Nickname: Any Ikisy
Titolo
storia: Telefono senza Fili
Fandom:
Originale; Romantico
Rating:
Arancione
Genere:
Introspettivo, Malinconico
Parola scelta:
Voce
Note
dell’autore (verdi): La fan
fiction è suddivisa in quattro paragrafi della media
lunghezza di una pagina
ciascuno; spero che la storia, seppur magra, sia di piacevole lettura.
Telefono
senza Fili___#
{Prologo}
Nella
stanza spoglia
e stretta trapelava fioca la prima luce
del mattino, attraversando la fredda coltre di nubi nel cielo di
Novembre; le tende
ricche e merlettate che vestivano le finestre cadevano sino al
pavimento, sommandosi
ai molteplici vestiti che vi erano sparsi senza cura e senza criterio.
Riconobbe i propri, tra le lenzuola sfatte ed umide cadute
in terra, ed altri di taglia più piccola e meno attillati,
ma comunque
deformati dalle prosperose forme di un seno più formoso del
suo.
Le
prime ceneri della Chesterfield¹
che
reggeva tra indice e medio caddero ai suoi piedi, mentre
l’odore di tabacco
insolitamente penetrante vezzeggiava le narici di chi aveva spartito il
letto a
due piazze con lei fino a qualche minuto prima.
Ne trattenne
una boccata, si lasciò accarezzare il palato. Come fosse
un’invadente lingua
nella sua gola, baciò l’aroma dolciastro e lo
assaporò con gusto, rapita dalla
brace di una cicca che era in grado di scaldarla e confortarla
più di una notte
di passione.
Lasciò
che il corpo della sua compagna si strusciasse tra le lenzuola fredde
del suo
lato, alla ricerca del suo calore, prima di uggiolare il suo nome come
un cane
che sta per essere abbandonato, infastidita per la puzza sempre
crescente di
una sostanza a cui l’aveva tristemente abituata.
«Nany…» si sentì mormorare
con
un tono inconsciamente lascivo.
Da
tempo le diceva di smettere; era riuscita a passare dalle rosse alle
blu, solo
per tornarci in un momento di debolezza come quello.
Schifata
dal fumo ma inebriata dalla nicotina, raccolse il proprio intimo, un
pantalone
lungo che probabilmente le apparteneva ed una maglietta fin troppo
profumata di
vaniglia e cannella per essere sua; infilò il primo
stivaletto col piede
sbagliato nella penombra del bagno, prima di sfilarlo stizzita.
Afferrò
solo il pacchetto di sigarette e le chiavi della macchina, prima di far
risuonare i tacchi appena accennati nel lungo corridoio e chiudersi
silenziosamente la porta alle spalle.
{13 anni
prima}
Un
familiare pizzicore le
solleticò la punta del naso, poco
prima che un violento starnuto risuonasse nella vallata erbosa di
fronte alla
sua abitazione, tra i campi incolti di cui suo padre era proprietario.
Le
tonalità plumbee del cielo sulla sua testa, le nuvole
cariche in avvicinamento
da nord e l’odore di acquerugiola nell’aria le
suggerirono di trovarsi in
fretta un riparo.
Presto l’insistente ticchettio della pioggia battente si
sarebbe
unito a quello assordante delle lancette dell’orologio a
pendolo posto
all’ingresso della propria dimora.
Quel pomeriggio, come ogni altro, ogni casa era troppo
distante dalla sua per prendere la bici e raggiungerla. I suoi genitori
non
avevano tempo da dedicarle, troppo impegnati a pagare la costosa
benzina con
cui raggiungevano l’ufficio; era spesso sola in casa, ma non
si annoiava.
Disegnava su stralci di fogli, guardava svogliatamente la
televisione stesa sul vecchio divano, restava in ascolto della
radiolina
portatile che suo padre le aveva regalato per il suo quarto compleanno,
miracolosamente ancora intatta, nonostante le stazioni radiofoniche
sintonizzabili nel raggio di qualche chilometro si potessero contare
sulle dita
di una mano.
A volte, telefonava a sua cugina.
Cecilia viveva dall’altra parte della Cecoslovacchia, in
città. Era poco più giovane di lei, estremamente
vitale, socievole e
affettuosa. Spesso però si chiedeva se potesse davvero
considerare sua cugina
come la sua migliore amica.
Mentre arricciava distrattamente il filo del telefono
attorno all’indice, man mano che gli squilli suonavano a
vuoto nella cornetta
appoggiata al suo orecchio, si chiese se il maltempo potesse
interferire con la
telefonata; un tuono rimbombò ad est, dove le nubi si
facevano minacciose, e
intravide la chioma del pesco in giardino scuotersi per le violente
sferzate di
vento.
«Pronto?»
«Ciao,
Cecil…»
Riconobbe la sorpresa nella sua voce infantile e fin troppo
chiara, falsata dall’apparecchio telefonico; gracchiava
appena, notò.
«Come
stai, tutto bene? Che stavi facendo?»
«Ah,
stavo per uscire. Mi dispiace, ho promesso ad Emil che saremmo andati
al cinema
assieme oggi… esce il nuovo film con Brad Pitt! Andrai a
vederlo?»
«No,
non penso… ti ricordi quanto distante è, vero?
Dopo l’ultima volta che ci
abbiamo provato…»
«Oh,
allora te lo racconterò appena torno, va bene?»
Sapeva
si sarebbe dimenticata, «D’accordo. Allora
divertiti, mi raccomando… e poi,
voglio sentire tutti i dettagli su questo Emil.» «E
tu allora che mi dici di
Filip?…»
Ricordò
di quando le aveva detto tempo addietro di come, sfogliando una rivista
dalla
parrucchiera, il suo sguardo si fosse spostato dalle acconciature
colorate e
sfiziose delle modelle ai loro capezzoli inturgiditi, sotto le maglie
trasparenti
o fin troppo sottili.
«Hai
messo il profumo che ti ho regalato per andare al suo
compleanno?»
Non
ci era andata; «Sì, certo.»
Prima di abbassare il dito sull’interruttore e porre fine a
quella tediosa conversazione, si chiese se fosse davvero quello il modo
di
conoscere il mondo, per lei: attraverso le parole di una cugina lontana
che
viveva una realtà completamente diversa dalla sua.
Se comunque non lo fosse stato, andava bene anche a quel
modo.
Negli ultimi tempi, capitava sempre più spesso che Cecilia
uscisse, com’era lei stessa a raccontarle: incontrava alcuni
coetanei per
passare lunghi pomeriggi al parco, frequentava la palestra e
sporadicamente
prendeva parte a gruppi di studio prima delle verifiche coi suoi
compagni di
classe.
Imboccò lo stretto corridoio ricco di quadri per dirigersi
nella propria stanza e, soffermandosi sulla finestra, vide una larga
pozzanghera costeggiare il vialetto sassoso antecedente
all’entrata.
Nessuna abitazione nei dintorni per confrontarsi, solo pali
dei cavi elettrici.
Affondò senza sforzo nella coperta di tela a quadri blu e
verdi con cui il letto, ormai vecchio e sfaldato, era foderato; non
opponeva
alcuna resistenza al suo peso, seppur modesto.
Sul comodino lì in parte giaceva un portagioie pieno di
trousse e profumi dei più svariati generi; per la maggior
parte, nuovi e ancora
imballati. Cecilia le ripeteva di curarsi di più, di uscire
e incontrare nuove
persone con cui fare amicizia… ma Nany era circondata da
distese di margherite
e menta, il
suo unico mezzo di comunicazione era quel telefono ingiallito e
consumato: il
cavo era troppo corto per raggiungere la sua camera da letto,
perciò si
ritrovava spesso e volentieri chiusa a chiave nel bagno a parlare del
ragazzo
che a scuola la prendeva in giro e le faceva i dispetti, mentre Cecilia
le
suggeriva che, in realtà, quello era il suo modo di
ricercare le sue
attenzioni.
Si
divertiva a darle false speranze, in un crudele gioco di ruoli.
Il suo sguardo freddo e disinteressato cadde sulla boccetta
cilindrica sul cui involucro era scritto Eau
de parfum: Tribute². Dopo aver sollevato il tappo
blu che ne proteggeva il
beccuccio, ne spruzzò un soffio sul polso ed
inalò un’esigua quantità, tossendo
per l’improvvisa e spropositata componente alcolica in esso
contenuta: si sentì
intossicare dalla fragranza fin troppo intensa e pungente. Un profumo
che si
addiceva alla figura impertinente e spregiudicata di Cecilia, piuttosto
che
alla propria.
C’erano
tempi, ricordava, in cui trascorrevano interi pomeriggi a discutere del
più e
del meno, solo perché la solitudine si faceva troppo
pressante per entrambe.
Nessuna delle due si era mai sentita patetica per questo.
Ma
Cecilia aveva una casa in cui ospitare i propri amici, poteva uscire
per strada
e prendere un autobus, sedersi accanto ad uno sconosciuto ed
intrattenerlo con
un discorso di qualunque genere, comprare il giornale per suo padre
ogni
mattina, prima di recarsi a scuola, o anche solo decidere che avere un
fidanzato, dopo tutto, non è male, ma forse una fidanzata
era meglio.
Nany
si sentiva solo diversa; lo era, in fin dei conti. Per molti aspetti.
Non poteva ospitare i propri amici in quella casa, perciò
presto si rese conto di non averne mai avuto alcuno: Cecilia era una
sua
parente che veniva a trascorrere con lei una settimana di vacanza, ma
non
resistevano a lungo nella stessa stanza senza litigare.
Le lacrime pizzicavano i suoi occhi umidi ed incolori per
uscire; fu tentata di spruzzarsi sul viso il profumo e trovarsi
così un buon
motivo per piangere.
Lo strinse saldamente tra le mani, senza tuttavia mandare in
frantumi il vetro né riuscire ad
incrinarlo; scatto in piedi e corse in giardino, incurante
del fango in
cui le ciabatte affondavano e della pioggia che le rigava il viso.
Soffocò un
gemito di frustrazione, mentre lanciava con impeto la boccetta grigia
ancora
piena contro il tetto, sperando di non vederla andare in pezzi
né avvertire mai
più quella fragranza soffocante.
{Primavera}
Ripensandoci,
Nany non avrebbe saputo dire quando avesse
smesso di attendere che qualcuno alzasse la cornetta
dall’altra parte e avesse invece
iniziato a lasciare squillare il telefono anziché
rispondere; tuttavia sullo
schermo del suo cellulare erano segnate quattro chiamate perse.
Tutte dallo stesso, prevedibile numero. Sospirò.
Il rettilineo che stava percorrendo un po’ distrattamente
terminava con un passaggio a livello: intravide i pochi vagoni di un
treno
locale sfrecciare oltre le sbarre a strisce bianche e rosse abbassate.
Dei
graffiti dalle tinte brillanti coprivano parte delle fiancata e dei
vetri
appannati, ma la velocità era tale da renderli illeggibili.
Stava
lasciando la città per dirigersi in periferia con una
lettera scritta a
computer ed una tanica riempita di benzina lungo la strada; le
sigarette nel
cruscotto assieme ad un manuale per il pronto soccorso ed un accendino
monocromatico verde muschio³.
Abbassò il finestrino di qualche centimetro, creando una
cappa per il fumo, ed approfittò della sosta di fronte al
segnale ad
intermittenza rossa per accendersi una cicca, portandola alle labbra ed
inspirando la prima boccata.
Man mano che l’asfalto si scaldava sotto i pneumatici
consumati della sua vettura, le pubblicità alla radio si
facevano più torbide
ed offuscate, sino a divenire un indefinito ronzio monotono e
snervante;
detestava pigiare ripetutamente il tasto alla ricerca di una nuova
stazione
radiofonica solo per scoprire che il suono non cambiasse di molto. Le
rammentava che si stesse avvicinando alla meta.
La strada lastricata divenne un fastidioso andirivieni di
curve e pendenze sterrate, in bilico tra una scarpata scavata nella
roccia ed
uno strapiombo di alberi e terriccio malfermo; gli ammortizzatori
percepivano
ed amplificavano ogni dosso ed ogni incavo, troppo abituati ai tragitti
urbani.
Interruppe il vociare ormai cacofonico della radio prima che la
tentazione di
spegnere la sigaretta ancora intatta nel mangiacassette la facesse
impazzire.
L’aria fresca della montagna penetrò i suoi
polmoni non
appena scese dall’auto, reggendo la tanica con una mano e un
ultimo tiro pronto
ad essere corroso dalla brace nell’altra. Il più
saporito, perché impregnato di
nicotina, e il più dannoso, per lo stesso motivo.
La casa dei suoi genitori si ergeva fiera ed imponente,
nonostante le termiti nel portico e i rubinetti arrugginiti in
giardino, di
fronte ai suoi occhi spenti e disillusi; si sentì magra, sin
troppo esile per
sostenere lo sguardo delle finestre regolari coperte dalle tende
amareggiate,
riluttanti all’idea di accoglierla all’interno
ancora una volta, forse l’ultima.
Oltrepassò i primi gradini insicuri, trovandosi di fronte
alla porta che suo padre aveva tinteggiato di rosso molti anni prima:
era
rimasta a guardarlo, con la mascherina bianca sul viso per non
respirare la
vernice protettiva, per un intero pomeriggio; a quei tempi, non aveva
bisogno
di ricercare le sue attenzioni per averle. Anziché afferrare
il pomello tondo e
consunto, si premette contro il legno sfibrato e malmesso, alla ricerca
di una
traccia del pungente odore per rievocare quel giorno nella propria
memoria.
Sarebbe entrata nel legno stesso, nei suoi ricordi, in ogni singola
pennellata
se solo avesse potuto; ora suo padre era morto senza lasciarle altro
che
lacrime non versate.
Entrando, si stupì di non percepire il vago aroma di mobili
usati e panni bagnati: sua madre faceva il bucato di rado, ma
l’ammorbidente
che usava restava nell’aria anche per giorni, dopo aver
stirato i vestiti
puliti e freschi. Anche lei però se n’era andata,
senza mai dirle che le voleva
bene, dopo la sua dichiarazione di mancata eterosessualità:
se n’era andata di
casa, lasciando tra quelle mura la capacità di amare e
lasciarsi amare, di
concedere affetto come aveva fatto con Cecilia, ora unica parente
rimastale in
vita. Sposata e con figli a cui badare.
Era sua la lettera: le scriveva che l’abitazione era
divenuta sua proprietà e poteva farne ciò che
voleva, ma il profumo con cui
aveva sigillato la busta infestava le stanze che attraversava ed i
corridoi che
percorreva.
Svitò il tappo del contenitore e coprì la
fragranza che le
avvelenava le interiora con un’insistente puzza di benzina,
gettandola con
forza sui mobili usando entrambe le braccia; la sigaretta stretta tra
le sue
labbra contratte in una smorfia di disgusto.
Non era riuscita a tornare in quella casa per sentirsi dire
dai suoi genitori che le volevano bene anche se era scappata, per
sentirsi
sostenere anche se la sua diversità la logorava dentro,
giorno per giorno, e
non era in grado di sostenerla con le proprie forze; anche se li aveva
abbandonati a loro stessi e ad una pensione da fame.
Perché era così. Le volevano bene, nonostante
tutto.
Aveva bisogno di crederlo, di sentirselo dire…
Ma ormai era troppo tardi; non restava altro che una tanica
vuota abbandonata alla porta della sua stanza, con lei dentro e un
ultimo tiro
della Chesterfield rossa pronto a diventare cenere.
Solo i timidi germogli primaverili di un pesco in fiore
restavano a guardare l’incendio divampare attorno
all’ultimo gracile bocciolo
cresciuto e mai estirpato da quelle mura isolate e silenziose.
La primavera, coi suoi acquazzoni improvvisi e i venti sempre pronti a spostare cumuli di nuvole dalle tinte prettamente indaco, aveva prepotentemente affermato il proprio dissenso, rallentando l’avanzamento dell’incendio con un temporale del tutto imprevisto.
Si chiese se fosse stato un caso che quel passante avesse visto il fumo denso e corposo salire dall’abitazione in fiamme; se non fosse stato invece interessato ad entrare in possesso della proprietà stessa.
La coperta termica drappeggiante sulle sue spalle copriva i vestiti bagnati e il viso sporco di fuliggine, mentre una bevanda calda che teneva tra le mani risvegliava le sue papille gustative ed il suo stomaco vuoto. Ma la voglia di parlare restava assopita, dopo un lungo silenzio che i vigili del fuoco giustificarono pienamente.
Si rese conto di non aver mai visto così tante persone lì attorno, ne sorrise con amarezza. Le ultime fiamme si spegnevano sotto potenti getti d’acqua e forti parole d’incoraggiamento del pompiere caposquadra, mentre una nuova auto attraversava il cortile di erba e pozzanghere per parcheggiarsi casualmente in parte a lei. Scesero alcuni giornalisti armati di obbiettivi e biro tascabili, ma solo uno di questi le si avvicinò; riconobbe immediatamente il cardigan violaceo aperto avanti che giaceva sul pavimento del suo appartamento quella mattina stessa.
«Nanètte!»
A giudicare dal suo tono alterato ed insolitamente acuto, avrebbe giurato che l’intervista gliel’avrebbe fatta qualcun altro.
«Benvenuta a casa mia, Agata.» ironizzò, mentre il tetto crollava definitivamente alle sue spalle.
Le venne incontro con falcate sempre più ampie, serrando i pugni e corrucciando maggiormente il viso ad ogni passo; era più giovane di lei, più intraprendente e spigliata, sempre pronta a tirare fuori gli artigli al momento giusto ed inginocchiarsi per ciò che le stava a cuore. Stereotipatamene diversa da lei, in tutto e per tutto.
Non si sarebbe sorpresa se fosse giunta sin lì, sul cucuzzolo più alto della montagna, solo per dirle «Tra noi è tutto finito.» ed invitandola magari a tentare nuovamente il suicidio, coi migliori auguri di riuscire nel proprio intento. D’accordo, questa era evidentemente farina del suo sacco.
Non era mai riuscita a capire cosa, di preciso, la facesse restare: era capace di scomparire per giorni lasciando solo un misero recapito telefonico, riapparire con la sola fame di sesso e nessuna giustificazione al proprio comportamento. Nemmeno l’ombra di un sentimento. Solo quando le venne incontro con audacia e un velo di amarezza sulla punta della lingua capì quanto dolore potesse averle procurato; ne era conscia, ma ancora lungi dal capirlo realmente.
Lo schiaffo che riecheggiò sulla sua guancia e nella vallata giunse improvvisa e lacerante; piegò il viso verso destra, senza opporre resistenza: sentiva di meritarlo, in qualche modo, ma il suo viso inespressivo non tradì alcuna emozione, agli occhi feriti della sua compagna improvvisamente fragile.
I suoi capelli corti e lisci, di un biondo cinereo sciupato e disordinato, ondeggiarono alla brezza fredda che soffiava alle sue spalle, mentre lo sguardo sfuggente cercavano riparo verso il pavimento fangoso; era notevolmente più bassa di lei, se ne compiacque.
«Dov’è il tuo block notes?» le chiese con un sorriso sarcastico.
«Dove cazzo è il tuo buonsenso!» si sentì rispondere in un gemito carico di risentimento.
La vide accasciarsi al suolo senza forze, ma si trattenne dalla premura di sostenerla con prontezza, immaginando che un qualunque contatto fosse l’ultimo dei suoi desideri, in quel momento. Non era mai stata brava a capirla, era solo inspiegabilmente attratta da lei, dopo tutto.
«Non rispondevi al cellulare, non riuscivo a capire dove fossi… ho pensato che ti fossi stancata e te ne fossi andata!»
Alzò un sopracciglio, «E non lo faccio sempre?»
«In questi giorni eri strana!» la vide stringere tra le dita ciuffi di erba bagnata e strapparli con forza, poi sollevare il dorso della mano e tentare di asciugare le lacrime che rigavano il suo viso spossato, «Non capivo cosa ti passasse per la testa… non sapevo cosa fare…»
«Sapevi già tutto della lettera, non è vero? Per questo non te ne ho parlato.» la curiosità di una giornalista era una prerogativa a cui un partner difficilmente avrebbe dovuto ovviare, a suo parere.
«Se questo ti creava dei problemi, avresti dovuto dirmelo anziché sparire in quel modo! Se vuoi lasciarmi… posso farmi da parte quando vuoi!» singhiozzò stralci di disperazione e arrendevolezza.
La gonna sopra al ginocchio che indossava si era piegata di lato, lasciando in mostra le sue gambe sottili e ben modellate, ormai sporche di terra bagnata; pensò che non fosse nemmeno passata da casa a cambiarsi, preda di un’immotivata angoscia.
Sollevò con un braccio il corpo freddo e tremante della ragazza e le porse la tazza con un movimento rapido ed elegante del polso, «Tieni». Si liberò del panno termico che le era stato gentilmente offerto da uno dei vigili, piegandolo e riponendolo in una delle vetture aperte; abbracciò la sua compagna sussurrandole all’orecchio «Torniamo a casa.» prima di allungare le labbra sulle sue e rubarle un bacio leggero per zittire una sua qualunque replica.
Se da una parte temeva che non sarebbe mai riuscita a contraccambiare completamente il suo affetto, si sorprese di averlo atteso a lungo, quel contatto, quando poi si sentì avvolgere le braccia dietro al collo con trasporto e approfondì l’effusione con impeto.
La tazza scivolò per terra, dando vita ad un suono attutito e rovesciando il proprio contenuto. La tisana bagnò le punte dei piedi di Agata, ma non i suoi talloni rialzati.
¹
marca di sigarette;
² mia
madre non è stata molto utile a riguardo: a quanto pare, eau de parfum ha una concentrazione
maggiore rispetto a quella de toilet…
mentre Tribute è il nome
del profumo;
³ il
colore usato per il titolo, un esempio immediato;
Grazie
per il banner a Hiko_Madara
e per aver indetto insieme a Namine22
un contest
così entusiasmante, ma anche a tutte
le partecipanti e chiunque si sia messo in gioco per questa
sfida
spregiudicata.
Any Ikisy