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Autore: Any Ikisy    31/07/2011    7 recensioni
Anche stavolta, Ghish torna nel proprio alloggio dopo un estenuante combattimento; nel dettaglio, esamina le ferite che ha riportato.
Mentre Tart è ai rifugi, per una volta lontano dal campo di battaglia, Pai rincasa e trova sul pavimento una scia di sangue che si protrae fino ad una porta chiusa: quella della stanza di suo fratello.
[ IX classificata al Una Storia Per Una Canzone Contest indetto da Parsifal ]
Genere: Guerra, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kisshu Ikisatashi/Ghish, Pai Ikisatashi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Autore: Any Ikisy
Fandom: Tokyo Mew Mew
Canzone Ispirata: Like Toys Soldier, Eminem [testo; traduzione]
Avvertimenti: Non per stomaci delicati, One-shot
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale, Slice of life
Rating: Arancione
Note: Angst, dannatamente angst *scuote la testa* esistono le P0rn Without Prot; questa è una Angst Without Prot ♥ Enjoy

 

Banner Una storia per una canzone

Ferite

Di fronte ad uno specchio liquido ed incolore, il cui unico volto non è altri che il riflesso del proprio, le menzogne e le verità si accavallano come fossero un’unica, fredda realtà.
Ne sei padrone; ne sei il fautore.
Ghish si sente nudo e colpevole, ma vestito di ogni suo gesto degno di lode e altruismo, mentre si posiziona nell’unico angolo della stanza buia che riflette la fievole luce delle lune che gravitano attorno a Giove; le loro divise di soldati sono composte dello stesso tessuto, pensa, cucite con lo stesso ago ed unite dallo stesso filo.
Ma quando ne afferra i lembi stracciati con mano ferma e solleva un brandello della maglia, solo per scorgere le ferite che cela, si chiede quanti dei suoi compagni hanno riportato i suoi stessi danni; quanti li hanno incassati, quanti ne sono rimasti uccisi.
Ha come l’impressione di non essere altro che carne da macello, spezia mancante di un campo di battaglia su cui scorre ancora sangue fresco.
I sai affilati ed acuminati ne sono ancora ricoperti, abbandonati sulla branda spoglia ed inospitale che si nasconde alle sue spalle, ma il ferro del loro manico si rovinerà se non li tratta tempestivamente; colmerà la stanza stessa in cui si trova di un odore acre ed intossicante di cui fa volentieri a meno.
L’abrasione che porta al gomito destro, una delle fotografie riportate dal campo di battaglia, sta lentamente iniziando ad infettarsi, mentre il sangue che presto coagulerà si unisce ad una gran quantità di globuli bianchi morti e cicatrizza la polvere che non ha ancora avuto il tempo di togliere, neanche in minima parte.
Si rigira l’arto fino ad averne una completa visione, ne gusta il ripudio, marchia nella memoria quella che classificherà come l’ennesimo errore di valutazione: avrebbe dovuto semplicemente volare più in alto, più velocemente, anziché gettarsi al suolo ed evitare il colpo di arma da fuoco direzionato al suo petto.
Avrebbe almeno dovuto provarci.
«Dovrei pulirlo con dell’alcol», dice sovrappensiero.
«Dovrei proprio. L’alcol brucia. Il dolore resterà impresso assieme alle immagini.»
 Non ha collezionato abbastanza ricordi di quell’ennesima esperienza combattiva, forse perché negli ultimi tempi sembra siano indistinguibili tra loro. Una continua, instancabile guerra che li corrode ad intervalli vagamente regolari.
Per mantenere il controllo ha evitato di pensarci finora, ma la verità è che sente un piede nella fossa e l’altro che gli si accosta sempre più rapidamente; non è solo la precaria situazione di guerriglia da cui non sembrano schiodarsi a fargli credere che la sua ora arriverà presto.
La lacerazione sul suo fianco sembra stia per inglobare un centimetro netto del metallo che gli ha trapassato le carni, ormai stanche di aspettare il disinfettante, ma quando porta la mano sull’elsa dell’arma si rende conto di avere un anulare in meno; «Poco male, farò a meno di sposarmi.»
Ha perso un dito, mentre il soldato che gliel’ha tagliato non è più vivo per raccontarlo.
Le droghe con cui si è lasciato imbottire poco prima della partenza, assieme ad altri militari e qualche civile arruolato per necessità, sembra continuino l’effetto anche oltre il necessario; ha tutto il tempo per estrarre la sbarra, rimediare ai danni che gli ha procurato, ripristinare l’assetto dell’armamentario, darsi una rassettata e cucinare la cena per quando torna suo fratello.
Solo, non ricorda dove siano le bende.
È sicuro che Pai le abbia sistemate nel cassetto del pronto soccorso, ed è altrettanto certo che Tart, prima di lui, abbia dovuto usufruirne per gli stessi motivi.
Detesta condividere con loro persino quel dolore; lo risparmierebbe ad entrambi, potendo farlo.
Affonda le unghie nel tessuto sintetico di cui è composta la sua divisa militare, sollevandone appena l’estremità come ha fatto pocanzi, prima di fermarsi disgustato ed abbassarlo nuovamente. Si squarcia con una lieve pressione di troppo.
«Dovrei tagliare le unghie, tra l’altro», ma si rende conto di quanto possono essergli utili se invece continua a lasciarle crescere e ne affila le estremità, portandole a divenire un’arma di difesa personale; l’ennesima. Si chiede se ne ha bisogno, se non gli serve invece un nuovo cervello non impostato ed allenato alla difficile arte della guerra, sempre pronto dello scontro armato.
Potrebbero rasentare per lui la salvezza, dita affilate come quelle: sa che affondarle per soli tre centimetri nei bulbi oculari dei suoi avversari basterebbe a causarne la morte celebrale.
E a lui è stato tolto un dito, non ricorda come, forse proprio per questo.
Soffoca una risata, «Il pollice opponibile ormai viene svalutato…»
Decide di attendere per estrarre la spranga che non ha evitato in tempo, sapendo che sanguinerà copiosamente non appena lo farà: è più pratico dedicarsi alle rimanenti ferite che si è procurato per difendere i suoi cari e chi si fa scudo coi loro corpi, nonostante siano esili e sciupati.
C’è un gomito lussato e un dito in meno.
C’è la sua caviglia slogata, la cui situazione probabilmente è peggiorata considerando che non riesce più a volare per via di qualche effetto collaterale delle droghe ed è dovuto tornare a piedi.
E mentre alza la maglia per la terza volta, senza prestare attenzione stavolta all’odore o all’aspetto di ciò che nasconde, si accorge che, dietro l’ennesima smagliatura, la pelle si è letteralmente fusa assieme al materiale plastico di cui è composto l’indumento. Probabilmente un cannone ha sparato troppo vicino alla sua schiena, magari un fuoco nemico lo ha schivato per un pelo senza che se ne accorgesse…
Non riesce ad alzare la spalla più di tanto; quanto basta per strappare via il primo dei tre strati di cui è composta la sua epidermide, lasciandolo parzialmente in carne viva. Fa quasi male.
Il suo petto è coperto di graffi e lividi violacei, ma non ricorda con precisione quando se li è procurati. Alcuni probabilmente non risalgono che a qualche giorno prima.
E poi c’è la ferita di Profondo Blu che spicca sulle altre. Ancora per poco, comunque, perché man mano sembra che il suo corpo la stia riassorbendo, mentre altre nuove e più dolorose la coprono ed uniformano.
Non vuole voltarsi a guardare la schiena, Ghish. Teme sia ridotta ben peggio.
«Sono tornato…» urla qualcuno accompagnando il cigolio della porta d’ingresso; non sa chi sia. O meglio, è più facile credere di non saperlo per evitare di preoccuparsene.
È arrivato il momento per liberarsi di quell’attrezzo arrugginito che è rimasto conficcato nel suo addome per troppo tempo, pensa: riuscirà a coprire lo scatto della serratura con quello metallico che produrrà quando lascerà cadere al suolo lo strumento.
Ci riuscirà senz’altro: ha la tranquillità giusta per farcela.
Ma non sembra poi così immediato e veloce il movimento del suo arto. Non tanto da estrarlo con un colpo secco.
Una fitta lancinante di dolore pervade le sue membra con sempre maggior impeto, mentre avverte distrattamente il suono attutito dei passi in lontananza; Tart è solito camminare scalzo, ha paura che si tratti proprio di lui. Sapeva fosse al sicuro, nei rifugi, ma possono sempre essere stati evacuati.
La ferita sanguina e brucia nonostante gli sforzi, è piegato sulle ginocchia nella penombra della propria stanza e non ha concluso ancora nulla; un rivolo di saliva oltrepassala la linea dei suoi denti miracolosamente intatti, mentre stringe con una mano la base della ferita e sforza con l’altra il metallo ormai caldo che lo perfora senza pietà.
«Ghish, sei...»
«––Non entrare!»
L’ha afferrato con entrambe le mani, ringhiando, ma una delle due è ricoperta di sangue e rende la presa scivolosa: piano, con un’estenuante lentezza e pazienza che non gli si addice, è costretto a serrare gli occhi per soffocare il dolore assieme al grido che è ad un passo dal liberare. La sua gola non sembra aspettare altro.
Estrarre ed introdurre oggetti contundenti con l’uso della violenza nel proprio corpo è da sempre una pratica a cui Ghish è avvezzo: basta tramutare la sofferenza che prova in energia per le braccia.
Molta più difficoltà riscontra nei lavori di precisione.
Non capisce proprio come lavorino i dottori.
«Ciao Pai…» lo saluta non appena percepisce la sua presenza nella stanza, con gran sollievo.
Il tonfo di un corpo che cade assomiglia a quello di un sacco di patate scaraventato al suolo, anche se si tratta del tuo.
Ghish non sa dire se è il bastone metallico o il suo petto a toccare per primo il pavimento.
La macchia di sangue su cui il suo volto s’immerge è tiepida, lo accoglie con schizzi purpurei e un odore familiare; dallo specchio che gli è di fronte, scorge la sagoma alta e slanciata di suo fratello, in controluce. Lo sente sbuffare stizzito.
«Avresti dovuto medicare le ferite, non peggiorarle.»

La luna è diventata solo una, nota Ghish non appena si riprende e scruta con l’esigua visibilità di cui dispone fuori dalle inferriate a ridosso della finestra, ammesso che si possa considerare tale: è più una fenditura nel muro da cui entra a stento l’aria.
«Sul serio,» lo riprende Pai quando si accorge che è sveglio «-non ci sarò sempre a leccarti le ferite.»
«Impara a farti gli affari tuoi.»
«Stai imbrattando di sangue tutto l’appartamento; sono affari miei, se poi sono io a dover pulire perché tu ci hai lasciato la pelle.»
Non può che concordare, anche se non lo ammetterà mai ad alta voce.
Suo fratello maggiore è quel tipo di persona, dopo tutto: ha sempre ragione, in un modo o nell’altro; in questo caso, più che evidentemente. Ha combattuto contro questa consapevolezza così a lungo che ha finito per accettarla, nonostante si diverta a metterla alla prova di tanto in tanto.
Mentre disinfetta l’abrasione sulla sua palla, arginando con un panno imbevuto di alcool il pus, gli chiede il resoconto della battaglia: il funzionamento delle armature sperimentali, le forze armate dispiegate, la quantità di nemici… aspetti tecnici che ha imparato a notare.
È abituato a quest’atmosfera, allo scenario che lo vede coinvolto con suo fratello: se non stanno litigando, parlano di guerra o s’importunano a vicenda; al momento, il dialogo è l’unica opzione rimasta.
Avverte il suo sguardo penetrante puntato insistentemente sulla schiena, la sta sezionando con attenzione; si sente come la buccia di un frutto maturo caduto più volte: cosparsa di ammaccature.
Non è la prima volta che Ghish percepisce l’autorevole presenza di Pai alle proprie spalle, specialmente se si tratta di avere le sue mani addosso, ma il modo in cui lecca la conchiglia pronunciata del suo orecchio e la vezzeggia con cura fa nascere sul suo viso un sorriso impertinente che Pai non può vedere; sta per fare un commento a sfondo sessuale, giusto per indispettirlo: deve solo scegliere che parole usare, quando... «Ahia!»
«Sta’ zitto. Devo riaprire il taglio per disinfettarlo.»
Una goccia di sangue scivola lungo il suo collo chiaro, immacolato, scendendo lungo il suo petto con estrema lentezza: descrive e risalta i punti di sutura con cui è stato blandamente medicato, avvicinandosi all’estremità inferiore del suo corpo.
È comunque una sola, va davvero piano perché Ghish ci faccia caso, con gli standard a cui è abituato.
«Sembra abbiano cosparso di veleno le armi da taglio», afferma Pai con tranquillità dopo aver sputato a terra parte della sostanza tossica.
«Da dove avranno intascato i soldi per comprarlo, se nemmeno i militari possono permettersi l’antibiotico, al momento?» chiede al fratello, senz’altro più ferrato in materia; legge sul suo viso una smorfia di sgomento, intuisce il senso di impotenza che Pai non riesce a scrollarsi di dosso da quando ha capito che lo stavano raggirando.
«Alzati, forza.»
Facile a dirsi, pensa Ghish.
Le sostanze ancora in circolo nel suo sangue sono studiate affinché la durata possa coprire giorni e giorni di combattimenti, agendo a seconda delle attività motorie a cui il corpo è sottoposto. Dev’essere rimasto svenuto qualche ora perché l’effetto è già svanito; sente il dolore spostarsi dalla pelle alla carne, la spalla iniziare a bruciare e le falangi mancanti del dito che non riavrà mai indietro.
Quando Pai gli s’inginocchia di fronte ed inizia a bendargli il fianco, si chiede quanto a lungo le gambe riusciranno a sostenerlo.
«Tanto poi la imbratto, Pai» sdrammatizza sulla sua meticolosità, osservando la cura con cui avvolge il suo addome e la velocità con cui il foro che lo trapassa smette di perdere sangue.
Non lo vede all’opera abbastanza tempo da sapere che lo fa quotidianamente, più volte nel corso del giorno.
Per casi ben più gravi del suo.
«Siamo in guerra: una benda può bastarti per una settimana», replica il maggiore iniziando a strappare un lembo di garza sufficientemente ampio da circondare il suo bacino sottile; forse si rende conto solo in quel momento che Ghish è tremendamente sottopeso, rispetto all’ultima volta che ha avuto occasione di parlarci. «Non vali più di un artigliere zoppo, conciato così.»
È il commento cinico che ci si aspetta da lui: la cocente sensazione di non essere abbastanza da avere la sua considerazione, a parole, nonostante sia sempre al tuo capezzale ed interviene per proteggerti quando ormai si rende conto di essere la tua unica salvezza rimasta; questi sono i fatti.
«Un artigliere pieno di ammaccature.» sbuffa ora.
«Un artigliere che ancora resta in piedi senza stampelle, per il momento.» replica Pai.
Si rialza per fronteggiarlo ed assicurarsi del lavoro svolto: la tentazione di lasciare a sua volta un ematoma sul suo viso, perché porti con sé un segno che lo identifichi come suo, è forte. Afferra invece il suo polso sottile, assicurandosi di percepirne il battito cardiaco, stringendolo tra le dita con cautela.
Ghish poggia il capo sulla sua spalla, chinando il viso sul suo petto. Ha sempre mostrato un grande spirito di sacrificio, sin da quando ha perso i genitori ed è entrato a far parte della sua famiglia; si chiede se combattere non sia solo l’ennesima dimostrazione di affetto nei loro confronti.
«Tornerò sempre: la consapevolezza di non importare a nessuno è più forte dell’illusione di essere ricordato, una volta morto; fa troppo male.»
E comunque una piccola differenza a qualcuno la farebbe, ma Pai non si espone al rischio di provocare un’insana risata al suo interlocutore martoriato.
«Forza-» esordisce invece, ritraendosi: «Vatti a riposare.»
A Ghish sembra strano, comunque esilarante ciò che dice, proprio perché si tratta di lui. Quando poi gli scompiglia i capelli in modo infantile, però, avverte una spiacevole sensazione di sconforto. «Pai… che stai dicendo? La guerra non è finita.»
Ha un pessimo presentimento, confermato dal ghigno appena accennato che solca le labbra di suo fratello: sembra sempre un passo avanti, perciò lo prende in contropiede con le parole usate poco prima di voltarsi e lasciare la sua stanza.
«Di che parli? La faccenda non è più di tua competenza-» Ghish è sul punto di replicare, prima di sentirlo continuare: «-Se non erro, questo è il quarto conflitto in cui ti poni in prima linea; se ti lasciassi partire una quinta volta, sarei sanzionato per non averti fermato.»
«Le leggi a tutela dei soldati sono poche ed obsolete; non c’è nessuno che mi obblighi ad osservarle!» risponde, provocatorio. Sa che è in parte compito di Pai crearne di nuove e più efficienti; proporle ai Superiori, se non altro.
Ma non di certo controllare che vengano rispettate.
«Dai tempo alle ferite per cicatrizzarsi. Non ti chiedo altro.» abbandona il tono canzonatorio per sostituirlo con uno più serio.
Sente ancora la fronte di Ghish premuta contro il suo petto, anche dopo aver varcato la soglia ed essersi poggiato sulla porta chiusa, incrociando le braccia ad occhi chiusi; era calda e sudata, ha lasciato l’ennesimo alone sui suoi vestiti puliti.
«Che soldatino impertinente…» sussurra.
Pai non ha mai scelto di improvvisarsi angelo custode; fa solo ciò che è in suo potere per ricambiare il favore al fratello che si è convinto di essere più di una semplice marionetta manipolata dalla guerra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: dubito fortemente che ci sia qualcuno pronto a leggere queste note, dopo una storia poco raccomandabile come questa: un giorno, semplicemente, ho pensato che mi sarebbe proprio piaciuto descrivere le ferite su un corpo appena uscito dal massacro. Per questo la trama è così scarna.
Proprio perché sapevo quante possibilità ci fossero di ricevere suggerimenti, ho deciso di partecipare ad un contest ed assicurarmi almeno un parere; l’ho ricevuto!
Ringrazio Parsifal per aver indetto comunque un contest così carino e le altre partecipanti per essersi confrontate con me; Hiko_Madara no, perché ha offeso il mio bellissimo banner, di cui per altro è l’artefice. Chiunque avesse voglia di commentare si senta liberissimo di farlo.

Any Ikisy

  
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