Autore:
Any Ikisy
Fandom: Tokyo Mew Mew
Canzone Ispirata: Like Toys
Soldier, Eminem
[testo;
traduzione]
Avvertimenti: Non per stomaci
delicati, One-shot
Genere: Guerra, Introspettivo,
Sentimentale, Slice of life
Rating: Arancione
Note: Angst, dannatamente angst
*scuote la testa* esistono le P0rn Without Prot; questa è
una Angst Without
Prot ♥ Enjoy
Ferite
Di
fronte ad uno specchio liquido ed incolore, il cui unico volto non
è altri che
il riflesso del proprio, le menzogne e le verità si
accavallano come fossero
un’unica, fredda realtà.
Ne
sei padrone; ne sei il fautore.
Ghish
si sente nudo e colpevole, ma vestito di ogni suo gesto degno di lode e
altruismo, mentre si posiziona nell’unico angolo della stanza
buia che riflette
la fievole luce delle lune che gravitano attorno a Giove; le loro
divise di
soldati sono composte dello stesso tessuto, pensa, cucite con lo stesso
ago ed
unite dallo stesso filo.
Ma
quando ne afferra i lembi stracciati con mano ferma e solleva un
brandello
della maglia, solo per scorgere le ferite che cela, si chiede quanti
dei suoi
compagni hanno riportato i suoi stessi danni; quanti li hanno
incassati, quanti
ne sono rimasti uccisi.
Ha
come l’impressione di non essere altro che carne da macello,
spezia mancante di
un campo di battaglia su cui scorre ancora sangue fresco.
I sai
affilati ed acuminati ne sono ancora ricoperti, abbandonati sulla
branda
spoglia ed inospitale che si nasconde alle sue spalle, ma il ferro del
loro
manico si rovinerà se non li tratta tempestivamente;
colmerà la stanza stessa
in cui si trova di un odore acre ed intossicante di cui fa volentieri a
meno.
L’abrasione
che porta al gomito destro, una delle fotografie riportate dal campo di
battaglia, sta lentamente iniziando ad infettarsi, mentre il sangue che
presto
coagulerà si unisce ad una gran quantità di
globuli bianchi morti e cicatrizza
la polvere che non ha ancora avuto il tempo di togliere, neanche in
minima
parte.
Si
rigira l’arto fino ad averne una completa visione, ne gusta
il ripudio, marchia
nella memoria quella che classificherà come
l’ennesimo errore di valutazione:
avrebbe dovuto semplicemente volare più in alto,
più velocemente, anziché
gettarsi al suolo ed evitare il colpo di arma da fuoco direzionato al
suo
petto.
Avrebbe
almeno dovuto provarci.
«Dovrei
pulirlo con dell’alcol», dice sovrappensiero.
«Dovrei
proprio. L’alcol brucia. Il dolore resterà
impresso assieme alle immagini.»
Non ha collezionato
abbastanza ricordi di
quell’ennesima esperienza combattiva, forse perché
negli ultimi tempi sembra
siano indistinguibili tra loro. Una continua, instancabile guerra che
li
corrode ad intervalli vagamente regolari.
Per
mantenere il controllo ha evitato di pensarci finora, ma la
verità è che sente
un piede nella fossa e l’altro che gli si accosta sempre
più rapidamente; non è
solo la precaria situazione di guerriglia da cui non sembrano
schiodarsi a
fargli credere che la sua ora arriverà presto.
La
lacerazione sul suo fianco sembra stia per inglobare un centimetro
netto del
metallo che gli ha trapassato le carni, ormai stanche di aspettare il
disinfettante, ma quando porta la mano sull’elsa
dell’arma si rende conto di
avere un anulare in meno; «Poco male, farò a meno
di sposarmi.»
Ha
perso un dito, mentre il soldato che gliel’ha tagliato non
è più vivo per
raccontarlo.
Le
droghe con cui si è lasciato imbottire poco prima della
partenza, assieme ad
altri militari e qualche civile arruolato per necessità,
sembra continuino l’effetto
anche oltre il necessario; ha tutto il tempo per estrarre la sbarra,
rimediare
ai danni che gli ha procurato, ripristinare l’assetto
dell’armamentario, darsi
una rassettata e cucinare la cena per quando torna suo fratello.
Solo,
non ricorda dove siano le bende.
È
sicuro che Pai le abbia sistemate nel cassetto del pronto soccorso, ed
è
altrettanto certo che Tart, prima di lui, abbia dovuto usufruirne per
gli
stessi motivi.
Detesta
condividere con loro persino quel dolore; lo risparmierebbe ad
entrambi,
potendo farlo.
Affonda
le unghie nel tessuto sintetico di cui è composta la sua
divisa militare,
sollevandone appena l’estremità come ha fatto
pocanzi, prima di fermarsi
disgustato ed abbassarlo nuovamente. Si squarcia con una lieve
pressione di
troppo.
«Dovrei
tagliare le unghie, tra l’altro», ma si rende conto
di quanto possono essergli
utili se invece continua a lasciarle crescere e ne affila le
estremità,
portandole a divenire un’arma di difesa personale;
l’ennesima. Si chiede se ne
ha bisogno, se non gli serve invece un nuovo cervello non impostato ed
allenato
alla difficile arte della guerra, sempre pronto dello scontro armato.
Potrebbero
rasentare per lui la salvezza, dita affilate come quelle: sa che
affondarle per
soli tre centimetri nei bulbi oculari dei suoi avversari basterebbe a
causarne
la morte celebrale.
E a
lui è stato tolto un dito, non ricorda come, forse proprio
per questo.
Soffoca
una risata, «Il pollice opponibile ormai viene
svalutato…»
Decide
di attendere per estrarre la spranga che non ha evitato in tempo,
sapendo che
sanguinerà copiosamente non appena lo farà:
è più pratico dedicarsi alle
rimanenti ferite che si è procurato per difendere i suoi
cari e chi si fa scudo
coi loro corpi, nonostante siano esili e sciupati.
C’è
un gomito lussato e un dito in meno.
C’è
la sua caviglia slogata, la cui situazione probabilmente è
peggiorata
considerando che non riesce più a volare per via di qualche
effetto collaterale
delle droghe ed è dovuto tornare a piedi.
E
mentre alza la maglia per la terza volta, senza prestare attenzione
stavolta
all’odore o all’aspetto di ciò che
nasconde, si accorge che, dietro l’ennesima
smagliatura, la pelle si è letteralmente fusa
assieme al materiale plastico di cui è composto
l’indumento. Probabilmente un
cannone ha sparato troppo vicino alla sua schiena, magari un fuoco
nemico lo ha
schivato per un pelo senza che se ne accorgesse…
Non
riesce ad alzare la spalla più di tanto; quanto basta per
strappare via il
primo dei tre strati di cui è composta la sua epidermide,
lasciandolo parzialmente
in carne viva. Fa quasi male.
Il
suo petto è coperto di graffi e lividi violacei, ma non
ricorda con precisione
quando se li è procurati. Alcuni probabilmente non risalgono
che a qualche
giorno prima.
E poi
c’è la ferita di Profondo Blu che spicca sulle
altre. Ancora per poco,
comunque, perché man mano sembra che il suo corpo la stia
riassorbendo, mentre
altre nuove e più dolorose la coprono ed uniformano.
Non
vuole voltarsi a guardare la schiena, Ghish. Teme sia ridotta ben
peggio.
«Sono
tornato…» urla qualcuno accompagnando il cigolio
della porta d’ingresso; non sa
chi sia. O meglio, è più facile credere di non
saperlo per evitare di
preoccuparsene.
È
arrivato il momento per liberarsi di quell’attrezzo
arrugginito che è rimasto
conficcato nel suo addome per troppo tempo, pensa: riuscirà
a coprire lo scatto
della serratura con quello metallico che produrrà quando
lascerà cadere al
suolo lo strumento.
Ci riuscirà
senz’altro: ha la tranquillità giusta per farcela.
Ma
non sembra poi così immediato e veloce il movimento del suo
arto. Non tanto da
estrarlo con un colpo secco.
Una
fitta lancinante di dolore pervade le sue membra con sempre maggior
impeto,
mentre avverte distrattamente il suono attutito dei passi in
lontananza; Tart è
solito camminare scalzo, ha paura che si tratti proprio di lui. Sapeva
fosse al
sicuro, nei rifugi, ma possono sempre essere stati evacuati.
La
ferita sanguina e brucia nonostante gli sforzi, è piegato
sulle ginocchia nella
penombra della propria stanza e non ha concluso ancora nulla; un rivolo
di
saliva oltrepassala la linea dei suoi denti miracolosamente intatti,
mentre
stringe con una mano la base della ferita e sforza con
l’altra il metallo ormai
caldo che lo perfora senza pietà.
«Ghish,
sei...»
«––Non
entrare!»
L’ha
afferrato con entrambe le mani, ringhiando, ma una delle due
è ricoperta di
sangue e rende la presa scivolosa: piano, con un’estenuante
lentezza e pazienza
che non gli si addice, è costretto a serrare gli occhi per
soffocare il dolore
assieme al grido che è ad un passo dal liberare. La sua gola
non sembra
aspettare altro.
Estrarre
ed introdurre oggetti contundenti con l’uso della violenza
nel proprio corpo è
da sempre una pratica a cui Ghish è avvezzo: basta tramutare
la sofferenza che
prova in energia per le braccia.
Molta
più difficoltà riscontra nei lavori di precisione.
Non
capisce proprio come lavorino i dottori.
«Ciao
Pai…» lo saluta non appena percepisce la sua
presenza nella stanza, con gran
sollievo.
Il
tonfo di un corpo che cade assomiglia a quello di un sacco di patate
scaraventato al suolo, anche se si tratta del tuo.
Ghish
non sa dire se è il bastone metallico o il suo petto a
toccare per primo il
pavimento.
La
macchia di sangue su cui il suo volto s’immerge è
tiepida, lo accoglie con
schizzi purpurei e un odore familiare; dallo specchio che gli
è di fronte,
scorge la sagoma alta e slanciata di suo fratello, in controluce. Lo
sente
sbuffare stizzito.
«Avresti
dovuto medicare le ferite, non peggiorarle.»
La
luna è diventata solo una, nota Ghish non appena si riprende
e scruta con
l’esigua visibilità di cui dispone fuori dalle
inferriate a ridosso della
finestra, ammesso che si possa considerare tale: è
più una fenditura nel muro
da cui entra a stento l’aria.
«Sul
serio,» lo riprende Pai quando si accorge che è
sveglio «-non ci sarò sempre a
leccarti le ferite.»
«Impara
a farti gli affari tuoi.»
«Stai
imbrattando di sangue tutto l’appartamento; sono
affari miei, se poi sono io a dover pulire perché tu ci hai
lasciato la pelle.»
Non
può che concordare, anche se non lo ammetterà mai
ad alta voce.
Suo
fratello maggiore è quel tipo di persona, dopo tutto: ha
sempre ragione, in un
modo o nell’altro; in questo caso, più che
evidentemente. Ha combattuto contro
questa consapevolezza così a lungo che ha finito per
accettarla, nonostante si
diverta a metterla alla prova di tanto in tanto.
Mentre
disinfetta l’abrasione sulla sua palla, arginando con un
panno imbevuto di alcool
il pus, gli chiede il resoconto della battaglia: il funzionamento delle
armature sperimentali, le forze armate dispiegate, la
quantità di nemici…
aspetti tecnici che ha imparato a notare.
È
abituato a quest’atmosfera, allo scenario che lo vede
coinvolto con suo
fratello: se non stanno litigando, parlano di guerra o
s’importunano a vicenda;
al momento, il dialogo è l’unica opzione rimasta.
Avverte
il suo sguardo penetrante puntato insistentemente sulla schiena, la sta
sezionando con attenzione; si sente come la buccia di un frutto maturo
caduto
più volte: cosparsa di ammaccature.
Non è
la prima volta che Ghish percepisce l’autorevole presenza di
Pai alle proprie
spalle, specialmente se si tratta di avere le sue mani addosso, ma il
modo in
cui lecca la conchiglia pronunciata del suo orecchio e la vezzeggia con
cura fa
nascere sul suo viso un sorriso impertinente che Pai non può
vedere; sta per
fare un commento a sfondo sessuale, giusto per indispettirlo: deve solo
scegliere che parole usare, quando... «Ahia!»
«Sta’
zitto. Devo riaprire il taglio per disinfettarlo.»
Una
goccia di sangue scivola lungo il suo collo chiaro, immacolato,
scendendo lungo
il suo petto con estrema lentezza: descrive e risalta i punti di sutura
con cui
è stato blandamente medicato, avvicinandosi
all’estremità inferiore del suo
corpo.
È
comunque una sola, va davvero piano perché Ghish ci faccia
caso, con gli
standard a cui è abituato.
«Sembra
abbiano cosparso di veleno le armi da taglio», afferma Pai
con tranquillità
dopo aver sputato a terra parte della sostanza tossica.
«Da
dove avranno intascato i soldi per comprarlo, se nemmeno i militari
possono
permettersi l’antibiotico, al momento?» chiede al
fratello, senz’altro più
ferrato in materia; legge sul suo viso una smorfia di sgomento,
intuisce il
senso di impotenza che Pai non riesce a scrollarsi di dosso da quando
ha capito
che lo stavano raggirando.
«Alzati,
forza.»
Facile
a dirsi, pensa Ghish.
Le sostanze
ancora in circolo nel suo sangue sono studiate affinché la
durata possa coprire
giorni e giorni di combattimenti, agendo a seconda delle
attività motorie a cui
il corpo è sottoposto. Dev’essere rimasto svenuto
qualche ora perché l’effetto è
già svanito; sente il dolore spostarsi dalla pelle alla
carne, la spalla iniziare
a bruciare e le falangi mancanti del dito che non riavrà mai
indietro.
Quando
Pai gli s’inginocchia di fronte ed inizia a bendargli il
fianco, si chiede
quanto a lungo le gambe riusciranno a sostenerlo.
«Tanto
poi la imbratto, Pai» sdrammatizza sulla sua
meticolosità, osservando la cura
con cui avvolge il suo addome e la velocità con cui il foro
che lo trapassa smette
di perdere sangue.
Non
lo vede all’opera abbastanza tempo da sapere che lo fa
quotidianamente, più
volte nel corso del giorno.
Per
casi ben più gravi del suo.
«Siamo
in guerra: una benda può bastarti per una
settimana», replica il maggiore
iniziando a strappare un lembo di garza sufficientemente ampio da
circondare il
suo bacino sottile; forse si rende conto solo in quel momento che Ghish
è tremendamente
sottopeso, rispetto all’ultima volta che ha avuto occasione
di parlarci. «Non
vali più di un artigliere zoppo, conciato
così.»
È il
commento cinico che ci si aspetta da lui: la cocente sensazione di non
essere
abbastanza da avere la sua considerazione, a parole, nonostante sia
sempre al
tuo capezzale ed interviene per proteggerti quando ormai si rende conto
di
essere la tua unica salvezza rimasta; questi sono i fatti.
«Un artigliere
pieno di ammaccature.» sbuffa ora.
«Un artigliere
che ancora resta in piedi senza stampelle, per il momento.»
replica Pai.
Si
rialza per fronteggiarlo ed assicurarsi del lavoro svolto: la
tentazione di lasciare
a sua volta un ematoma sul suo viso, perché porti con
sé un segno che lo
identifichi come suo, è
forte. Afferra
invece il suo polso sottile, assicurandosi di percepirne il battito
cardiaco,
stringendolo tra le dita con cautela.
Ghish
poggia il capo sulla sua spalla, chinando il viso sul suo petto. Ha
sempre
mostrato un grande spirito di sacrificio, sin da quando ha perso i
genitori ed
è entrato a far parte della sua famiglia; si chiede se
combattere non sia solo
l’ennesima dimostrazione di affetto nei loro confronti.
«Tornerò
sempre: la consapevolezza di non importare a nessuno è
più forte dell’illusione
di essere ricordato, una volta morto; fa troppo male.»
E comunque
una piccola differenza a qualcuno la farebbe, ma Pai non si espone al
rischio
di provocare un’insana risata al suo interlocutore martoriato.
«Forza-»
esordisce invece, ritraendosi: «Vatti a riposare.»
A
Ghish sembra strano, comunque esilarante
ciò che dice, proprio perché si tratta di lui.
Quando poi gli scompiglia i
capelli in modo infantile, però, avverte una spiacevole
sensazione di
sconforto. «Pai… che stai dicendo? La guerra non
è finita.»
Ha un
pessimo presentimento, confermato dal ghigno appena accennato che solca
le
labbra di suo fratello: sembra sempre un passo avanti,
perciò lo prende in
contropiede con le parole usate poco prima di voltarsi e lasciare la
sua
stanza.
«Di
che parli? La faccenda non è più di tua
competenza-» Ghish è sul punto di
replicare, prima di sentirlo continuare: «-Se non erro,
questo è il quarto
conflitto in cui ti poni in prima linea; se ti lasciassi partire una
quinta
volta, sarei sanzionato per non averti fermato.»
«Le
leggi a tutela dei soldati sono poche ed obsolete; non
c’è nessuno che mi
obblighi ad osservarle!» risponde, provocatorio. Sa che
è in parte compito di
Pai crearne di nuove e più efficienti; proporle ai
Superiori, se non altro.
Ma
non di certo controllare che vengano rispettate.
«Dai
tempo alle ferite per cicatrizzarsi. Non ti chiedo altro.»
abbandona il tono canzonatorio
per sostituirlo con uno più serio.
Sente
ancora la fronte di Ghish premuta contro il suo petto, anche dopo aver
varcato
la soglia ed essersi poggiato sulla porta chiusa, incrociando le
braccia ad occhi
chiusi; era calda e sudata, ha lasciato l’ennesimo alone sui
suoi vestiti
puliti.
«Che
soldatino impertinente…» sussurra.
Pai
non ha mai scelto di improvvisarsi angelo custode; fa solo
ciò che è in suo
potere per ricambiare il favore al fratello che si è
convinto di essere più di
una semplice marionetta manipolata dalla guerra.
Note:
dubito fortemente che ci sia
qualcuno pronto a leggere queste note, dopo una storia poco
raccomandabile come
questa: un giorno, semplicemente, ho pensato che mi sarebbe proprio
piaciuto
descrivere le ferite su un corpo appena uscito dal massacro. Per questo
la
trama è così scarna.
Proprio
perché sapevo quante possibilità ci fossero di
ricevere suggerimenti, ho deciso
di partecipare ad un contest ed assicurarmi almeno un parere;
l’ho ricevuto!
Ringrazio
Parsifal
per aver indetto comunque un contest così carino e le
altre
partecipanti per essersi confrontate con me; Hiko_Madara
no, perché ha offeso
il mio bellissimo banner, di cui per altro è
l’artefice. Chiunque avesse voglia
di commentare si senta liberissimo di farlo.
Any Ikisy