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Autore: _ALE2_    28/07/2011    1 recensioni
Aaron abbassò lo sguardo concentrandosi sulle loro mani, grandi e forti le sue, sottili quelle di Lear, vide il suo polso accompagnato soltanto da un serio orologio e di contrasto quello di Lear, contornato da mille diversi bracciali e pensò che forse, anche quello era l’ennesimo simbolo della loro immensa diversità caratteriale.
“Guardami. Dimmi qualcosa, dimmi che devo rimanere qui, dimmi che non devo lasciarti!”
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Una vita intera'
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Nota iniziale: questa fanfiction è stata scritta per il concorso ‘A contest for an image’ e si è classificata al primo posto (un paio di ere fa). E’ collegata con le altre due storie della serie, ‘Arrivederci’ e ‘Just a Game’, anche se in una linea temporale questa le precede tutte.
Mando un abbraccio a tutti quelli che hanno letto, questa volta mi farebbe piacere ricevere un commento! Un bacio enorme,alla prossima.
    
 




Mano nella Mano (Even if we are together, we can’t do this.)



“And all I want…is to be home”
 
 
 
Quella giornata era stata sicuramente fruttuosa, aveva studiato per ore ed ore chiuso nella biblioteca della facoltà, perdendosi nelle precise descrizioni del suo libro di anatomia, memorizzando con estrema accuratezza tutti i termini e le funzioni che non conosceva.  
Si poteva finalmente dire soddisfatto di se stesso, il suo solito stacanovismo gli aveva fatto venire terribili sensi di colpa per non aver studiato il pomeriggio precedente, troppo preso ad ascoltare tutte le canzoni che Lear gli aveva costretto a giudicare perché in preda ad un’ansia asfissiante.
Da che ne avesse memoria ogni volta che Lear doveva affrontare una serata in un locale particolare, il biondino perdeva la testa, che poi per conseguenza la facesse perdere anche a lui, non sembrava mai interessargli, anzi, ogni volta ritornava sempre più nervoso e sempre più smanioso di certezze.
Il rapporto che li legava, Aaron lo sapeva, se lo ripeteva all’infinito, non sembrava propriamente quello di due carissimi amici, sembrava più un rapporto padre-figlio, dove Aaron tranquillizzava il più piccolo, lo proteggeva, e l’altro gli donava quella tenerezza che a volte solo un bambino sapeva dare.
Il pensiero di Lear bambino lo fece sorridere, mentre la moto superava tranquilla le macchine in coda ed il casco nascondeva quel rarissimo sintomo d’allegria così contrario rispetto al suo solito carattere burbero.
 
Arrivato finalmente nei pressi di casa, Aaron decelerò la sua corsa, mentre si godeva un po’ l’ultimo sprazzo di aria che gli riempiva il giubbotto di pelle e il familiare odore del motore della sua piccola.
Aveva diversi piani per quella sera, avrebbe quasi sicuramente trovato una scusa per scarrozzare la sua moto sul Belvedere, già si immaginava a correre indisturbato sulla strada poco frequentata, cielo in testa e mare di fronte agli occhi, il tutto contornato dell’assordante rumore del vento misto a quello del motore.  
Mentre sospirava la sua tanto agognata tranquillità, i suoi occhi si posarono sulla villetta accanto alla sua e lì quello che vide non gli piacque affatto.
Mantenendo la solita accortezza nei gesti, Aaron parcheggiò la moto e si sfilò il casco, già conscio di dover salutare tutti i suoi progetti e rimandarli a data da destinarsi.
 
Lear era accoccolato sul muretto di casa, le mani che nascondevano l’ovale magro del suo viso, i capelli biondi ammaccati dall’umidità dell’aria, la matita nera, che era solito usare per contornarsi gli occhi prima di una serata, completamente sciolta sulle guance bagnate da lacrime sottili.
Non seppe quanto rimase lì a fissarlo mentre giudicava quella scena quasi rivoltante. L’idea di entrare nell’ordinata villetta bianca e scaraventare via qualsiasi suo occupante gli balenò in testa melliflua e tentatrice, ma ancora una volta mise a tacere la rabbia per concentrarsi solo suo amico, che per colpa della sua famiglia, stava vivendo un inferno giornaliero.
 
Gli si avvicinò con passi lenti, cadenzati, come se con quella accortezza avesse potuto smorzare l’atmosfera tesa e struggente che permeava l’aria. Non si stupì quando vide i due immensi occhi verdi incontrare i suoi, umidi ed incerti come ormai aveva imparato a conoscerli.
 
“Aaron…”
 
Il suo nome pronunciato in quella maniera, con quel tono tremolante che sembrava gridare ‘aiuto’ in ogni suo aspetto, lo ferì ancora una volta rendendolo più nervoso e cattivo di quanto già non fosse.
Non si stupì nemmeno quando si ritrovò quella furia bionda attaccata al petto, con le braccia sottili che gli cingevano la schiena , le mani candide arpionate alla sua giacca e il volto perso nel suo collo che cominciava a bagnarsi di salate lacrime disperate.
Aaron strinse i pugni, mentre si dedicava a quell’abbraccio tutto muscoli che doveva fungere da consolazione ed invece sembrava esasperare entrambi.

 E mentre rifletteva sulla scena trovò quel verbo decisamente appropriato: esasperare.
Esasperante era la situazione, esasperante era quell’abbraccio, esasperante erano i genitori di Lear che no, non ne volevano sapere niente di un figlio così, esasperanti erano le continue occhiate dei vicini, esasperante era il fatto che Lear ancora non avesse trovato il coraggio di fare quello che andava fatto, esasperante era che nonostante tutto, l’amico non aveva ancora smesso di lottare.

Aaron strinse l’abbraccio che li stava legando, sentendo una mano di Lear che si immergeva nei suoi sottili capelli neri, scompigliandoli più di quanto già non fossero.
Sentì il sottile profumo di arancia invadergli le narici, avvertì il sapore della sua pelle quando gli posò un bacio sulla fronte fredda, si beò del solito calore confortante del suo corpo, che tutte le volte gli dava la forza necessaria per affrontare quello che per l’amico era la normalità.
 
All’improvviso la  porta della villetta si aprì, rivelando il primo occupante della casa: Olivier Russel, il padre di Lear. Immediatamente Aaron sciolse l’abbraccio che li stava legando, e guardò la figura dell’uomo di fronte a se con sguardo vuoto, completamente freddo.
Il Signor Russel però non fece una piega, limitandosi a guardarli con un sopracciglio inarcato e la solita aria schifata, stessa espressione di rimprovero e disgusto che ormai aveva indossato da mesi. Lear tremò impercettibilmente, mentre il padre li oltrepassava guardandoli fisso, senza commentare, senza degnarli ne di un saluto ne di un qualsiasi gesto di commiato.
 Mentre avvertiva lentamente la tensione scivolargli dalle spalle, sentì la voce del padre dell’amico sussurrare qualcosa e il successivo irrigidimento della persona che aveva di fianco. Non gli ci volle molto ad immaginare quali parole fossero arrivate all’orecchio di Lear e quale reazione avrebbero avuto sulla sua situazione già delicata. Aaron guardò senza parlare l’uomo andare via, mentre riprendeva a stringere l’amico adesso di nuovo singhiozzante, fra le sue braccia.
Lo cullò, tenendoselo stretto in petto, avvertendo come una lama nel cuore quelle mani sottili che gli si aggrappavano alla giacca, sentendo le gambe tremargli dalla rabbia e dall’impotenza.
 
“Aaron, portami via, il più lontano possibile!”
 
E lui lo fece; prese quella mano, la sentì calda e debole nella sua di contrasto fredda e salda. Gli perse la mano rompendo il loro abbraccio e lo portò alla moto con se, dritto verso quel qualcosa che da soli non sapevano affrontare, ma che dovevano reprimere almeno per il momento.
Lear, con le guance rigate di nero, nonostante i suoi ormai diciannove anni sembrava un bambino disorientato, un bambino che aveva passato la prima notte solo in casa ed aveva pianto tutto il tempo, troppo spaventato. L’impulso di stringerlo ancora a se si fece sentire forte come non mai, ma Aaron lo represse, deciso ad esaudire l’unica richiesta dell’amico.
 
“Sali, andiamo a farci un giro in moto.”
 
Lear annuì al suo tono fermo e si infilò il casco che gli era stato porto, mentre Aaron era già salito sul veicolo  e lo metteva in moto. In pochi secondi l’ordinata villetta bianca era soltanto un ricordo, erano lontani, uniti e maledettamente stanchi.
Aaron rimase rigido per tutta la corsa, avvertiva chiaramente le mani di Lear abbracciargli i fianchi ed immaginava che ancora una volta salate lacrime stessero cadendo dagli immensi occhi verdi, adesso mascherati dalla visiera del casco.  

Accelerò l’andatura, deciso a percorrere tutto il Belvedere senza fermarsi, trovando in quel momento fastidiosa anche la calma del mare, che  contrastava con quello che gli si agitava in petto: il bisogno di urlare in faccia a quei bastardi quanto li odiasse. I suoi pensieri si interruppero quando sentì Lear tremare, dietro di se. D’istinto decelerò, sentendo l’amico aggrapparsi a lui con più forza.
Per cosa ne potesse pensare la situazione non sarebbe cambiata, nessuno aveva il potere di farlo, se non lo stesso Lear.  
La soluzione era solo una, anche se era doloroso anche solo pensarci.

Quando arrivarono sulla spiaggia il sole era già quasi del tutto calato nel mare. Uno splendido colore arancione, contornato da un blu profondo faceva da sottofondo al rumore dei loro passi vicini.

Camminavano spalla contro spalla, senza fermarsi, senza guardarsi, senza nemmeno parlare.

Aaron si sentiva maledettamente impotente quella sera; impotente perché non riusciva a far reagire l’amico, perché non riusciva a dirgli che parole che erano già state dette e ridette centinaia di volte.

Lear si fermò all’improvviso, lo sguardo rivolto verso il mare che ormai aveva completamente inghiottito anche l’ultimo raggio di sole, soltanto una linea rossa continuava a rimanere fissa all’orizzonte, ultimo baluardo prima dell’incedere inevitabile delle tenebre.

“Vado via.”

Aaron chiuse gli occhi. D’istinto  afferrò la mano dell’amico rimasto fermo a guardare l’orizzonte davanti a se, mentre sentiva il respiro mozzarsi in gola e lo stomaco attorcigliarsi in una stretta dolorosa.

“Vado via.”

Ripeté Lear più forte, come se lo volesse confermare a stesso, cercando di convincersi di quello che aveva detto.
Aaron ancora non parlò, mentre apriva i sottili occhi verdi e si girava a guardare il profilo tirato dell’amico e pensava che alla fine, anche quel piccolo uragano si era reso conto dell’unica cosa possibile da fare.

In totale silenzio Lear ricambiò lo sguardo attento di Aaron, scoprendosi tremante.
Le loro mani ormai non erano più unite, soltanto i loro mignoli erano intrecciati, intrecciati così come erano in quel momento i loro sguardi, uniti ma sul punto di separarsi proprio come loro due.
Aaron abbassò lo sguardo concentrandosi sulle loro mani, grandi e forti le sue, sottili quelle di Lear, vide il suo polso accompagnato soltanto da un serio orologio e di contrasto quello di Lear, contornato da mille diversi bracciali e pensò che forse, anche quello era l’ennesimo simbolo della loro immensa diversità caratteriale.

“Guardami. Dimmi qualcosa, dimmi che devo rimanere qui, dimmi che non devo lasciarti!”

Singhiozzi.
La voce di Lear tremava incerta, così come la sua mano. Aaron ancora si ritrovò a guardarlo debole e distrutto come non era mai stato, in balia di una vita che era stata rovinata passo dopo passo.
Ed in quel momento avrebbe solo desiderato dirgli che sì, doveva rimanere con lui, doveva continuare ad invadere i suoi pomeriggi con le sue canzoni, doveva stargli vicino in ogni attimo della sua vita continuando a riempirla con quei sorrisi magnifici che soltanto lui sapeva fare.

“Non posso.”

Disse Aaron semplicemente, con voce inaspettatamente fredda.
Ormai anche le loro mani si erano divise. Aaron sentì un pezzo di sé volare via allo sciogliersi di quel contatto e soltanto in quel momento si rese conto di cosa significassero quelle parole.

Lear andava via.
La costante più dolce e tenera della sua vita aveva deciso di lasciarlo, doveva scappare, doveva andare avanti e riuscire a costruirsi una vita fatta di persone che lo amavano per quello che era.
Aaron si sentì mortalmente inutile ed anche profondamente egoista. Egoista perché in quel momento la voglia di ritirare tutto, di impedirgli quella scelta, gli solleticava le labbra, perché si rendeva conto che sarebbe bastata una frase, per portare avanti la loro vita così come era in quel momento.

Lear si accoccolò contro il suo petto, mentre continuava a piangere ed Aaron lo strinse forte, assaporando ancora il suo profumo perdendosi nei mille ricordi che aveva di lui, soffrendo e nello stesso tempo pensando che era l’unica cosa giusta da fare, l’unica  soluzione per mettere la parola fine ad anni ed anni di supplizi.

“Aaron…”

Il biondino si scansò un po’ da lui, Aaron lo guardo senza capire, mentre leggeva ancora nei suoi occhi un’ultima richiesta.

“…baciami.”

Ed Aaron spalancò un po’ gli occhi sorpreso, prima di assecondare la richiesta del suo amico.

Calò sulle sue labbra lentamente per dare il tempo al ragazzo di fermarlo se avesse voluto, Lear aveva chiuso gli occhi, mentre si lasciava ancora avvolgere dalle calde braccia dell’altro.
Per la prima volta Aaron sfiorò quelle labbra, trovandole salate a causa delle lacrime e seccate dal vento. Con una delicatezza di qui non si credeva capace  le baciò dolcemente, carezzandole con le sue, mentre sentiva le braccia del più piccolo aggrapparsi al suo collo e la sua bocca premere forte contro la sua.
E intanto che la notte ormai era calata sovrana, quello strano bacio si approfondì ancora, suggellando una volta per tutte quello che sarebbe successo.

Quando le loro labbra si separarono i loro volti rimasero vicini, Aaron poteva ancora sentire il caldo respiro di Lear sulla faccia, unito al suo dolcissimo sapore di cioccolata.
Il tempo scorse via così, mentre loro erano lì abbracciati con gli occhi incatenati da una profonda malinconia.

No, si disse Aaron, non era giusto trattenerlo.
Provando a starci vicino forse lo aveva trattenuto anche per troppo. Era giunto il momento che entrambi affrontassero la loro vita da soli.

“E’ giusto così, non è vero?”

Ancora una volta la voce di Lear tremava, ancora una volta lasciava a lui l’arduo compito di scegliere.
E mentre il pensiero di loro due distanti, i mille ricordi e tutto l’affetto che provava gli passavano davanti, Aaron ebbe il coraggio di scegliere.

 “Si.”




  
“Echoes and silence, patience and grace,
All of these moments I'll never replace,
Fear of my heart, absence of faith,
All I want is to be home “



 






Final notes:

Orrore. Soltanto questa parola.
Mi sono talmente affezionata ai personaggi che nonostante il lavoro non mi piaccia per niente, sono stata con il magone per un pomeriggio intero. Che dire, va bene così, alla fine l’importante è provarci!
Scena strana questa, forse acquisterà un senso soltanto inquadrata insieme agli altri lavori, ma il significato dovrebbe capirsi lo stesso.
Anche la canzone che ho scelto sembra strana, non è una songfic, ma mi sembrava adeguata a descrivere il momento, si tratta di “Home” dei Foo Fighters!
Ciao.

Neko

  
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