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Autore: suzako    24/07/2011    5 recensioni
Sono le nove e trenta del mattino, e Charles è impazzito.
Inizia con una telefonata.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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But you’ll always be my hero, even though you’ve lost your mind









Inizia con una telefonata.

<< Erik >>, la voce è quella di Raven, ma il tono, quello non le appartiene.
E’ a malapena un sussurro, lontano, come se parlasse da mille miglia di distanza, come se non volesse parlare affatto. Dev’essere uno sforzo incredibile per lei, ogni sillaba scandita con la forza di uno scalpello. Ed è così che sono quelle parole. Violente, incise a forza. Non se ne andranno mai. << Non so cosa fare >> una pausa << qui è il caos >> un’altra pausa << devi ve-ni-re-su-bi-to-ab-bia-mo-bi-so-gno-di-te >>

Parole meccaniche, Raven non sa cosa fare, com’è possibile? Raven sa sempre cosa fare. Non c’è nulla che non abbia fatto. Sopravvivere per dieci anni in mezzo alla strada, da sola, sempre nascosta, poi in mezzo a gli altri, ma sempre sempre nascosta, ha combattutto, è stata ferita, ha ucciso, è sopravvissuta quando avrebbe dovuto morire, forse è sopravvissuta troppe volte? E’ sopravvissuta troppe volte e adesso deve vedere questo, deve affrontare tutto questo, ma lei non è in grado di farlo, com’è possibile? Raven sapeva sempre cosa fare. Erik glielo ha insegnato.
Parole meccaniche, cosa deve dire, come può farlo? Non può farlo. In qualche modo ci riesce. E’ sempre sopravvisuta. Purtroppo.

Riesce a spiegarsi? Sta parlando? Non sente niente, non riesce a pensare. Dio, dio, cos’è stato? E’ stato Charles? E’ stato lui?

Sono le nove e trenta del mattino, e Charles è impazzito.

Inizia con una telefonata.



Quando Erik arriva a Langley è già troppo tardi. C’è silenzio ed è tutto fermo. Dov’è finito il fiume? Le foglie sembrano morte. L’erba crepita sotto i suoi piedi e l’asfalto è sordo sotto le scarpe. Odore di bruciato. Nessun rumore di passi, nessuna guardia all’ingresso, completamente vuoto l’atrio, neanche un respiro. Dov’è Raven? Dov’è lei? E’ meglio pensare a Raven. E’ più sicuro, concentrarsi su di lei. Non deve pensare a. Non deve pensare.
Sta correndo. Ad ogni passo spalanca una porta, esplodono, tutto con un solo gesto della mano. Lo fa ordinatamente, in successione, ogni due metri una porta che schizza in fondo a una stanza vuota. C’è ritmo, e ordine, come una parata ben controllata. Cadenzato, il frastuono si ripete agli stessi intervalli. Perché lo sta facendo? Si ferma. Si è fermato. E va tutto bene, ha ancora il controllo. Non è possibile riprendere fiato, non riesce a respirare.

E’ davanti al laboratorio.

Spinge via la porta delicatamente, appoggiandola al suolo con quel particolare tipo di delicatezza che si riserva solo ai cadaveri e agli oggetti rovinati, entrambi preziosi e inutili. Sale le scale. E’ tutto perfettamente al suo posto. Non c’è stata una battaglia, questo è evidente, eppure se ne aspettava una. Lentamente, un passo alla volta, lentamente, perché ogni passo potrebbe essere l’ultimo, o potrebbe essere il primo. Cerca di contare, così almeno saprà se impazzisce o se viene cancellato o la sua mente azzerata lo saprà e non potrà salvarlo ma almeno gli farà compagnia, la sofferenza più è terribile più è una buona compagna, ne avrà bisogno in caso dovesse
Fare qualcosa che non vorrebbe fare. Quando andrà fatto, lo farà per disperazione. Non per giustizia, dolore, pietà follia, lo farà per disperazione e sarà lucido, sarà fermo.

Uno

Si era svegliato due ore prima della telefonata di Raven. Charles se ne era già andato quando Erik aveva aperto gli occhi. Non gli aveva detto nulla la sera prima. Non sapeva dove fosse. Poi si era ricordato che era giovedì. E di giovedì Charles andava alla base CIA per la sessione con Cerebro.

Due

Non l’aveva ricordato immediatamente perché nonostante fosse oramai routine, Charles lo avvisava sempre il giorno prima. “Vado a Langley”, così diceva. Non alla CIA, non al laboratorio di Hank, lui andava a Langley, e in mille altri posti. Ovunque la mente potesse portarlo.
Diceva così solitamente, come se fosse una visita di piacere o una gita o andare a trovare un parente non lontano ma neanche troppo vicino.

Tre

Erik avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto saperlo che un giorno Charles sarebbe partito e non sarebbe tornato mai più.

Quattro

Avrebbe dovuto fermarlo, fare qualcosiasi cosa. Avrebbe potuto prendere lastre di metallo alte sei metri e avvolgerle attorno a Charles come una coperta, proteggerlo da tutto e da tutti, e sarebbero stati solo loro due, perché ancora dopo tre anni non riusciva a capire come fosse possibile che lui avesse bisogno di qualcun altro al di fuori di Erik.

Cinque

Avrebbe dovuto proteggere Charles dal mondo esterno, e non il contrario. Perché Charles era troppo fragile, troppo aperto, non poteva reggere, non sarebbe sopravvissuto. Era Erik quello che sopravviveva, sempre.

Sei

Era colpa del mondo esterno, e non di Charles, e Erik avrebbe dovuto impedirlo. Qualsiasi azione per quanto assurda e morbosa sarebbe stata perfettamente giustificata in un giorno come quello. Eppure come avrebbe potuto saperlo? Non poteva, e infatti non l’aveva fatto.

Sette

Che cosa avrebbe fatto adesso? Non aveva armi, non contro di lui. Non c’era potere che potesse aiutarlo perchè non avrebbe ucciso Charles. Non poteva neanche pensarci. Neanche con l’elmo di Shaw.
Doveva salvarlo. Non gli importava degli agenti della CIA, di Raven, di Hank. Doveva salvare Charles, in qualche modo.

Otto

I suoi passi sono pesanti. C’è metallo nelle sue scarpe, nella cintura, disseminato su tutto il suo corpo, dovrebbe renderlo leggero e invece lo trascina giù, sempre più in basso.
Sta sprofondando.

Non doveva andare così. Dio, Dio.

Signore dell’eternità che regnava pria che ogni forma fosse forgiata. Al tempo in cui tutto fu secondo il suo volere. E allora tutto sarà consumato da lui, solo e terribile regnerà. E lui maternamente misericordioso assolverà il torto e distruggerà, tratterà la sua furia, desterà la sua ardente ira. Salvaci, sovrano che ci risponde quando lo chiamiamo.

E’ tutto sbagliato.


Dio, è tutto sbagliato.

Nove

Yoma ha-shisì. Vayechullù hashamàim veha’àretz vechòl tzev’am.

Ormai è troppo tardi.

E’ arrivato in cima alla scala, può vedere le lastre di metallo opacizzato del pavimento. I macchinari saldamente fissati. Le viti. I cavi. Così tanto metallo. E in un attimo di brillante consapevolezza, di sollievo quasi, realizza che Charles non può essere qui, in mezzo a tutto ciò che potrebbe distruggerlo, Erik ha tutto quello che gli serve per compiere un massacro in questa stanza, ma erik potrebbe compiere un massacro anche con una puntina. Forse lo ha fatto. No, non c’è modo che Charles sia lì. Dev’essere andato via, non sa come – l’ascensore. Costruita apposta per lui perché potesse raggiungere Cerebro anche con la sedia a rotelle, dopo l’incidente – le scale, l’ascensore, Charles non può essere qui ed è ovvio che sia potuto andare via (non fuggire. Andare via) senza che Erik potesse vederlo.
Erik alza gli occhi, senza più paura, consapevole che troverà la stanza completamente vuota.

Charles è lì a pochi metri da lui, seduto sulla sedia con i gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani e lo sta guardando. Dovrebbe essere già morto. Dieci. Undici. Dovrebbe avere già perso la sua mente. Dodici tredici quattordici quindici sedici. Charles lo sta guardando e non ha ancora detto una parola. Lo sta guardando dall’alto, curioso e perplesso, come si guarda un insetto.
Poi, dice:
<< Pensavo non fosse rimasto più nessuno >>
E la sua voce è la stessa, non è cambiata per niente. Non c’è traccia di panico o di follia c’è solo Charles che lo guarda come se non l’avesse mai visto prima o come se fosse morto o come se non esistesse.
Come se non dovesse esistere affatto.

Erik emerge completamente dalla scala, rizzandosi lentamente, cauto. Charles non gli stacca gli occhi di dosso e la sua espressione non cambia anche se adesso deve sforzare il collo e tendere il viso verso l’altro per guardarlo in faccia. I ruoli si sono scambiati, ma è sempre Erik che ha paura. Sceglie le sue parole con cautela.

<< Che cos’è successo? >>

E’ una domanda innocua. Vaga. Innofensiva. Charles non sembra minimamente turbato. Si passa le mani sul volto e poi tra i capelli fino ad arrivare alla nuca, respira profondamente e sbatte gli occhi più volte come se gli fosse stata rivolta una domanda molto, molto difficile e lui fosse appena sveglio. Apre la bocca. Non ne esce alcun suono. Ritenta. Abbassa lo sguardo. Adesso sembra mortificato. E’ come se non potesse. Non riesco a parlare. Non riesco a parlare.

<< Ho usato Cerebro. >>

La risposta è semplice quanto inutile. E’ la conclusione di una grande e complessa spiegazione, o l’inizio di un discorso lungo e articolato. Come ogni persona intelligente e perfettamente egocentrica, Charles ha compresso un interno ragionamento in una singola frase, per lui perfettamente chiara, aspettandosi che l’altro sia in grado di capire e risalire a tutto ciò che c’è dietro di essa.
Come Erik sa, è tipico delle persone intelligenti ed egocentriche in modo quasi claustrofobico. Il punto è che Charles non è mai stato uno di questi. Lui è essenzialmente un megalomane. Ha bisogno di spiegarsi e di essere certo di essere capito. Gli piace utilizzare un linguaggio chiaro a seconda di chi sia l’interlocutore. A volte non c’è bisogno di grandi e dettagliate spiegazioni, a volte sì. Charles vuole sempre essere capito.
Erik, in questo momento, non capisce.

<< Charles che cosa, che cosa hai fatto? >>

Aggrotta le sopracciglia ancora di più, se possibile, e stringe le mani sui bracci della sedia.

<< Ho usato cerebro >> pausa << per farli andare via. Dovevano andarsene via tutti quanti >>

Charles annuisce tra sé e sé i suoi occhi sono fissi su un punto imprecisato del pavimento e la sua postura è rigida come se tutto ciò gli richiedesse un’enorme, incredibile concentrazione.
Ed Erik non riesce a fermare l’onda di sollievo che gli monta nel petto, può lasciare andare il respiro che sapeva perfettamente di star trattenendo. Non sono morti. Se è così non posso essere morti. Ancora non sa dove siano, dove sia Raven, cosa sia successo è perché. Erik non è mai stato bravo in queste cose: estrarre pazientemente le informazioni dalla mente di qualcuno è sempre stata competenza di Charles. Quando Erik vuole sapere qualcosa, l’unica sua preoccupazione è di lasciare le corde vocali intatti.
Erik non sa cosa fare. Erik sa perfettamente cosa farà.
Prende i manici della sedia a rotelle e la gira lentamente verso l’uscita. Charles non offre la benché minima reazione.

<< Andiamo a casa >>



Charles non parla per due giorni.
All’inizio Erik non chiede nulla. E’ successo qualcosa. Non sa cosa, ma forse ha fiducia in Charles. Forse non dovrebbe. E’ successo qualcosa e Charles parlerà, perché è quello che Charles fa sempre. Parlerà e troveranno il modo. Il modo di. Troveranno il modo e basta. Troveranno Raven e tutti gli altri di cui non gli importa ma a Charles importerà sicuramente perchè a lui importa sempre e comunque.

Però Charles non parla per tutti il tragitto in macchina e non parla quando arrivano ed Erik prende una sedia e gli si mette davanti aspettando che lui inizia a spiegarsi e non parla quando Erik si stanca di aspettare e inizia a fare domande. Erik prova in tutti i modi che conosce, e non sono tanti. Al termino del primo giorno già sente di non farcela più. Apre gli occhi la mattina e vede Charles di fianco a lui con lo sguardo vago e apatico della sera prima, nella stessa identica posizione e sente il bisogno di colpirlo con tutta la sua forza. E’ perfettamente vulnerabile, ed Erik saprebbe benissimo cosa fare. Prima un calcio nelle costole. Poi altre due. Charles si piegherebbe su sé stesso, patetico e inutile e incapace di muovere le gambe e difendersi. Erik sarebbe su di lui prima ancora che potesse riprendere fiato, bloccandolo all’altezza del ventre col suo peso, e lo stordirebbe con un pugno sulla mascella, poi uno sotto l’occhio, dove la pelle è più sottile e delicata. Vede chiaramente l’esplosione rossa dei capillari e la sorpresa e la paura in quegli occhi troppo blu e sa perfettamente anche quali suoni farebbe Charles perché è spaventosamente simile a quel giorno sulla spiaggia ed Erik non dovrebbe pensarci, dio, non in questi termini, esce dalla stanza ma la doccia non è mai abbastanza fredda e lui vorrebbe solo poter affogare.

Per la prima da quando ha conosciuto Charles Xavier, si sente solo.

Erik ha deciso che oggi lui parlerà.
<< Charles >> è veramente il suo nome che ha appena detto? E’ possibile che sia stato appena un sibilo perché deve stringere i denti talmente tanto per non iniziare a gridare che gli risulta difficile produrre alcun suono. << mi devi dire cos’è successo. Dov’è Raven? Dove sono tutti? Qualsiasi cosa tu abbia fatto devi dirmelo. Charles. Charles, dannazione. Di’ qualcosa qualsiasi cosa >>

Charles guarda il pavimento, un’espressione corrucciata e attenta sul viso, è concentrato ma è come se Erik non fosse neanche nella stanza. Erik è chino su di lui e stringe la presa sui suoi polsi e sa che gli sta facendo male ma l’espressione di Charles non cambia è come se non sentisse nulla all’infuori di ciò che si trova nella sua testa. E’ come se non sentisse nulla.

Urla. Contorciti. Pregami di smettere. Fai qualcosa.

Alla fine Erik inizia a gridare.

<< Charles. Charles io ti giuro che se non apri quella cazzo di bocca adesso e non mi dici cosa sta succedendo ti lascio qui. Me ne vado, hai capito? E non ho intenzione di tornare e sopportare tutta questa follia, cristo. Credi che mi importi così tanto di te da rimanere qui? Ti sbagli, e non sai quanto. Io ti ho lasciato una volta e lo farò di nuovo, hai capito? Hai capito? >>

Ed è come se vedesse tutto, tutta la scena dall’esterno, come trovarsi nell’angolo della stanza e vedere sé stesso e Charles, da dietro, il suo volto troppo vicino la fronte praticamente si tocca e quegli occhi – sa perfettamente come sono i suoi occhi quand’è così, quando è così arrabbiato – e la sua mano sinistra che lascia la presa dal polso di Charles – è rosso, domani avrà fatto un livido - per stringergli i capelli e tirare la testa verso l’indietro, con violenza, guardami cazzo guardami mentre ti parlo hai capito e quelle parole, parole che ha già detto più di una volta e che hanno fatto piangere Charles, qualche volta.

Ed è in quel momento, mentre guarda sé stesso dall’angolo di una stanza che capisce che è esattamente quello che vuole, che ha sempre voluto, far soffrire Charles. All’inizio cercava solo costringerlo ad avere una reazione di qualsiasi tipo, ed era solo una scusa non è così? La verità è Charles è splendido quando soffre, il modo in cui lo guarda con occhi lucidi di febbre pieni di risentimento ed è forte e vulnerabile allo stesso tempo: è forte perché potrebbe ma è vulnerabile perché non lo farà e questo fa sentire Erik ancora più potente, mentre lo guarda dall’angolo della stanza e Charles
Si volta
A guardarlo.

Dio perdonami.

E poi non è più nell’angolo della stanza. Non è più bambino. E’ come svegliarsi improvvisamente dopo un lungo sonno. Sbatte gli occhi. Charles è sempre sotto di lui. Ha ancora una mano stretta convulsamente fra i suoi capelli. Lo sta guardando.

In quel momento avrebbe dovuto capire.

Diciassette ore dopo, nel buio della camera da letto e una distanza infinita tra loro, Charles, finalmente parla.

Erik è sdraiato sul fianco, ha il respiro regolare e finge i sogni, li costruisce pezzo per pezzo, ma la mente è una materia fugace, è fatta di atomi e scatole dentro scatole dove tutto è vivo e morto insieme e le cose vanno presto fuori controllo. Non sono i sogni che vorrebbe, forse sta sognando davvero. Strade. Polvere. Sabbia. Sangue. No, aspetta. Metallo. Porte chiuse. Porte aperte. Coltelli. Bisturi. No, no. Campagne e città e camini e fumo e no no no no.

<< Non avrei voluto farlo >> pausa << No, non è così. Volevo farlo, ma non avrei dovuto. Erano troppi e non c’era spazio davvero Erik sarebbe morti tutti non c’era spazio sarebbero soffocati >>

Charles sta dicendo tutte le cose sbagliate ed Erik spera che lui non sappia cosa sta facendo, che sia fuori controllo, che sia pazzo, perché così avrebbe tre scuse per non ucciderlo anche se è quello che vorrebbe fare adesso, c’è un temperino sulla terza mensola della libreria ma ti prego non farlo.

<< Non riesco a. Non capisco bene. E’ tutto così confuso non è mai successo prima. Erik, erano troppi e sarebbe morti dovevo salvarli e allora gli ho detto di andare via, gli ho detto di sparire >>

Il suo tono di voce è così calmo.

<< Erik, io credo che. Ho paura. >>

Sta mentendo e forse neanche lo sa.

<< Erik credo che si siano dati fuoco, tutti quanti >>

Ed Erik stringe i pugni sotto il cuscino e chiude gli occhi e pensa no no no no non è possibile non può essere così, dovrebbe alzarsi andarsene perché se non può ucciderlo cos’altro può fare? E invece non si muove, smette di respirare qualche secondo senza muoversi, e quando Charles gli si rannicchia contro la schiena pensa brevemente non sta neanche piangendo e poi si gira e lo stringe tra le braccia così forte che non possa più respirare.

D’altronde, non è ancora mattina.
Il peggio deve ancora venire.



Come sono arrivati a tutto questo? Non era così prima.
Fina a due giorni prima andava tutto bene. Uno standard di normalità su misura, ma non è forse sempre così? Va tutto bene, oggi ho guadagnato cinquantotto dollari. Va tutto bene, questa settimana sono morti solo tre uomini. Va tutto bene, tuo padre è tornato a casa ieri, rimarrà per tre giorni. Va tutto bene, ultimamente lui non mi picchia neanche più così spesso, davvero, stiamo bene le cose stanno migliorando, va tutto bene. Per loro andava tutto bene perché erano quasi quattro mesi che Erik non sentiva il bisogno di fuggire e uccidere tutti e combattere Charles, andava tutto bene perché lui da una settimana non gli aveva detto neanche una volta e di chi è la colpa?
C’era la scuola, e la CIA, e lottare per sopravvivere come sempre, come fanno tutti uomini e mutanti allo stesso modo.
Erik continua ad odiarli, nonostante tutto.
Bestia stata lavorando alla ricostruzione di Cerebro, per la seconda volta dopo che erano andato nuovamente distrutto e nel frattempo Charles andava a Langley ed Erik non se ne preoccupava perché Charles non era ossessionato e sapeva controllare perfettamente il suo bisogno spasmodico di sentire, come diceva lui. Non era sete di potere. Era mettersi in contatto. Comunicare. Nient’altro. Mai.
E c’erano così tante persone, difficilmente riusciva a rimanere da soli, giocavano a scacchi alle tre di notte bevendo whiskey e acqua e Charles sorrideva di quel suo sorriso un po’ triste ed Erik faceva finta di non sapere il perché. E c’erano sembra qualche battaglia di combattere contro qualcosa o qualcuno che faceva a turno per cercare di farli a pezzi, ma tanto anche quando non era così Charles trovava qualcun altro bisognoso di aiuto e non era affar loro ma perché perdere un’altra perfetta occasione per morire?

<< Cosa stai facendo? >>

Erik era passato per caso di fronte allo studio di Charles diretto verso un’altra classe. Aveva buttato un occhio casuale all’interno aspettandosi di trovarlo dietro la scrivania circondato da una piccola miriade di teste chine a prendere appunti, ma si era fermato quando aveva visto che Charles era solo. Solo, e di spalle. Guardava l’ampia finestra, verso il giardino.

<< Nulla, amico mio. Osservo >>

Senza motivo, Erik si era trovato ad andare verso la finestra per guardare qualsiasi cosa avesse catturato l’attenzione di Charles, lanciandogli un’occhiata nel frattempo. Sembrava in preda alla massima concentrazione, le unghie conficcate nei braccioli della sedia. Guardò anche lui verso il giardino.

Alcuni ragazzi stavano litigando.
Riconobbe Bobby, Kurt e Alex. Ce ne erano altri quattro che non ricordava. Erano tutti maschi. Vide Alex, teso e coi pugni stretti avvicinarsi a Kurt, il volto scuro illeggibile e minaccioso, Bobby stava dietro a Kurt con le braccia conserte, un altro ragazzo alla sua destra parlava gesticolando ma nessuno gli prestava attenzione. Poi Kurt scattò in avanti spigendo Alex con violenza, facendolo cadere al suolo e con un balzo gli atterrò sullo stomaco, la coda che si muoveva pigramente dietro di lui, disegnando cerchi sinuosi sulla testa di Alex. La situazione stava precipitando velocemente e presto Summers avrebbe reagito.

<< Schaisse >>, sibilò Erik tra i denti prima di girare sui tacchi e correre in giardino. Scese le scale a due a due e mise piede fuori un attimo prima di udire il primo schianto. Havoc.
Alex ringhiava come un animale in gabbia, mani e caviglie congelate, Bobby ancora di fronte a lui con le braccia alzate, gli occhi spalancati e increduli. Kurt, nonostante la bruciatura sul braccio, rideva.

<< Cosa state facendo, siete impazziti? >>

Ci volle relativamente poco a risolvere la situazione. Scott trascinò via silenziosamente il fratello, stringendolo per un braccio, ma Erik fece in tempo a notare graffi sul volto di Alex e i segni rossi che aveva sul collo. Kurt era sparito, e Bobby era lì in piedi e lo guardava senza timore, in attesa di una punizione. Erik si limitò a fargli un cenno e il ragazzo corse all’interno.
Avrebbe dovuto chiamare Bestia. Era l’unico che sapeva parlare con Mystyque di queste cose. Kurt era suo figlio dopotutto.

Ma perché Charles non aveva ancora detto una parola in tutto ciò?
Si voltò di scatto con una domanda già sulle labbra e in quel momento si accorse che Charles non era lì. Eppure l’aveva seguito giù in giardino, ne era sicuro. I suoi occhi schizzarono immediatamente alla finestra dello studio sul terzo piano.
Charles non si era mosso, immobile sulla sua poltrona, gli occhi abbassati su di lui. Alzò una mano, e per un attimo sembrò che se la stesse portando alla tempia ed Erik per qualche motivo pensò
sta per uccidermi. Si limitò a passarsi una mano tra i capelli. E sorrise.

<< Dobbiamo tornare alla scuola >>

Erik è seduto sul letto, guardando verso il muro. Charles non si muove e non offre alcuna risposta. Il profilo del suo corpo è bianco come le lenzuola che gli coprono le caviglie. E’ perfettamente immobile, forse è morto. Forse la sua follia l’ha ucciso così, nel sonno, un piccolo e inaspettato atto di pietà, in modo che non sia Erik a doverlo fare.

<< Si. Torniamo, Erik >>

Charles si è alzato a sedere, le gambe magre e inutili pesanti sul materasso. Guarda Erik, e sorride.

<< E’ una splendida idea >>

E’ mattina.

C’è qualcosa che non va.

Tutto ciò che Erik si aspettava dalle sei ore che li separavano da Westchester era lo stesso silenzio teso e inquietante degli ultimi giorni. Si aspettava gli improvvisi sorrisi di Charles e le parole che non diceva ma che in qualche modo c’erano comunque, non scritte con la mano leggera della sua telepatia, ma dense e pesanti alla base del cranio, quasi insostenibili.
Gli girava la testa.
La sensazione di malessere era diventata talmente pronunciata che Erik non poteva più ignorare quel vuoto che si stava estendendo dal suo petto alla gola fino a riempirgli gli occhi. L’autostrada sembrava infinita e calma e la sensazione sconosciuta e senza nome era angoscia, ed Erik avrebbe avuto modo di approfondirne il significato molto presto.
Charles sedeva nel sedile di fianco al suo, profilo appena visibile dietro la massa di capelli castani. Teneva la fronte appoggiata al finestrino, le pelle troppo bianca e madida di sudore. Respiri brevi e irregolari. Gli occhi, presumibilmente, chiusi.
L’intera postura di Charles, la curva delle sue spalle, i tremiti improvvisi delle sue mani e il modo in cui sembra rannicchiarsi su sé stesso, parlavano di sconfitta.
Automaticamente Erik allungò il braccio per scostargli un ciocca di capelli dalla fronte. Charles sta tremando. Ed in quel momento Erik capisce quanto Charles sia vulnerabile, quanto il suo potere lo renda in fondo debole e quanto abbia bisogno in realtà di essere protetto, anche da sé stesso.
Solo che non è così. Non è affatto così.

E di chi erano quei pensieri, non erano suoi non è vero? Oh dio. Cosa stava pensando, no, chi stava pensando? Qualcuno aveva appena pensato per lui. Oh dio, dio aiutami.

Erik sussulta e per un attimo il suo controllo sul volante cede. Uno scatto a destra, appena percettibile, niente di più. Tiene gli occhi fissi sulla strada, e per quanto non possa vederlo potrebbe giurare che Charles abbia appena sorriso.
Se c’è qualcosa che Charles Xavier non sarà mai, è vulnerabile.

Ed è proprio lì, quando Erik pensa di avere il controllo ed è all’erta con tutte le sue difese, è proprio in quel momento – quando meno se lo aspetta – che Charles inizia ad urlare. Sono in macchina da un’ora, mancano cinque ore a Westchester. Non c’è preavviso. Semplicemente il telepate scatta in avanti, gli occhi spalancati e terrorizzati ed inizia a urlare e per Erik improvvisamente è tutto ovattato, i contorni si sfilano e non c’è più nulla, non c’è più la strada o il volante o l’ossigeno o le sue mani, niente a parte le grida di Charles. Erik sa perfettamente di non averlo mai visto così fuori controllo ed è il momento peggiore perché Charles sta battendo i pugni contro i vetri e grida e piange e la sua testa sta per esploedere, se Erik non fa qualcosa subito esploderà questo è certo, ma Erik deve fermare la macchina e deve trovare lo spazio sufficiente per farlo e sono i trentadue secondi più terrificanti della sua vita, Charles morirà perché io non sono stato abbastanza veloce a parcheggiare una macchina.

Poic’è un istante di chiarezza, ed Erik vi si aggrappa con tutta la disperazione di cui è capace (ed è tanta) e allora sa esattamente cosa fare: trova lo spazio sufficiente, ferma la macchina e scende, precipitandosi dalla parte di Charles che grida e singhiozza e non riesce a respirare e si inginocchia di fronte a lui. Erik pensa all’epilessia e agli ultimi spasmi di agonia dei cadaveri ambulanti di Dachau, morti ancora prima di smettere di muoversi. Oggi esattamente come allora, Erik non sa cosa fare. Prende Charles per gli avambracci e lo costringe ad un abbraccio goffo e violento, soffocante, lo tiene per i polsi e potrebbero anche spezzarsi ma Erik non lasciarebbe andare comunque ed Erik non sa cosa fare, non sa come raggiungerlo. Lo stringe e sente il peso umido di Charles sulla sua spalla, le sue lacrime e la sua bocca dove sta mordendo per soffocare le grida, e tutto il suo corpo è di vetro, rigido e fragile allo stesso tempo.
Erik aspetta che passi. Passerà. Passa sempre.
Lentamente, Charles lascia andare. I singhiozzi si quietano ed Erik sente sulla spalla il peso familiare della sua fronte. Apre gli occhi. Non si era accorto di averli chiusi. Charles non grida più. Sussurra.

<< State zitti. Non mi interessa. Smettila, smettila subito non ti ho mai sopportato. Dovete andarvene. State zitti, altrimenti. No. No. Ti prego no. Per favore smettetela io non ce la faccio. State zitti. >>

Non è lui. Non sono i suoi pensieri questi. Dev’esserci qualcosa che non va, non riesce più a controllarli. Erik si stupisce della facilità con cui riesce a mentire a sé stesso.

<< Charles? Charles, cosa sta succedendo? >>

<< Ieri ho catturato un passero e gli ho staccato la testa. Volevo vedere il sangue >>

<< Cosa stai dicendo? Charles? >>

Passano alcuni secondi. Il respiro di Charles è pesante ma grida più. Erik continua a tenerlo e non lo guarda in faccia. Nonostante tutto, Erik si accorge che questo è un istante di tranquillità che non vuole perdere. Potrebbe essere l’ultimo. Appoggia il mento sulla sua testa e lo ascolta respirare.

<< Non lo so. Erik, sei qui vero? >>

In un attimo di panico Erik gli afferra il volto tra le mani e lo costringe a fissarlo.

<< Certo che sono qui. Mi vedi, vero? Mi vedi? >>

<< Si. Si, ti vedo >>, risponde lentamente, è c’è quasi tranquillità nella sua voce. Non è sopreso dalla domanda. D’altronde, Charles raramente è mai stato sorpreso. Erik appoggia le labbra sulla sua fronte. E’ bollente. Rimangono così per un po’, solo un altro po’. Alla fine Charles si addormenta, gli occhi rossi e il volto ancora bagnato di lacrime e quindici anni in meno. Erik lo sistema sul sedile e mantiene gli occhi fissi sulla strada.

La tregua dura poco più di un’ora. Quando ricomincia, è peggio di prima, ma Erik è pronto.
Charles inizia a gemere nel sonno. Le mani si irrigidiscono in pugni che lasciano le nocche bianche e lisce come il ventre di un pesce. Inizia a tremare violentemente, e poi apre gli occhi.
Ricominciano le grida.

E di nuovo Erik tiene Charles stringendo un po’ troppo e gli sussurra che andrà tutto bene anche quando non è così mentre lui giura che non vuole, davvero non vuole farlo.
Erik non chiede cosa.

Mancano tre ore a Westchester, ed Erik incomincia a chiedersi se questa sia una buona idea. Charles non dorme e sembra sul punto di svenire da un momento all’altro, è così pallido che il rosso delle sue labbra sembra una ferita aperta e calda e i suoi occhi sono autostrade mille miglia più avanti. Lentamente, Charles rotea le pupille e lo guarda. Non dice niente. Sta sorridendo? Non dice niente. Si lecca le labbra.
Erik si volta verso la strada.
Succede in quel momento.

Charles sussulta violentemente e precipita in avanti, afferrando Erik per un braccio con un grido strozzato che dice fermati fermati fermati nella sua testa ed lui si ferma. Immediatamente. In mezzo alla strada. Erik rimane senza fiato per qualche secondo e guarda Charles e pensa che cosa hai fatto che cosa mi hai fatto e sa che deve averlo sentito perché Charles abbassa la testa come se provasse vergogna, come se non fosse completamente pazzo. Erik rimette in moto ma ormai è troppo tardi perché Charles ha ricominciato a singhiozzare e si tiene la testa, è piegato in avanti con le unghie conficcate nel cranio ed Erik non riesce a sentire cosa dice ma è questione di un attimo, solo un attimo.

<< Charles >>

A cosa servirebbe chiedergli cosa sta succedendo? Non risponderebbe. Charles è lontano, non sembra neanche sentirlo rannicchiato com’è su sé stesso e mormora mormora con una voce così dolce che Erik potrebbe ascoltare per ore.

<< Vi ucciderò tutti vi farò a pezzi voi non avete idea di quello che posso fare morirete tutti se non la smettete subito vi brucerò tutti come ho bruciato gli altri vi uccido dovete stare zitti dovete smettere vi uccido io ti odio ti odio ti odio perché ci stai facendo questo >>

E allora Erik fa l’unica cosa possibile, l’unica cosa normale. Prende Charles per il polso, delicatamente, stringe la sua mano e se la porta alla tempia. Fammi vedere, pensa.

Charles si volta e lo guarda ed è terrorizzato ed Erik lo sente chiaramente, perché dice no, e cerca di liberarsi dalla sua stretta che era gentile ma ormai è diventata d’acciaio e Charles non può più scappare, Charles non andrà da nessuna parte senza Erik.

<< No Erik. No, no no non devi farlo >>

<< Charles. Puoi benissimo parlare nella mia mente. Cosa stai facendo? >>

Il telepate sembra stupito per un secondo, la sua espressione cambia completamente: è incredula, genuinamente sorpresa. E seria.

<< Ti sto salvando la vita >>

Poi si irrigidisce e Charles sembra crollare su sé stesso, scosso dalla febbre e dagli incubi e in un luogo in cui Erik non può raggiungerlo e si accorge che più tenta di tenerlo per sé più Charles sembra sfuggirgli.

<< Non ce la faccio. Sono troppi. Mi dispiace >>

E’ due ore dopo che Charles parla di nuovo. Sono in macchina ed è il crepuscolo, la luce morbida del sole calante regala una serenità artificiale al volto di Charles, alle linee e i segni e i cerchi sotto i suoi occhi, che per un istante scompaiono nella morbida penombra. Anche la sua voce è stranamente calma, e non trema.

<< Tutti quanti… E’ così difficile tenerli a bada, Erik. Non ho un attimo di pace. Sto impazzendo, non è vero? Ti prego dimmi che non è così. Non ce la farò ancora per molto. Non voglio. E se lasciassi andare, Erik? Cosa succederebbe? Io credo di avere paura. >>

Pausa.

<< Non voglio farti del male. Non mi importa degli altri, ma se fossi tu Erik non lo sopporterei, non potrei mai farti del male, mai >>

Erik deglutisce. Pesa con cura le sue prossime parole. Ha paura che una sola parola sbagliata possa far ripiombare Charles nella follia, e sa che accadrà, gli basta che non sia colpa sua. Solo un altro po’, vuole stare con Charles solo un altro po’.

<< Non mi devi proteggenere da nulla, lo sai. So difendermi >>

Charles sorride. E non è un ghigno, non è un sorriso-fantasma. E’ un sorriso vero, un sorriso di Charles. Erik vorrebbe che il tramonto non finisse mai.

<< Amico mio, certo che lo so. Non ti sto proteggendo da nulla e il mio fallimento è evidente. Eppure avrei. Avrei voluto salvare tutti e invece ci ho condannati, tutti quanti ed è così e in realtà non importa, Erik, Erik a me basta poter salvare te >>

Il sole è quasi scomparso, calano le ombre dure della sera. Dai finestrini spalancanti arriva un vento freddo che penetra nelle ossa.

<< Dio è l’uomo >>, Charles sta mormorando tra sé e sé ed Erik sa che l’ha perso di nuovo.

Forse in quel momento avrebbe dovuto dire addio.



Charles ha l’ultima crisi ad un’ora da Westchester.
E’ la più violenta, e per evitare che si cavi gli occhi da solo Erik deve bloccargli i polsi con due lamine di metallo prese in prestito dalla macchina.

Avrei apprezzato se Yahwèh avesse ascoltato la mia voce, le mie suppliche, se mi avesse teso l’orecchio

E Charles grida che fa male fa malissimo devono smetterla oh dio Erik falli smettere devo farli smettere ti prego e si butta contro le manette con tutta la forza di cui è capace, fino a segnarsi i polsi, due linee rosse perpendicolari alle arterie bluastre alle quali Erik preferisce non pensare, perché assomigliano alla perversa imitazione di una croce.

mi avviluppavano le corde della morte, le strettezza dello sheòl mi trovarono e io trovai pena ed angoscia, e chiamai il suo nome.

E’ tutto qui? E’ a questo che si sono ridotti i loro sogni, le aspirazioni, i desideri? Charles se ne è andato. E’ tutto finito, ed Erik vorrebbe solo chinare la testa e piangere, ma non può farlo. Forse non ricorda neanche come. E allora prega.

E molto mi afflissi, e dissi sconcertato, “l’uomo tutto è inganno”.

E’ quando arrivano all’accademia che si fa tutto più chiaro.
La scena che si presenta ai loro occhi ricorda in modo inquietante Langley, solo pochi giorni prima. C’è un silenzio innaturale, e il cigolio della ruote su cui scivola Charles rimbomba come passi in una chiesa. Nulla si muove, non c’è niente, assolutamente niente.
In quel momento Erik sa con certezza che sono tutti morti.
Non ha bisogno di voltarsi, Charles non lo guarda, il suo volto è cupo e concentrato e barricato, chiuso in un posto lontano, e di nuovo Erik non può raggiungerlo. Cammina come un condannato a morte, come se ogni passo potesse essere quello dove il suo piede incontra la mina. Trattiene il respiro. Non succede niente. Charles aveva perso il controllo, e si vede.
Il primo che incontrano è Banshee. Giace supino a terra, rosso di sangue, ed Erik rovescia il suo corpo col piede. La gola di Cassidy è completamente squarciata, la bocca spalancata in un grottesco sorriso alla Glasgow. Ha gli occhi ancora aperti, ma Erik non crede abbia più molta importanza ormai. Poco distante c’è un altro cadavere, e si tratta di Bobby, perfetto come era in vita, solo immobile e freddo. Gli esce sangue dalle orecchie, dal naso e dagli occhi chiusi, o meglio usciva, ormai è un flusso fermo. Cassidy lo ha ucciso pensa Erik per un attimo ed è quasi divertente, l’ironia della sorte, ma sa che non è così è stato Charles. Charles ha ucciso entrambi. Charles che lo segue silenzioso come un’ombra e lo guarda da sotto quelle lunghe ciglia e freme senza parlare.
Erik continua a camminare ed è come una macabra parata, Angel con le ali squarciate e il volto carbonizzato, Jubilee in un lago del suo stesso sangue, moncherini al posto delle braccia, Alex tranciato a metà, e Scott deve essere il corpo di fianco al suo, anche se è difficile dirlo quanto la sua testa è completamente esplosa. Avanzano lentamente, e Charles lascia due strisce rosse dietro di sé.

<< Che cosa hai fatto? >>

<< Li ho uccisi. >>

Il suo tono è piatto e meccanico.

<< Perché? >>

<< Non volevo >>

<< Perché? >>

<< Volevo farlo >>

<< Erano tutto ciò che avevamo, Charles. Anche la CIA. Hai distrutto tutto. Non ci è rimasto più nulla, adesso cosa faremo? >>

<< Non so perché non l’ho fatto prima. Perché ho aspettato così a lungo, Erik? >>

Ed Erik pensa che in quel momento gli si dovrebbe spezzare il cuore, perché Charles è genuinamente curioso, pieno di un’innocenza infantile che non ha mai posseduto in realtà. I bambini sono crudeli e senza cuore, così gli aveva detto una volta. Parlavano dei metodi di allenamento, perché Erik era troppo duro e bisognava educarli alla compassione, aiutarli a controllare i propri poteri non voleva dire trasformarli in macchine da guerra. Devono sapersi difendere, aveva pensato Erik. Appunto. Charles forse aveva sorriso, forse no, non aveva importanza. Non attaccare. Difendersi.
Non avevano saputo difendersi contro di lui però.

<< Io non lo so >>

Charles lo guarda. Sempre pensieroso per un momento. Apre la bocca e ancora una volta non riesce a parlare, ed Erik lo sa che ormai non ha più niente da perdere, ed è per questo che lo dice:

<< Charles, tu sei pazzo >>

E Charles alza lo sguardo ed è incredulo, solleva un sopracciglio in quel modo disgustosamente inglese ed è quasi comico, veramente.

<< Non dire sciocchezze. Mi rendo perfettamente conto di quello che faccio >>

<< Charles hai ucciso tutti, senza motivo. E non te ne importa niente. Erano amici, compagni, famiglia. Come puoi dire di renderti conto? Non hai neanche pianto >>

E’ così ovvio e logico ed Erik quasi soffre a doverlo spiegare a Charles, Charles che non riesce a comprendere i fatti nella loro semplicità, e questo testimonia quanto lui sia lontano.

<< E cosa ti dice che non mi importi, mh? Dovresti sapere perfettamente cosa significa nascondere le proprie emozioni, quante l’avrai fatto, pur soffrendo >> pausa << Dimmi una cosa, Erik, quanto tua madre è morta, hai pianto? >>

Erik stringe i pugni e il lampadario al centro della stanza cade a terra. La stanza è immersa dalla penombra ora.

Questo non avresti dovuto dirlo

La logica di Charles è priva di pietà, inumana, e per questo perfettamente plausibile. Ad ogni sua parola Erik si sente impotente. Non riesce a combatterlo, ed è come affogare nell’acqua gelida senza ritrovare la superficie. E’ la solitudine, perché lo sta perdendo, sta perdendo il controllo, sta perdendo tutto. E’ cadere. E’ morire in aereo.

<< So bene quello che ho fatto. E mi dispiace. Semplicemente non ho potuto evitarlo. Ammetto di aver perso il controllo, Erik >> e c’è una certa gravità, e serietà nella sua voce << Ma non sono impazzito >>

Erik cerca una risposta, una qualsiasi, ed è con orrore che si rende conto di non essere in grado di fornirne una. Sta crollando di fronte alla logica di Charles, e non vuole pensarci, ma ormai è troppo tardi perché si sta chiedendo e se non fosse pazzo?

Cade a terra, in ginocchio, le mani tra i capelli, e la cosa peggiore è che Charles lo conforta, gli posa le mani sulle spalle, così delicato, e gli bacia la fronte. Come se andasse tutto bene.

<< E adesso? Cosa succede adesso? >>

Charles sorride.

<< Adesso tu mi uccidi >>

Erik incomincia a ridere.


Erik ricorda quasi tutto del il periodo di tempo passato con Shaw. Ogni sevizia, ogni parola, ogni volto. Era come se la sua mente volesse riempire il vuoto che si era andato a creare. Si era formata una voragine immensa, e lui aveva perso tutto. Sua madre, la sua identità, la sua infanzia, tutto era andato perduto. Ed Erik aveva rischiato di perdere anche sé stesso, e questo non poteva permetterlo. Non era giusto, che Herr Doktor sopravvivesse impunito a tutto quello. Come non era giusto quello che stava facendo Hitler, come la guerra, niente era giusto. Pagheranno per questo, diceva sempre sua madre. E lui si sarebbe assicurato che fosse così, e aveva deciso di sopravvivere, solo per quello.

<< Non lo farò. Non ho nessuna intenzione di farlo, tu sei… >>

<< …Pazzo? Credevo di averti appena dimostrato il contrario. Erik, questo non è il delirio di una mente. Lo capisci anche tu, si tratta di me o dell’intera esistenza su questo pianeta. Cosa sceglieresti, Erik? >>

In quei lunghi anni, Erik non si era concesso niente, aveva preservato solo sé stesso e la sua sanità mentale, perché era ciò che gli serviva.
Ed era così che si era andata a creare: spontaneamente, silenzio e quieta, come un fiore notturno che aveva nutrito e curato senza mai mostrarlo a nessuno. La sua unica indulgenza, inutile e bellissima.
Erik aveva un sogno.
Quando era notte, e tutto taceva, nel momento prima di perdere coscienza, la sua mente poteva vagare, e puntualmente tornava lì: la pace, un’esistenza priva di dolore. Quanto la desiderava! A volte quasi poteva vederla, assaporarla, e allora la nascondeva con ancora più cura, perché nessuno vedesse. Nessuno doveva saperlo. Era il suo unico punto debole.
Solo Charles. Solo lui, e nessun’altro.
Avrebbe dovuto capirlo che non poteva esistere nulla del genere.
Solo un’illusione. Una storia, alla quale avrebbe creduto solo uno sciocco. Ma era necessario, altrimenti avrei perso me stesso. Ci si era aggrappato allora, con tutta la disperazione di cui era capace. E adesso? Cosa ne sarebbe stato di loro, dei pomeriggi e delle sere e delle mattine e delle ore passate, quando Erik aveva pianto e Charles aveva riso, e della volta che Charles aveva pianto mentre Erik rideva? Tutta la loro esistenza, i loro giorni, misurati con i cucchiaini da caffè. Era finito tutto. Forse non era mai esistito.
Per tutta la vita ci si era aggrappato, e ora?
Così Erik lascia andare.

<< Cosa sceglieresti? >>

<< Tu. >>

<< Oh, Erik. Sei impazzito >>

<< Si >>

<< Mi dispiace >>

<< Non è vero >>

<< Non essere sciocco. Certo che lo è >>

<< Non lo farò, Charles >>

<< Oh sì. Mi dispiace, Erik, mi dispiace così tanto. Ma tu lo farai >>

<< No! No, no, no, non ci provare neanche non pensarci neppure, non farlo! >>

<< Non ti preoccupare. Va tutto bene. Staremo bene. La vedi la mia mano? Lo so che il mio pugno ora è chiuso, ma non voglio rovinarti la sorpresa. E’ per dopo, il mio ultimo regalo per te. Andrà tutto bene. Staremo sempre insieme Erik, te lo prometto. Te lo prometto >>


Oh separarsi è sempre un dolore così grande tesoro mio


Charles è entrato nell’oscurità, ed Erik lo segue.









  
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