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Autore: Shichan    02/08/2011    2 recensioni
In quel momento, Oz abbassa lo sguardo e avvicina la mano al volto, cercando cosa non lo sa nemmeno lui.
Una strana sensazione, come qualcosa che sfuggiva fra le mani.
Senza pensarci, pronuncia il nome di Elliot e si guarda alle spalle quasi si fosse sentito chiamare.
Chissà perché.
Chissà perché…

[Spoiler capitoli 59/60; ElliotOz implicito]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Elliot Nightray, Oz Vessalius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mi dispiace, ho solo la sensazione
che non ci vedremo più.
Il destino ride di noi.


In quel momento, Oz abbassa lo sguardo e avvicina la mano al volto, cercando cosa non lo sa nemmeno lui.
Una strana sensazione, come qualcosa che sfuggiva fra le mani.
Senza pensarci, pronuncia il nome di Elliot e si guarda alle spalle quasi si fosse sentito chiamare.
Chissà perché.
Chissà perché…


Oz non si era mai spostato dalla finestra.
Guardava fuori, senza cercare niente; guardava fuori, si fissava su qualcosa, ma non vi prestava attenzione particolare. Qualcuno ad un certo punto era entrato – era quasi certo fosse stata Sharon – a dirgli qualcosa, ed era più o meno sicuro di aver ascoltato, osservato, risposto.
Ma le parole, non le ricordava.
Forse gli aveva chiesto come stava e forse – probabile – doveva averle assicurato che era tutto a posto. Nella sua testa l’eco di un ‘ho solo bisogno di stare solo’ o di qualcosa che somigliava più a ‘devo solo riposare un poco’ riecheggiava piano, un po’ incerto. Oz aveva persino il dubbio se l’avesse davvero pronunciata una frase simile, o solo pensata, o magari sognata.
Proprio non se lo ricordava, anche se ci pensava.
Anche se si sforzava.
E più di tanto non riusciva a concentrarsi: era in quello stato catatonico che aveva già avuto, e cercava – lentamente e un po’ a fatica – di tirarsene fuori come sapeva. Era strano, quando lo facevi una seconda volta. Era come affogare di nuovo: sapevi che se battevi i piedi, non dimenandoti ma ritmicamente (uno-due, uno-due) rimanevi a galla. Ma alla fine ti agitavi, non ci potevii fare nulla, e affondavi un po’.
E a quel punto a galla non ci tornavi mai del tutto, mai davvero.
Oz ci aveva impiegato anni la prima volta: ci erano voluti tempo, falsi sorrisi quando si voleva piangere, tanta forza per dire ‘va bene così’. Poi ci erano volute le persone. Gilbert, Ada, suo zio. Ed Elliot.
Soprattutto Elliot, con quel modo di fare ben lontano dal tatto.
Ma ora, stavolta Elliot era il motivo per cui affondava di nuovo.
Un po’ più giù.
Ancora un po’.

Quando aveva aperto gli occhi, aveva preso coscienza del vetro freddo contro la tempia, i capelli appiccicati tra essa e la finestra; a coprirlo, sistemata alla meno peggio, una coperta.
Doveva essere stata Alice, magari entrata mentre dormiva. O forse Sharon era tornata per controllare come stesse. Di certo, Oz lo sapeva, non era stato Gilbert.
Da quando erano rientrati dall’abitazione di Isla Yura, non si erano mai incrociati: silenziosamente, varcato l’ingresso si erano divisi.
Senza dirsi nulla, senza uno sguardo, erano andati ognuno nel proprio alloggio; avevano chiuso la porta. Si erano chiusi dentro.
O forse avevano chiuso gli altri fuori.
Oz non era andato a cercare l’altro, e Gilbert lo stesso. Il biondo aveva dormito poco, assopendosi più volte: alcune per qualche istante, altre per qualche ora, specialmente durante quelle notturne.
Gilbert non aveva chiuso gli occhi mai; il corpo di Elliot non voleva ricordarlo.
Non con tutto quel sangue.
Non morto.
Non così.
Ed Oz non voleva andare da lui: Gilbert aveva perso un fratello, e lui – Oz – non aveva il diritto di cercare nel moro quel qualcosa di cui aveva bisogno per smettere di stare immobile ad aspettare chissà che per tornare alla normalità. Non poteva andare lì, e mostrargli che non andava affatto bene.
A Gilbert serviva forza, non debolezza.
Della disperazione – quella silenziosa, quella tacita come un segreto che si sa senza pronunciarlo e che se ne sta lì, e ti consuma come fosse umidità che penetra nei muri fino a rendere marce le travi – non se ne faceva niente.
E il moro, che camminava avanti e indietro in un’altra stanza, sentiva gli sguardi preoccupati di Sharon su di sé, ma per nessun motivo sarebbe andato da Oz.
Il suo padrone non aveva pianto, ma ancora una volta aveva sorriso e detto che era tutto a posto – l’aveva sentita, Sharon, mentre lo diceva a Break.
Gilbert aveva perso un fratello; e in cuor suo, non se lo sarebbe perdonato mai.
Cos’avesse perso Oz, lo sospettava. E per questo, forse, avrebbe potuto capire.
Ma pronunciarlo, e vedere l’altro andare in pezzi, non avrebbe riportato indietro Elliot.
I morti non tornano.
Nemmeno se preghi l’Abisso.
Nemmeno se preghi Dio.


Suo zio Oscar stava di nuovo intrattenendo gli ospiti con qualche battuta divertente, che Oz aveva carpito vagamente insieme a qualche risata, mentre si allontanava verso l’edificio.
Reo ed Elliot erano spariti chissà dove, e quando aveva chiesto ad Ada, lei aveva detto di averli affidati alla servitù: sembrava che Elliot non si fosse sentito molto bene e avesse chiesto di riposare un po’ in un posto un minimo più silenzioso.
Si era quindi spostato verso la stanza in cui normalmente suo zio accoglieva gli ospiti e vi aveva trovato i due: o meglio, Reo aveva trovato Oz sbattendogli la porta in faccia nell’aprirla.
La morale della favola era stata che a doversi sedere – alla fine – era stato Oz oltre ad Elliot, che invece sembrava essersi ben ripreso a giudicare dal sarcasmo tirato fuori.
«Ma dimmi te se si può essere così stupidi.» aveva osservato il castano, l’aria seccata e le braccia incrociate al petto.
«Che ne sapevo che Reo avrebbe aperto la porta all’improvviso?» si era difeso Oz mentre il suddetto servitore bagnava un fazzoletto con dell’acqua, per poi porgerglielo consigliandogli di tenerlo sulla parte colpita, in modo che non si gonfiasse. Si era anche scusato, con un sorriso leggero dei suoi – quelli che sembravano dire più delle parole, ma che non si riusciva mai a definire.
«Sai, nei pressi di una porta può succedere che qualcuno la apra.» aveva osservato Elliot a metà tra saccenza e sarcasmo, lanciandogli uno sguardo eloquente e un sorrisetto sfacciato.
«Oh, sta zitto Elliot!» aveva replicato con un’occhiata sbieca il biondo, mentre si posava il fazzoletto bagnato sulla fronte.
Il silenzio non era durato che pochi istanti.
«Mai più preoccuparmi per te e venirti a cercare.» aveva borbottato Oz con un mezzo broncio.
«Nessuno ti ha chiesto di farlo, tch
«Ehi, fuori hai appena detto che siamo amici!» aveva obiettato indignato l’altro, agitandosi.
«Non me lo ricordo.» era stata l’impietosa – e falsa – replica di Elliot. E come sempre avevano finito col bisticciare, e prendersi più o meno a male parole.
Ma non era vero, che Oz non si sarebbe più preoccupato per lui, e non era vero nemmeno che Elliot non ricordasse quanto aveva detto.
E, in quel battibecco che era come sempre degenerato, avevano finto come al solito che quello fosse il loro unico modo di comunicare; poi, quando a forza di rispondersi si erano ritrovati quasi fronte a fronte – perché nessuno accettava di perdere una sfida verbale – lo avevano capito entrambi, e anche Reo, che quel rossore non era colpa dell’accalorarsi per la discussione concitata.
Lo sapevano, lo sapevano bene, ma avevano solo fatto scemare quella polemica inutile come ogni volta, finché non era stato tempo di andare a raggiungere nuovamente gli altri invitati.
Nessuno dei due aveva pensato a dire nulla, a cercare di capire come o perché.
Era solo un accenno di qualcosa, era un sospetto, quasi un soffio per insinuare il dubbio.
Ma c’era tempo, in fondo.
C’era tempo.


Non c’era stato; né lui, né il tempo.
Aveva solo avuto la sensazione di qualcosa che scivolava via – ora lo sapeva, che era una vita – e aveva pronunciato un nome quasi casualmente. Ma non era stata una casualità, no, era solo che quelle cose succedevano sempre, specie nei libri: il protagonista se lo sentiva dentro, quando la persona cara, o il compagno di sempre, o chissà chi altro moriva.
Se lo sentiva dentro, e lo chiamava piano, e l’autore lasciava capire la triste verità al suo lettore: lo faceva con una parola che era solo un nome in fondo, ma spiegava l’accaduto meglio di una descrizione, meglio che a perdersi a cercare di spiegare se aveva fatto male o se ne avrebbe fatto poi.
Scrivevano solo un nome ed era fatta, tutti lo sapevano, tutti lo capivano.
Ma la realtà non cambiava: uno moriva, e tu non eri lì ad impedirlo.
E Oz vedeva il giorno farsi scuro, la notte passare, poi il sole che spuntava di nuovo; e pian piano che i giorni – o le ore – passavano, si sentiva frustrato, e arrabbiato, e triste.
Perché sembrava come se non fosse successo nulla, e lo sapeva razionalmente che era normale che fosse così, ma si sentiva andare in bestia come non era successo mai; un sentimento tanto simile a quella voglia di distruggere che ogni tanto si impadroniva di lui, e gli offuscava vista e sensi, e li acuiva al tempo stesso.
Sacrificarsi per gli altri… aveva osato rimproverarlo per questo! Elliot lo aveva accusato, insultato, e poi… finiva così.
Finiva davvero così.
A piangere come bambini, e tremare di rabbia.
A stringere il lembo di una tenda, e a sussurrare il nome di qualcuno che non risponde.

 

Da un po’ volevo scrivere su questo episodio di PH, che ha definitivamente interrotto il mio equilibrio mentale su questa serie. E una mini-Taiga che ti pseudo minaccia (?) lo rende possibile.
E’ stata la devastazione: adoro Oz e Jack, ma Elliot non gli era secondo di certo. E insomma, siamo giustamente stati bombardati da amv che contribuiscono alla suddetta devastazione, e alla fine sono caduta nel circolo vizioso anche io.
Non ho voluto farla troppo lunga: sia perché è un missing moment, sia perché boh, avrebbe stonato penso t_t

La frase in apertura è della opening di “Mawaru PenguinDrum”.

   
 
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