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Autore: Any Ikisy    29/07/2011    6 recensioni
Mentre arricciava distrattamente il filo del telefono attorno all’indice, man mano che gli squilli suonavano a vuoto nella cornetta appoggiata al suo orecchio, si chiese se il maltempo potesse interferire con la telefonata; un tuono rimbombò ad est, dove le nubi si facevano minacciose, e intravide la chioma del pesco in giardino scuotersi per le violente sferzate di vento.
[ II classificata al Infanzie Rubate Contest indetto da Namine22 e Hiko_Madara ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nickname: Any Ikisy
Titolo storia: Telefono senza Fili
Fandom: Originale; Romantico

Rating: Arancione
Genere:
Introspettivo, Malinconico
Parola scelta:
Voce
Note dell’autore (verdi): La fan fiction è suddivisa in quattro paragrafi della media lunghezza di una pagina ciascuno; spero che la storia, seppur magra, sia di piacevole lettura.



Infanzie Rubate Banner

Telefono senza Fili___#

{Prologo}

Nella stanza spoglia e stretta trapelava fioca la prima luce del mattino, attraversando la fredda coltre di nubi nel cielo di Novembre; le tende ricche e merlettate che vestivano le finestre cadevano sino al pavimento, sommandosi ai molteplici vestiti che vi erano sparsi senza cura e senza criterio.
Riconobbe i propri, tra le lenzuola sfatte ed umide cadute in terra, ed altri di taglia più piccola e meno attillati, ma comunque deformati dalle prosperose forme di un seno più formoso del suo.
Le prime ceneri della Chesterfield¹ che reggeva tra indice e medio caddero ai suoi piedi, mentre l’odore di tabacco insolitamente penetrante vezzeggiava le narici di chi aveva spartito il letto a due piazze con lei fino a qualche minuto prima.
Ne trattenne una boccata, si lasciò accarezzare il palato. Come fosse un’invadente lingua nella sua gola, baciò l’aroma dolciastro e lo assaporò con gusto, rapita dalla brace di una cicca che era in grado di scaldarla e confortarla più di una notte di passione.
Lasciò che il corpo della sua compagna si strusciasse tra le lenzuola fredde del suo lato, alla ricerca del suo calore, prima di uggiolare il suo nome come un cane che sta per essere abbandonato, infastidita per la puzza sempre crescente di una sostanza a cui l’aveva tristemente abituata. «Nany…» si sentì mormorare con un tono inconsciamente lascivo.
Da tempo le diceva di smettere; era riuscita a passare dalle rosse alle blu, solo per tornarci in un momento di debolezza come quello.
Schifata dal fumo ma inebriata dalla nicotina, raccolse il proprio intimo, un pantalone lungo che probabilmente le apparteneva ed una maglietta fin troppo profumata di vaniglia e cannella per essere sua; infilò il primo stivaletto col piede sbagliato nella penombra del bagno, prima di sfilarlo stizzita.
Afferrò solo il pacchetto di sigarette e le chiavi della macchina, prima di far risuonare i tacchi appena accennati nel lungo corridoio e chiudersi silenziosamente la porta alle spalle.


{
13 anni prima}

Un familiare pizzicore le solleticò la punta del naso, poco prima che un violento starnuto risuonasse nella vallata erbosa di fronte alla sua abitazione, tra i campi incolti di cui suo padre era proprietario. Le tonalità plumbee del cielo sulla sua testa, le nuvole cariche in avvicinamento da nord e l’odore di acquerugiola nell’aria le suggerirono di trovarsi in fretta un riparo.
Presto l’insistente ticchettio della pioggia battente si sarebbe unito a quello assordante delle lancette dell’orologio a pendolo posto all’ingresso della propria dimora.
Quel pomeriggio, come ogni altro, ogni casa era troppo distante dalla sua per prendere la bici e raggiungerla. I suoi genitori non avevano tempo da dedicarle, troppo impegnati a pagare la costosa benzina con cui raggiungevano l’ufficio; era spesso sola in casa, ma non si annoiava.
Disegnava su stralci di fogli, guardava svogliatamente la televisione stesa sul vecchio divano, restava in ascolto della radiolina portatile che suo padre le aveva regalato per il suo quarto compleanno, miracolosamente ancora intatta, nonostante le stazioni radiofoniche sintonizzabili nel raggio di qualche chilometro si potessero contare sulle dita di una mano.
A volte, telefonava a sua cugina.
Cecilia viveva dall’altra parte della Cecoslovacchia, in città. Era poco più giovane di lei, estremamente vitale, socievole e affettuosa. Spesso però si chiedeva se potesse davvero considerare sua cugina come la sua migliore amica.
Mentre arricciava distrattamente il filo del telefono attorno all’indice, man mano che gli squilli suonavano a vuoto nella cornetta appoggiata al suo orecchio, si chiese se il maltempo potesse interferire con la telefonata; un tuono rimbombò ad est, dove le nubi si facevano minacciose, e intravide la chioma del pesco in giardino scuotersi per le violente sferzate di vento.
«Pronto?»
«Ciao, Cecil…»
Riconobbe la sorpresa nella sua voce infantile e fin troppo chiara, falsata dall’apparecchio telefonico; gracchiava appena, notò.
«Come stai, tutto bene? Che stavi facendo?»
«Ah, stavo per uscire. Mi dispiace, ho promesso ad Emil che saremmo andati al cinema assieme oggi… esce il nuovo film con Brad Pitt! Andrai a vederlo?»
«No, non penso… ti ricordi quanto distante è, vero? Dopo l’ultima volta che ci abbiamo provato…»
«Oh, allora te lo racconterò appena torno, va bene?»
Sapeva si sarebbe dimenticata, «D’accordo. Allora divertiti, mi raccomando… e poi, voglio sentire tutti i dettagli su questo Emil.» «E tu allora che mi dici di Filip?…»
Ricordò di quando le aveva detto tempo addietro di come, sfogliando una rivista dalla parrucchiera, il suo sguardo si fosse spostato dalle acconciature colorate e sfiziose delle modelle ai loro capezzoli inturgiditi, sotto le maglie trasparenti o fin troppo sottili.
«Hai messo il profumo che ti ho regalato per andare al suo compleanno?»
Non ci era andata; «Sì, certo.»
Prima di abbassare il dito sull’interruttore e porre fine a quella tediosa conversazione, si chiese se fosse davvero quello il modo di conoscere il mondo, per lei: attraverso le parole di una cugina lontana che viveva una realtà completamente diversa dalla sua.
Se comunque non lo fosse stato, andava bene anche a quel modo.
Negli ultimi tempi, capitava sempre più spesso che Cecilia uscisse, com’era lei stessa a raccontarle: incontrava alcuni coetanei per passare lunghi pomeriggi al parco, frequentava la palestra e sporadicamente prendeva parte a gruppi di studio prima delle verifiche coi suoi compagni di classe.
Imboccò lo stretto corridoio ricco di quadri per dirigersi nella propria stanza e, soffermandosi sulla finestra, vide una larga pozzanghera costeggiare il vialetto sassoso antecedente all’entrata.
Nessuna abitazione nei dintorni per confrontarsi, solo pali dei cavi elettrici.
Affondò senza sforzo nella coperta di tela a quadri blu e verdi con cui il letto, ormai vecchio e sfaldato, era foderato; non opponeva alcuna resistenza al suo peso, seppur modesto.
Sul comodino lì in parte giaceva un portagioie pieno di trousse e profumi dei più svariati generi; per la maggior parte, nuovi e ancora imballati. Cecilia le ripeteva di curarsi di più, di uscire e incontrare nuove persone con cui fare amicizia… ma Nany era circondata da distese di margherite e menta, il suo unico mezzo di comunicazione era quel telefono ingiallito e consumato: il cavo era troppo corto per raggiungere la sua camera da letto, perciò si ritrovava spesso e volentieri chiusa a chiave nel bagno a parlare del ragazzo che a scuola la prendeva in giro e le faceva i dispetti, mentre Cecilia le suggeriva che, in realtà, quello era il suo modo di ricercare le sue attenzioni.
Si divertiva a darle false speranze, in un crudele gioco di ruoli.
Il suo sguardo freddo e disinteressato cadde sulla boccetta cilindrica sul cui involucro era scritto Eau de parfum: Tribute². Dopo aver sollevato il tappo blu che ne proteggeva il beccuccio, ne spruzzò un soffio sul polso ed inalò un’esigua quantità, tossendo per l’improvvisa e spropositata componente alcolica in esso contenuta: si sentì intossicare dalla fragranza fin troppo intensa e pungente. Un profumo che si addiceva alla figura impertinente e spregiudicata di Cecilia, piuttosto che alla propria.
C’erano tempi, ricordava, in cui trascorrevano interi pomeriggi a discutere del più e del meno, solo perché la solitudine si faceva troppo pressante per entrambe. Nessuna delle due si era mai sentita patetica per questo.
Ma Cecilia aveva una casa in cui ospitare i propri amici, poteva uscire per strada e prendere un autobus, sedersi accanto ad uno sconosciuto ed intrattenerlo con un discorso di qualunque genere, comprare il giornale per suo padre ogni mattina, prima di recarsi a scuola, o anche solo decidere che avere un fidanzato, dopo tutto, non è male, ma forse una fidanzata era meglio.
Nany si sentiva solo diversa; lo era, in fin dei conti. Per molti aspetti.
Non poteva ospitare i propri amici in quella casa, perciò presto si rese conto di non averne mai avuto alcuno: Cecilia era una sua parente che veniva a trascorrere con lei una settimana di vacanza, ma non resistevano a lungo nella stessa stanza senza litigare.
Le lacrime pizzicavano i suoi occhi umidi ed incolori per uscire; fu tentata di spruzzarsi sul viso il profumo e trovarsi così un buon motivo per piangere.
Lo strinse saldamente tra le mani, senza tuttavia mandare in frantumi il vetro né riuscire ad incrinarlo; scatto in piedi e corse in giardino, incurante del fango in cui le ciabatte affondavano e della pioggia che le rigava il viso. Soffocò un gemito di frustrazione, mentre lanciava con impeto la boccetta grigia ancora piena contro il tetto, sperando di non vederla andare in pezzi né avvertire mai più quella fragranza soffocante.


{
Primavera}

Ripensandoci, Nany non avrebbe saputo dire quando avesse smesso di attendere che qualcuno alzasse la cornetta dall’altra parte e avesse invece iniziato a lasciare squillare il telefono anziché rispondere; tuttavia sullo schermo del suo cellulare erano segnate quattro chiamate perse.
Tutte dallo stesso, prevedibile numero. Sospirò.
Il rettilineo che stava percorrendo un po’ distrattamente terminava con un passaggio a livello: intravide i pochi vagoni di un treno locale sfrecciare oltre le sbarre a strisce bianche e rosse abbassate. Dei graffiti dalle tinte brillanti coprivano parte delle fiancata e dei vetri appannati, ma la velocità era tale da renderli illeggibili.
Stava lasciando la città per dirigersi in periferia con una lettera scritta a computer ed una tanica riempita di benzina lungo la strada; le sigarette nel cruscotto assieme ad un manuale per il pronto soccorso ed un accendino monocromatico verde muschio³.
Abbassò il finestrino di qualche centimetro, creando una cappa per il fumo, ed approfittò della sosta di fronte al segnale ad intermittenza rossa per accendersi una cicca, portandola alle labbra ed inspirando la prima boccata.
Man mano che l’asfalto si scaldava sotto i pneumatici consumati della sua vettura, le pubblicità alla radio si facevano più torbide ed offuscate, sino a divenire un indefinito ronzio monotono e snervante; detestava pigiare ripetutamente il tasto alla ricerca di una nuova stazione radiofonica solo per scoprire che il suono non cambiasse di molto. Le rammentava che si stesse avvicinando alla meta.
La strada lastricata divenne un fastidioso andirivieni di curve e pendenze sterrate, in bilico tra una scarpata scavata nella roccia ed uno strapiombo di alberi e terriccio malfermo; gli ammortizzatori percepivano ed amplificavano ogni dosso ed ogni incavo, troppo abituati ai tragitti urbani. Interruppe il vociare ormai cacofonico della radio prima che la tentazione di spegnere la sigaretta ancora intatta nel mangiacassette la facesse impazzire.
L’aria fresca della montagna penetrò i suoi polmoni non appena scese dall’auto, reggendo la tanica con una mano e un ultimo tiro pronto ad essere corroso dalla brace nell’altra. Il più saporito, perché impregnato di nicotina, e il più dannoso, per lo stesso motivo.
La casa dei suoi genitori si ergeva fiera ed imponente, nonostante le termiti nel portico e i rubinetti arrugginiti in giardino, di fronte ai suoi occhi spenti e disillusi; si sentì magra, sin troppo esile per sostenere lo sguardo delle finestre regolari coperte dalle tende amareggiate, riluttanti all’idea di accoglierla all’interno ancora una volta, forse l’ultima.
Oltrepassò i primi gradini insicuri, trovandosi di fronte alla porta che suo padre aveva tinteggiato di rosso molti anni prima: era rimasta a guardarlo, con la mascherina bianca sul viso per non respirare la vernice protettiva, per un intero pomeriggio; a quei tempi, non aveva bisogno di ricercare le sue attenzioni per averle. Anziché afferrare il pomello tondo e consunto, si premette contro il legno sfibrato e malmesso, alla ricerca di una traccia del pungente odore per rievocare quel giorno nella propria memoria. Sarebbe entrata nel legno stesso, nei suoi ricordi, in ogni singola pennellata se solo avesse potuto; ora suo padre era morto senza lasciarle altro che lacrime non versate.
Entrando, si stupì di non percepire il vago aroma di mobili usati e panni bagnati: sua madre faceva il bucato di rado, ma l’ammorbidente che usava restava nell’aria anche per giorni, dopo aver stirato i vestiti puliti e freschi. Anche lei però se n’era andata, senza mai dirle che le voleva bene, dopo la sua dichiarazione di mancata eterosessualità: se n’era andata di casa, lasciando tra quelle mura la capacità di amare e lasciarsi amare, di concedere affetto come aveva fatto con Cecilia, ora unica parente rimastale in vita. Sposata e con figli a cui badare.
Era sua la lettera: le scriveva che l’abitazione era divenuta sua proprietà e poteva farne ciò che voleva, ma il profumo con cui aveva sigillato la busta infestava le stanze che attraversava ed i corridoi che percorreva.
Svitò il tappo del contenitore e coprì la fragranza che le avvelenava le interiora con un’insistente puzza di benzina, gettandola con forza sui mobili usando entrambe le braccia; la sigaretta stretta tra le sue labbra contratte in una smorfia di disgusto.
Non era riuscita a tornare in quella casa per sentirsi dire dai suoi genitori che le volevano bene anche se era scappata, per sentirsi sostenere anche se la sua diversità la logorava dentro, giorno per giorno, e non era in grado di sostenerla con le proprie forze; anche se li aveva abbandonati a loro stessi e ad una pensione da fame.
Perché era così. Le volevano bene, nonostante tutto.
Aveva bisogno di crederlo, di sentirselo dire…
Ma ormai era troppo tardi; non restava altro che una tanica vuota abbandonata alla porta della sua stanza, con lei dentro e un ultimo tiro della Chesterfield rossa pronto a diventare cenere.
Solo i timidi germogli primaverili di un pesco in fiore restavano a guardare l’incendio divampare attorno all’ultimo gracile bocciolo cresciuto e mai estirpato da quelle mura isolate e silenziose.


{Epilogo}

I fiumiciattoli di montagna in cui l’acqua piovana si raccoglieva dopo un temporale ben presto avevano fatto il loro seguito, solo i teneri steli delle ortiche di campo gocciolavano ancora.
La primavera, coi suoi acquazzoni improvvisi e i venti sempre pronti a spostare cumuli di nuvole dalle tinte prettamente indaco, aveva prepotentemente affermato il proprio dissenso, rallentando l’avanzamento dell’incendio con un temporale del tutto imprevisto.
Si chiese se fosse stato un caso che quel passante avesse visto il fumo denso e corposo salire dall’abitazione in fiamme; se non fosse stato invece interessato ad entrare in possesso della proprietà stessa.
La coperta termica drappeggiante sulle sue spalle copriva i vestiti bagnati e il viso sporco di fuliggine, mentre una bevanda calda che teneva tra le mani risvegliava le sue papille gustative ed il suo stomaco vuoto. Ma la voglia di parlare restava assopita, dopo un lungo silenzio che i vigili del fuoco giustificarono pienamente.
Si rese conto di non aver mai visto così tante persone lì attorno, ne sorrise con amarezza. Le ultime fiamme si spegnevano sotto potenti getti d’acqua e forti parole d’incoraggiamento del pompiere caposquadra, mentre una nuova auto attraversava il cortile di erba e pozzanghere per parcheggiarsi casualmente in parte a lei. Scesero alcuni giornalisti armati di obbiettivi e biro tascabili, ma solo uno di questi le si avvicinò; riconobbe immediatamente il cardigan violaceo aperto avanti che giaceva sul pavimento del suo appartamento quella mattina stessa.
«Nanètte!»
A giudicare dal suo tono alterato ed insolitamente acuto, avrebbe giurato che l’intervista gliel’avrebbe fatta qualcun altro.
«Benvenuta a casa mia, Agata.» ironizzò, mentre il tetto crollava definitivamente alle sue spalle.
Le venne incontro con falcate sempre più ampie, serrando i pugni e corrucciando maggiormente il viso ad ogni passo; era più giovane di lei, più intraprendente e spigliata, sempre pronta a tirare fuori gli artigli al momento giusto ed inginocchiarsi per ciò che le stava a cuore. Stereotipatamene diversa da lei, in tutto e per tutto.
Non si sarebbe sorpresa se fosse giunta sin lì, sul cucuzzolo più alto della montagna, solo per dirle «Tra noi è tutto finito.» ed invitandola magari a tentare nuovamente il suicidio, coi migliori auguri di riuscire nel proprio intento. D’accordo, questa era evidentemente farina del suo sacco.
Non era mai riuscita a capire cosa, di preciso, la facesse restare: era capace di scomparire per giorni lasciando solo un misero recapito telefonico, riapparire con la sola fame di sesso e nessuna giustificazione al proprio comportamento. Nemmeno l’ombra di un sentimento. Solo quando le venne incontro con audacia e un velo di amarezza sulla punta della lingua capì quanto dolore potesse averle procurato; ne era conscia, ma ancora lungi dal capirlo realmente.
Lo schiaffo che riecheggiò sulla sua guancia e nella vallata giunse improvvisa e lacerante; piegò il viso verso destra, senza opporre resistenza: sentiva di meritarlo, in qualche modo, ma il suo viso inespressivo non tradì alcuna emozione, agli occhi feriti della sua compagna improvvisamente fragile.
I suoi capelli corti e lisci, di un biondo cinereo sciupato e disordinato, ondeggiarono alla brezza fredda che soffiava alle sue spalle, mentre lo sguardo sfuggente cercavano riparo verso il pavimento fangoso; era notevolmente più bassa di lei, se ne compiacque.
«Dov’è il tuo block notes?» le chiese con un sorriso sarcastico.
«Dove cazzo è il tuo buonsenso!» si sentì rispondere in un gemito carico di risentimento.
La vide accasciarsi al suolo senza forze, ma si trattenne dalla premura di sostenerla con prontezza, immaginando che un qualunque contatto fosse l’ultimo dei suoi desideri, in quel momento. Non era mai stata brava a capirla, era solo inspiegabilmente attratta da lei, dopo tutto.
«Non rispondevi al cellulare, non riuscivo a capire dove fossi… ho pensato che ti fossi stancata e te ne fossi andata!»
Alzò un sopracciglio, «E non lo faccio sempre?»
«In questi giorni eri strana!» la vide stringere tra le dita ciuffi di erba bagnata e strapparli con forza, poi sollevare il dorso della mano e tentare di asciugare le lacrime che rigavano il suo viso spossato, «Non capivo cosa ti passasse per la testa… non sapevo cosa fare…»
«Sapevi già tutto della lettera, non è vero? Per questo non te ne ho parlato.» la curiosità di una giornalista era una prerogativa a cui un partner difficilmente avrebbe dovuto ovviare, a suo parere.
«Se questo ti creava dei problemi, avresti dovuto dirmelo anziché sparire in quel modo! Se vuoi lasciarmi… posso farmi da parte quando vuoi!» singhiozzò stralci di disperazione e arrendevolezza.
La gonna sopra al ginocchio che indossava si era piegata di lato, lasciando in mostra le sue gambe sottili e ben modellate, ormai sporche di terra bagnata; pensò che non fosse nemmeno passata da casa a cambiarsi, preda di un’immotivata angoscia.
Sollevò con un braccio il corpo freddo e tremante della ragazza e le porse la tazza con un movimento rapido ed elegante del polso, «Tieni». Si liberò del panno termico che le era stato gentilmente offerto da uno dei vigili, piegandolo e riponendolo in una delle vetture aperte; abbracciò la sua compagna sussurrandole all’orecchio «Torniamo a casa.» prima di allungare le labbra sulle sue e rubarle un bacio leggero per zittire una sua qualunque replica.
Se da una parte temeva che non sarebbe mai riuscita a contraccambiare completamente il suo affetto, si sorprese di averlo atteso a lungo, quel contatto, quando poi si sentì avvolgere le braccia dietro al collo con trasporto e approfondì l’effusione con impeto.
La tazza scivolò per terra, dando vita ad un suono attutito e rovesciando il proprio contenuto. La tisana bagnò le punte dei piedi di Agata, ma non i suoi talloni rialzati.










¹ marca di sigarette;
² mia madre non è stata molto utile a riguardo: a quanto pare, eau de parfum ha una concentrazione maggiore rispetto a quella de toilet… mentre Tribute è il nome del profumo;
³ il colore usato per il titolo, un esempio immediato;

Note: i personaggi sono di mia esclusiva invenzione: non saranno originali o speciali, ma sono miei. E anche se hanno un nome di merda, rimarranno tali.
Grazie per il banner a Hiko_Madara e per aver indetto insieme a Namine22 un contest così entusiasmante, ma anche a tutte le partecipanti e chiunque si sia messo in gioco per questa sfida spregiudicata.

Any Ikisy


  
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