Mi
dispiace, ho solo la sensazione
che non ci vedremo più.
Il destino ride di noi.
In quel momento, Oz abbassa lo sguardo e avvicina la mano al volto, cercando
cosa non lo sa nemmeno lui.
Una strana sensazione, come qualcosa che sfuggiva fra le mani.
Senza pensarci, pronuncia il nome di Elliot e si guarda alle spalle quasi si
fosse sentito chiamare.
Chissà perché.
Chissà perché…
Oz non si era mai spostato dalla finestra.
Guardava fuori, senza cercare niente; guardava fuori, si fissava su qualcosa,
ma non vi prestava attenzione particolare. Qualcuno ad un certo punto era
entrato – era quasi certo fosse stata Sharon – a dirgli qualcosa, ed era più o
meno sicuro di aver ascoltato, osservato, risposto.
Ma le parole, non le ricordava.
Forse gli aveva chiesto come stava e forse – probabile – doveva averle
assicurato che era tutto a posto. Nella sua testa l’eco di un ‘ho solo bisogno
di stare solo’ o di qualcosa che somigliava più a ‘devo solo riposare un poco’
riecheggiava piano, un po’ incerto. Oz aveva persino il dubbio se l’avesse
davvero pronunciata una frase simile, o solo pensata, o magari sognata.
Proprio non se lo ricordava, anche se ci pensava.
Anche se si sforzava.
E più di tanto non riusciva a concentrarsi: era in quello stato catatonico che
aveva già avuto, e cercava – lentamente e un po’ a fatica – di tirarsene fuori
come sapeva. Era strano, quando lo facevi una seconda volta. Era come affogare
di nuovo: sapevi che se battevi i piedi, non dimenandoti ma ritmicamente (uno-due, uno-due) rimanevi a
galla. Ma alla fine ti agitavi, non ci potevii fare
nulla, e affondavi un po’.
E a quel punto a galla non ci tornavi mai del tutto, mai davvero.
Oz ci aveva impiegato anni la prima volta: ci erano voluti tempo, falsi sorrisi
quando si voleva piangere, tanta forza per dire ‘va bene così’. Poi ci erano
volute le persone. Gilbert, Ada, suo zio. Ed Elliot.
Soprattutto Elliot, con quel modo di fare ben lontano dal tatto.
Ma ora, stavolta Elliot era il motivo per cui affondava di nuovo.
Un po’ più giù.
Ancora un po’.
Quando aveva aperto gli occhi, aveva preso coscienza
del vetro freddo contro la tempia, i capelli appiccicati tra essa e la
finestra; a coprirlo, sistemata alla meno peggio, una coperta.
Doveva essere stata Alice, magari entrata mentre dormiva. O forse Sharon era
tornata per controllare come stesse. Di certo, Oz lo sapeva, non era stato
Gilbert.
Da quando erano rientrati dall’abitazione di Isla Yura, non si erano mai
incrociati: silenziosamente, varcato l’ingresso si erano divisi.
Senza dirsi nulla, senza uno sguardo, erano andati ognuno nel proprio alloggio;
avevano chiuso la porta. Si erano chiusi dentro.
O forse avevano chiuso gli altri fuori.
Oz non era andato a cercare l’altro, e Gilbert lo stesso. Il biondo aveva
dormito poco, assopendosi più volte: alcune per qualche istante, altre per
qualche ora, specialmente durante quelle notturne.
Gilbert non aveva chiuso gli occhi mai; il corpo di Elliot non voleva
ricordarlo.
Non con tutto quel sangue.
Non morto.
Non così.
Ed Oz non voleva andare da lui: Gilbert aveva perso un fratello, e lui – Oz –
non aveva il diritto di cercare nel moro quel qualcosa di cui aveva bisogno per
smettere di stare immobile ad aspettare chissà che per tornare alla normalità.
Non poteva andare lì, e mostrargli che non andava affatto bene.
A Gilbert serviva forza, non debolezza.
Della disperazione – quella silenziosa, quella tacita come un segreto che si sa
senza pronunciarlo e che se ne sta lì, e ti consuma come fosse umidità che
penetra nei muri fino a rendere marce le travi – non se ne faceva niente.
E il moro, che camminava avanti e indietro in un’altra stanza, sentiva gli
sguardi preoccupati di Sharon su di sé, ma per nessun motivo sarebbe andato da
Oz.
Il suo padrone non aveva pianto, ma ancora una volta aveva sorriso e detto che
era tutto a posto – l’aveva sentita, Sharon, mentre lo diceva a Break.
Gilbert aveva perso un fratello; e in cuor suo, non se lo sarebbe perdonato
mai.
Cos’avesse perso Oz, lo sospettava. E per questo, forse, avrebbe potuto capire.
Ma pronunciarlo, e vedere l’altro andare in pezzi, non avrebbe riportato
indietro Elliot.
I morti non tornano.
Nemmeno se preghi l’Abisso.
Nemmeno se preghi Dio.
Suo zio Oscar stava di nuovo intrattenendo gli ospiti con qualche battuta
divertente, che Oz aveva carpito vagamente insieme a qualche risata, mentre si
allontanava verso l’edificio.
Reo ed Elliot erano spariti chissà dove, e quando aveva chiesto ad Ada, lei
aveva detto di averli affidati alla servitù: sembrava che Elliot non si fosse
sentito molto bene e avesse chiesto di riposare un po’ in un posto un minimo
più silenzioso.
Si era quindi spostato verso la stanza in cui normalmente suo zio accoglieva
gli ospiti e vi aveva trovato i due: o meglio, Reo aveva trovato Oz
sbattendogli la porta in faccia nell’aprirla.
La morale della favola era stata che a doversi sedere – alla fine – era stato
Oz oltre ad Elliot, che invece sembrava essersi ben ripreso a giudicare dal
sarcasmo tirato fuori.
«Ma dimmi te se si può essere così stupidi.» aveva osservato il castano, l’aria
seccata e le braccia incrociate al petto.
«Che ne sapevo che Reo avrebbe aperto la porta all’improvviso?» si era difeso
Oz mentre il suddetto servitore bagnava un fazzoletto con dell’acqua, per poi
porgerglielo consigliandogli di tenerlo sulla parte colpita, in modo che non si
gonfiasse. Si era anche scusato, con un sorriso leggero dei suoi – quelli che
sembravano dire più delle parole, ma che non si riusciva mai a definire.
«Sai, nei pressi di una porta può succedere che qualcuno la apra.» aveva
osservato Elliot a metà tra saccenza e sarcasmo, lanciandogli uno sguardo
eloquente e un sorrisetto sfacciato.
«Oh, sta zitto Elliot!» aveva replicato con un’occhiata sbieca il biondo,
mentre si posava il fazzoletto bagnato sulla fronte.
Il silenzio non era durato che pochi istanti.
«Mai più preoccuparmi per te e venirti a cercare.» aveva borbottato Oz con un
mezzo broncio.
«Nessuno ti ha chiesto di farlo, tch.»
«Ehi, fuori hai appena detto che siamo amici!» aveva obiettato indignato l’altro,
agitandosi.
«Non me lo ricordo.» era stata l’impietosa – e falsa – replica di Elliot. E
come sempre avevano finito col bisticciare, e prendersi più o meno a male
parole.
Ma non era vero, che Oz non si sarebbe più preoccupato per lui, e non era vero
nemmeno che Elliot non ricordasse quanto aveva detto.
E, in quel battibecco che era come sempre degenerato, avevano finto come al
solito che quello fosse il loro unico modo di comunicare; poi, quando a forza
di rispondersi si erano ritrovati quasi fronte a fronte – perché nessuno
accettava di perdere una sfida verbale – lo avevano capito entrambi, e anche
Reo, che quel rossore non era colpa dell’accalorarsi per la discussione
concitata.
Lo sapevano, lo sapevano bene, ma avevano solo fatto scemare quella polemica inutile
come ogni volta, finché non era stato tempo di andare a raggiungere nuovamente
gli altri invitati.
Nessuno dei due aveva pensato a dire nulla, a cercare di capire come o perché.
Era solo un accenno di qualcosa, era un sospetto, quasi un soffio per insinuare
il dubbio.
Ma c’era tempo, in fondo.
C’era tempo.
Non c’era stato; né lui, né il tempo.
Aveva solo avuto la sensazione di qualcosa che scivolava via – ora lo sapeva,
che era una vita – e aveva pronunciato un nome quasi casualmente. Ma non era
stata una casualità, no, era solo che quelle cose succedevano sempre, specie
nei libri: il protagonista se lo sentiva dentro, quando la persona cara, o il
compagno di sempre, o chissà chi altro moriva.
Se lo sentiva dentro, e lo chiamava piano, e l’autore lasciava capire la triste
verità al suo lettore: lo faceva con una parola che era solo un nome in fondo,
ma spiegava l’accaduto meglio di una descrizione, meglio che a perdersi a
cercare di spiegare se aveva fatto male o se ne avrebbe fatto poi.
Scrivevano solo un nome ed era fatta, tutti lo sapevano, tutti lo capivano.
Ma la realtà non cambiava: uno moriva, e tu non eri lì ad impedirlo.
E Oz vedeva il giorno farsi scuro, la notte passare, poi il sole che spuntava
di nuovo; e pian piano che i giorni – o le ore – passavano, si sentiva
frustrato, e arrabbiato, e triste.
Perché sembrava come se non fosse successo nulla, e lo sapeva razionalmente che
era normale che fosse così, ma si sentiva andare in bestia come non era
successo mai; un sentimento tanto simile a quella voglia di distruggere che
ogni tanto si impadroniva di lui, e gli offuscava vista e sensi, e li acuiva al
tempo stesso.
Sacrificarsi per gli altri… aveva osato rimproverarlo
per questo! Elliot lo aveva accusato, insultato, e poi…
finiva così.
Finiva davvero così.
A piangere come bambini, e tremare di rabbia.
A stringere il lembo di una tenda, e a sussurrare il nome di qualcuno che non
risponde.
Da un po’ volevo scrivere su questo episodio di PH, che
ha definitivamente interrotto il mio equilibrio mentale su questa serie. E una
mini-Taiga che ti pseudo minaccia (?) lo rende possibile.
E’ stata la devastazione: adoro Oz e Jack, ma Elliot non gli era secondo di
certo. E insomma, siamo giustamente stati bombardati da amv
che contribuiscono alla suddetta devastazione, e alla fine sono caduta nel
circolo vizioso anche io.
Non ho voluto farla troppo lunga: sia perché è un missing
moment, sia perché boh, avrebbe stonato penso t_t
La frase in apertura è della opening di “Mawaru PenguinDrum”.