralmente il libro di Fisica sul tavolo da giardino, facendo tremare tutti gli altri oggetti presenti sullo stesso, compreso il bicchiere.
«Maledetta fisica! Non l’ho mai sopportata, nemmeno quando ero al liceo!»
«Papà, smettila di lamentarti, ricorda che non diventerai architetto se non passi quest’esame.» Yuzo era uscito in giardino con il borsone caricato sulla spalla. L’uomo arricciò le labbra, mettendo il broncio.
«Lo so anch’io.» Poi si girò verso Haruko che stava finendo di stendere il bucato. «Hai sentito? Mi fa la predica! A me! Che sono suo padre! Non c’è più religione a questo mondo.»
«Te la fa perché ti lamenti troppo, caro.»
L’uomo si trovò due contro uno e abbandonò la contesa, con uno sbuffo. «Giocate sleale.»
«Avresti dovuto scegliere l’università per la terza età» scherzò Haruko, nascondendo la risata nella mano.
«Ehi! Sono ancora nella seconda!»
Yuzo non si premurò di mantenere un certo contegno e rise apertamente, quando il suonare d’un clacson attirò la sua attenzione.
«E’ arrivato Mamoru!» Corse a dare un bacio affettuoso a sua madre e una pacca sulla spalla del padre che ricambiò con un colpetto leggero sulla mano. «Ci vediamo tra due giorni a Shimizu-ku, allora. Non dimenticate che la partita è alle sette.»
«E tu non scordarti che abbiamo l’aereo alle dieci di Venerdì mattina!»
«E chi se lo scorda, papà?!» ridacchiò Yuzo prima di scomparire dietro il muro di casa per raggiungere Mamoru che lo aspettava davanti al cancello della villetta.
Rimasti soli, Baiko distese le gambe e reclinò il capo all’indietro; le braccia penzolavano fuori dalla sedia e gli occhi godevano del cielo infinito.
«Yakitori e oyako donburi(2)
«Cosa, tesoro?»
«Yakitori e oyako donburi, per stasera, che ne pensi?»
«D’accordo. Ricorda che abbiamo gli Izawa a cena.»
«Proprio per quello l’ho proposto.»
Haruko assottigliò lo sguardo in un’espressione furba mentre stendeva gli asciugamani. «Cucini tu, vero?»
Lui rise e lentamente assunse una postura più composta, prima di alzarsi. «Sissignora.»
Sotto la supervisione di sua moglie, era diventato un cuoco provetto, ma non aveva mai abbassato la guardia contro gli affilatissimi coltelli.
Baiko si mosse per rientrare in casa e andare a ispezionare la cucina per verificare che avesse tutti gli ingredienti, quando il disco passò alla canzone successiva, distogliendolo dai suoi propositi.
Agilmente, l’uomo raggiunse lo stereo e girò al massimo la manopola del volume. Le note di Space Oddity riempirono non solo l’interno della casa, ma volarono fuori, librandosi nell’infinità dello spazio.
Haruko lasciò perdere il bucato ancora da stendere e corse per andare ad abbassare.
«Ehi, che fai? I vicini-»
«Lascia che si lamentino.» Baiko la prese per un polso e l’attirò a sé. Pur senza luci colorate, l’intera stanza era divenuta una sala da ballo. «Dovrebbero ringraziarmi», le sussurrò all’orecchio, «almeno gli faccio sentire un po’ di musica come si deve.»
Lei ridacchiò, nascondendo il viso nella sua spalla. «Che dispettoso.»
«Non ho ragione, forse?» Baiko la fece piroettare nello scorrere delle note e poi la strinse di nuovo. Haruko sospirò d’estasi, lasciandosi condurre. «Di’, te la ricordi questa?»
«La festa scolastica. Eravamo due ragazzini allora.»
«Dovrei portarti a ballare, è da parecchio che non lo faccio.»
«A quest’età? Non siamo un po’ troppo vecchi?»
«Affatto, chi l’ha detto? Ho letto che la vera vita comincia a cinquant’anni.»
«Oh, quindi noi siamo giovani?»
«Giovanissimi, signora Morisaki.»
E la musica andava, mentre i visi immortalati nelle foto proteggevano, sorridenti, il loro bacio senza tempo che sapeva toccare le stelle.

 

“Though I'm past /
Nonostante sia lontano
one hundred thousand miles /
centinaia di migliaia di miglia,
I'm feeling very still /
mi sento molto tranquillo
and I think my spaceship knows which way to go /
e penso che la mia astronave sappia quale sia la via da prendere.
Tell my wife I love her very much /
Dite a mia moglie che l’amo tanto,
she knows /
lei lo sa.

David BowieSpace Oddity

 

«Allora, quando partite?»
Yuzo stiracchiò le braccia in avanti, fino a tamburellare il cruscotto con le dita.
«Il prossimo week-end. Papà non sta più nella pelle e nemmeno io» ruotò la testa fino a catturare il profilo di Mamoru. «Starò via tre giorni, vedi di fare il bravo.» Gli venne da ridere per il modo in cui il ragazzo mise il broncio.
«Tsk. Io sono bravissimo, che credi?»
«Mh, sarà. Penso che dovrò affidarmi alla supervisione di Hajime e Teppei.»
Il terzino tentò di spettinargli i capelli, ma lui si difese continuando a sghignazzare.
«Piantala, scemo!»
Yuzo gli concesse una tregua. «Perché non sei voluto venire? Papà si era già gasato all’idea di poterti istruire sulla ‘musica come si deve’
«Davvero?! Mi dispiace di aver infranto i suoi sogni di gloria, ma non mi sarei mai permesso di intromettermi tra voi e il concerto di David Bowie.»
«Ma quale intrometterti? Non essere ridicolo!»
Mamoru si volse a guardarlo per un attimo, prima di tornare a fissare la strada che li portava sempre più lontani da Nankatsu.
«Lo sai quello che voglio dire» affermò, camuffando la serietà con il sorriso, e lui non rispose perché, sì, in cuor suo aveva capito.
Con lo sguardo rivolto al finestrino, Yuzo ripensò a ogni momento di quell’anno appena trascorso, avvertendo quasi la sensazione che la sua vita fosse ripartita da zero nell’istante in cui aveva riaperto gli occhi. Ma certe cose si era obbligato a non dimenticarle mai, come monito per il futuro in cui non avrebbe più commesso gli stessi errori.
Ripensò alla realtà stravolta che si era trovato davanti e a come aveva finalmente cominciato a conoscere suo padre e a farsi conoscere da lui. Avevano parlato e continuavano a parlare di tutto. Certo, non sempre condividevano lo stesso punto di vista, ma era fantastico sapere di poter contare sulla sua presenza e i suoi consigli. In nessun momento di quel ritrovarsi si erano più sentiti degli estranei.
Ripensò alla visita, pochi giorni dopo il suo risveglio, che aveva ricevuto da parte del signor Tamura e del signor Inoki. In quell’occasione, oltre a svelargli la sua vera identità di Presidente della Shimizu S-Pulse, l’uomo gli aveva anche consegnato la nuova divisa.
«Perché la nostra famiglia ti sta aspettando» gli aveva sorriso il Presidente.
Ripensò alla riabilitazione, all’impegno messo ogni singolo giorno e alla gioia immensa che aveva provato nel rimettere, finalmente, piede in campo. Dalla sua prima partita in J-League, i suoi genitori non mancavano mai, nemmeno quando giocava in trasferta.
Ripensò alla presenza di Mamoru che, come in quel momento, era sempre rimasta al suo fianco; ripensò alla sua assurda dichiarazione e al fatto che fosse stato proprio suo padre a dirgli di darsi una mossa.
Yuzo inspirò adagio, trattenendo un risolino.
«Ti va se ci fermiamo al mare?»
«Al mare?»
«Sì.»
«Ok» il terzino acconsentì, carezzandogli una tempia dove i capelli, portati più lunghi, coprivano i segni d’un incubo lontano.
Nel sentire le sue dita, Yuzo si volse rispondendo con calore al suo sorriso.
L’autostrada infilzava tremolante l’orizzonte. Stranamente sgombra a quell’ora, era un lungo serpente rettilineo che si crogiolava al sole calante. Non c’era più la calura asfissiante, ma l’asfalto sembrava ugualmente bruciare, mentre assumeva la sfumatura arancione del meriggio.
Raggiunsero senza difficoltà la zona di Suruga, e Yuzo guidò Mamoru verso quella vecchia spiaggia che sarebbe rimasta indelebile nel suo cuore, prima che nella testa.
Parcheggiarono in uno dei tanti posteggi liberi che il sole volgeva lento verso Ovest.
Yuzo inspirò a fondo l’odore di salsedine trasportato dal vento e si liberò delle scarpe, una volta sceso dalla macchina, affondando i piedi nella sabbia morbidissima e tiepida. Sorrise a quella sensazione di piacevole e ruvido sprofondare. I granelli scorrevano tra le dita, sul dorso e sotto la pianta. Alcuni gli facevano il solletico.
Camminando lentamente, si fermò a pochi metri dal bagnasciuga e sollevò lo sguardo alle onde che scivolavano sulla battigia e poi si ritraevano, timide, all’interno della massa liquida e compatta. Quel fruscio era ipnotico e malinconico, familiare, ma non sapeva spiegarsi in che misura lo fosse.
Due braccia gli cinsero la vita e un mento s’appoggiò sulla sua spalla. Una scia di capelli neri entrò nel campo visivo della coda dell’occhio. Nonostante il caldo, la presenza di Mamoru contro di lui era fresca.
«A cosa pensi?»
«Al tempo.»
«Ehi, siamo filosofici.»
«Oggi è un anno.»
Mamoru non rispose subito, ma si limitò a stringerlo di più.
«Ti ho odiato.»
Yuzo rise. «Lo so. Me lo hai già detto» assieme a una infinita sequela di insulti che ancora ricordava.
«Ribadisco il concetto, così non lo dimentichi.»
«Non lo dimenticherò» accondiscese, poi si volse per incrociare il suo profilo puntato verso il mare. «Non ricordo praticamente nulla di quello che è accaduto mentre ero in coma, però di una cosa sono sicuro…» Mamoru lo guardò. «…sei sempre rimasto con me.»
Era l’unica certezza che sentiva di avere. Davvero, del suo lungo sonno aveva rimosso ogni memoria, quasi non avesse mai chiuso gli occhi, a parte un’unica e intensa sensazione: non era stato da solo. Per tutto il tempo, qualcuno gli era rimasto accanto, in quello stallo spaziotemporale che doveva esistere tra la vita e  la morte. Una presenza rassicurante e familiare, amata. E l’unica persona che riusciva a dargli tali sensazioni lo stava abbracciando proprio in quel momento, respirando contro il suo viso.
Mamoru sorrise, mettendo a nudo i denti bianchi. «Davvero?»
«Sì.»
«Allora siamo destinati, mh?» gli sfregò il naso contro la guancia e Yuzo rise.
«Direi proprio di sì!»
«Ti amo.»
La serietà del tono lo colpì, ma lo stupore divenne sorriso, perché Mamoru non sapeva quanto ancora lo emozionasse sentirglielo dire. Gli ricordava, ogni istante, il perché fosse felice di essere vivo.
«Anch’io.»
La brezza portò l’odore dolce del mare e lui ne abbracciò la vastità infinita con lo sguardo.
La sabbia correva, scomparendo sotto la spuma candida delle piccole onde, e gli venne nuovamente da ridere mentre, chissà perché, d’improvviso una strana associazione di idee lo fece sentire acqua e non un granello di sabbia solitario nella triste moltitudine. Non seppe spiegarsi il motivo di quel pensiero, ma lo percepì come la più meravigliosa delle certezze.
Con un gesto deciso si liberò dalla stretta di Mamoru per correre verso il mare.
«Qualcosa non va?» domandò il giovane, ma la risposta del portiere fu una risata. Il terzino inarcò un sopracciglio, allargando le braccia. «Yuzo?!»
«Sei ancora lì?» senza fermasi, l’interpellato si sfilò la maglia, lasciandola nella sabbia. «Sei lento, Izawa!»
«Cosa?! Lento io?!» protestò Mamoru tra l’interdetto e il divertito. Non riusciva a capire cosa diamine gli fosse preso, ma dopotutto non era importante; ciò che contava, per lui, era poterlo avere lì, felice, e vivo. Il resto era spuma sulla cresta delle onde.
La sabbia accolse anche la sua t-shirt e nell’aria disperse quel: «Maledizione, sono pazzo di te!», prima di tuffarsi.
I capelli neri dispersero gocce di cristallo nel tramonto e le braccia afferrarono l’amato tirandolo a fondo per poi riemergere insieme, ridere senza ritegno e senso e tornare a giocare, tra baci e vento, tra spruzzi e sale. E l’acqua era il cuore delle loro risate, le onde la voce e loro una parte indivisibile del tutto.
Poco lontana, una lucciola restava ferma su un castello di sabbia abbandonato; aspettava la morte del sole per illuminare la sera.

“I, I will be King/
Io, io sarò Re
and you, you will be Queen/
e tu, tu sarai Regina.
Though nothing will drive them away /
Sebbene nulla li porterà via,
we can beat them, just for one day /
possiamo batterli, solo per un giorno.
We can be Heroes, just for one day /
Noi possiamo essere eroi, solo per un giorno.

And you, you can be mean /
E tu, tu puoi essere mediocre
and I, I'll drink all the time/

e io, io berrò tutto il tempo
'Cause we're lovers, and that is a fact/
Perché siamo amanti, e questo è un fatto
Yes we're lovers, and that is that/
Sì, siamo amanti, ed è così

Though nothing, will keep us together /

Sebbene nulla ci terrà insieme,
we could steal time /
possiamo rubare il tempo
just for one day/

solo per un giorno.
We can be Heroes, forever and ever/
Possiamo essere Eroi sempre e per sempre.
What d'you say?/
Che ne dici?

I, I wish you could swim/

Io, io desidero che tu possa nuotare,
like the dolphins, like dolphins can swim/
come i delfini, come nuotano i delfini.
Though nothing /
Sebbene niente,
nothing will keep us together /
niente potrà tenerci insieme,
we can beat them, forever and ever /
possiamo batterli, per sempre e ancora.
Oh, we can be Heroes/
Oh, possiamo essere Eroi,
just for one day/
solo per un giorno.

I, I will be King /

Io, io sarò Re
and you, you will be Queen /
E tu, tu sarai Regina.
Though nothing will drive them away /
Sebbene niente li porterà via,
we can be Heroes, just for one day /
noi possiamo essere Eroi, solo per un giorno.
We can be us, just for one day /
Noi possiamo essere noi, solo per un giorno.

I, I can remember (I remember) /
Io, io posso ricordare (ricordo).
Standing, by the wall (by the wall) /
In piedi, presso il Muro (presso il Muro).
And the guns shot above our heads (over our heads) /
E le pistole sparavano sopra le nostre teste
And we kissed /
E ci baciammo
as though nothing could fall (nothing could fall) /
come se nulla potesse accadere (come se nulla potesse accadere).
And the shame was on the other side /
E la vergogna era dall’altra parte.
Oh we can beat them, forever and ever /
Oh, noi possiamo batterli, per sempre e ancora.
Then we could be Heroes /
Allora potremmo essere Eroi
just for one day /
solo per un giorno.

We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.
We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.
We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.
Just for one day /
Solo per un giorno.
We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.

We're nothing, and nothing will help us /

Siamo niente e niente potrà aiutarci
Maybe we're lying /

Forse stiamo mentendo
then you better not stay /
e allora sarebbe meglio che non restassi,
but we could be safer /
ma potremmo essere al sicuro
just for one day /
solo per un giorno.

Oh-oh-oh-ohh, oh-oh-oh-ohh,
just for one day /

solo per un giorno.

David BowieHeroes


[1]: “Passammo sulle scale, parlammo del più e del meno. Nonostante non fossi lì, lui disse che ero suo amico, il che mi sorprese. Parlai ai suoi occhi: ‘Pensavo fossi morto solo, molto molto tempo fa.’ / ‘Oh, no. Non io. Non ho mai perso il controllo. Sei di fronte all’Uomo che vendette il Mondo’ / Io risi e gli strinsi la mano, e tornai a casa. Ho cercato una forma e una terra, per anni e anni ho vagato. / Fissai con intensità tutti i milioni che sono qui. Dobbiamo essere morti da soli, molto molto tempo fa. / Chi lo sa? Non io. Non ho mai perso il controllo. Sei di fronte all’Uomo che vendette il Mondo.”

[2]YAKITORI – OYAKO DONBURI: sono due pietanze della cucina giapponese. Gli Yakitori sono spiedini di pollo, mentre lo oyako donburi è composto da riso, pollo e uova, cipolle verdi e salsa. *-* fanno venire l’acquolina. (XD ho scelto lo oyaku donburi perché… XD perché ho letto che significa letteralmente ‘genitori e figli’ LOL!)


 

Fine


Curiosità:

- Per il personaggio di Baiko mi sono ispirata a un attore giapponese. Non tanto per l’aspetto in sé, quanto per l’aria di autorità che emana. E, sì, anche per l’età XD.
L’attore è Masaya Kato. (*clicca qui*) :3

- In merito alla figura sconosciuta che fa compagnia a Yuzo durante il suo sonno, chi ha letto in particolare una mia storia originale forse potrà farsi un’idea su chi possa essere davvero. :3
Per tutti gli altri… lasciate libera la vostra fantasia! X3

- “Suruga no Tou-chan” significa “i Paparini di Suruga” X3


 

Le canzone del capitolo:

- Grace (Simon Webbe): XD va beh, non s’era capito che mi piace Webbe, eh? LOL. “Grace” è una gran bella canzone, come tutte quelle dell’album omonimo e, come sempre nello stile di questo Bluette,: c’è una sorta di rivalsa, risalita, nelle sue canzoni, di rivincita e rinascita. Di ‘tutto andrà bene’. :3 è bella.

- The man who sold the world (David Bowie): La Amo. Punto. E’ la mia canzone preferita di Bowie. L’ho conosciuta come cover fatta dai Nirvana (*clicca qui*) e per quanto Kurt Cobain resterà sempre Kurt Cobain, nessuno potrà eguagliare la versione originale di questa canzone, cantata da Bowie (altre cover degne di nota sono quella di Midge Ure – che secondo me è la migliore: *clicca qui* - e quella di Lulu - *clicca qui*). E’ come se assumesse un significato totalmente differente e io la apprezzo di più quando è la voce del Duca Bianco a darle vita (versione originale: *clicca qui*).
E’ stata la canzone che volevo utilizzare fin dall’inizio, che mi ha ispirato in un sacco di momenti durante la stesura e che, quando la ascoltavo e pensavo al dialogo surreale tra Yuzo e Baiko, mi ha commosso in maniera profonda. Quando poi ho cercato informazioni sulla canzone stessa, mi sono trovata davanti a un’intervista fatta a Bowie, in cui gli chiedevano proprio di “The man who sold the world”. La risposta del Duca fu: “Quel brano ha sempre esemplificato per me come ci si sente quando si è giovani e quando c'è un pezzo di te stesso che non hai ancora sistemato. Hai questa grande ricerca, questo grande bisogno di scoprire chi sei davvero” (fonte: www.velvetgoldmine.it).
:D Più di così, cos’altro chiedere? E’ perfetta.

- Space Oddity (David Bowie): ri-citarla mi sembrava d’obbligo! X3

- Heroes (David Bowie): sono stata molto combattuta se inserirla o meno. Forse il testo non è azzeccatissimo nella sua totalità, ma la sentivo incredibilmente adatta a livello di musica per chiudere la storia. E poi… Bowie è Bowie, è come il nero: sta bene con tutto XD



Note Finali:

E’ finita.
E pensare che è venuta più lunga di quanto avessi preventivato.
E’ stato un lavoro lungo e laborioso, molto complesso a livello di stesura, molto snervante, ma anche appagante, da un certo punto di vista. Forse mi ha un po’ fatta uscire di testa, ma son contenta di averla scritta. :3
Arrivata alla fine, come sempre, vorrei ringraziare tutte le persone che hanno seguito questa storia, che si sono sentiti affini ai personaggi e hanno trovato, nelle loro debolezze e forza, un po’ di sé stessi.
Ringrazio chi ha deciso di recensire (Sissi149 – Ti giuro! Elementia da Settembre! Giuro! Croce sul cuore! XD –, Hellister, Rubysage, Releuse e Sveva90 su EFP; Wywh e Kara - ripeto anche a te: Elementia da Settembre! XD - su ELF) e ringrazio preventivamente chi deciderà di farlo in futuro.
Ringrazio chi ha messo questa storia tra le preferite e chi ha preferito rimanere un lettore ninja (non mordooooo, lo giuro ç_ç, non dovete aver paura di me! Io sono come Baiko: abbaio, ma ho il cuore puccio *-*). X3
Spero di ritrovarvi ancora alla prossima storia. :D

Il Re è morto.
Viva il Re.

   
 
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