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Autore: Gringoire    03/08/2011    3 recensioni
Ripresi a fare avanti ed indietro davanti a quella specie di arco allestito per l’entrata al red carpet, lanciando occhiate impazienti e continue all’orologio.
Vidi Nicole salutarmi agitando la mano e riuscii a sorriderle giusto in tempo prima che venisse risucchiata dalla ressa all’ingresso. Un delirio. Tra fotografi, giornalisti, e quei pochi fan che erano riusciti a trovare biglietti, non avevo idea di chi fosse peggio.
Vidi il luccichio dell’Audi da chilometri di distanza.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I can't feel you there

“Suze!” Bussai alla porta della nostra stanza.
Era barricata là dentro da quasi cinque ore, circondata da parrucchieri, truccatrici e stilisti.
Provai di nuovo.
“Suuuuuuuze!”
La sua segretaria fece capolino dalla soglia.
“Chiede qual è il problema.” Passò le dita sulla tastiera del BlackBerry, pronta a prendere nota di ogni singola parola.
“Dille che si sta facendo tardi. Io mi avvio, la aspetto là.” Mi voltai per andarmene, ma mi ricordai all’ultimo di una cosa. “Giusto, dille che le lascio la limousine, che ho con me il cellulare e che la amo.” Sorrisi a quel manico di scopa con gli occhiali e scesi in salotto.

Legai il papillon bianco immacolato. L’avevo convinto io, dovevamo farci riconoscere: cravatta e papillon bianchi in mezzo ad un mare di nero. Coordinati manco dovessimo andare al ballo del diploma. Chiusi i gemelli ed infilai la giacca, per poi spostarmi nell’ingresso ed afferrare le chiavi dell’Audi. Salii in macchina e accesi il motore, facendo rombare i cavalli. Mi chiamò giusto in quel momento.
Lanciai un’occhiata alla foto apparsa sul display: gliel’avevo scattata qualche sera prima dopo le prove per gli Oscar, mentre dormiva dopo che avevamo fatto l’amore. Era steso a pancia in giù, la testa girata verso di me e l’espressione beata, perso nei sogni; il lenzuolo di qualche millimetro appena sotto la linea stretta dei fianchi, i capelli arruffati e le mani affondate sotto il cuscino.
Un dipinto.
Sbloccai lo schermo e portai il telefono all’orecchio.
Non gli diedi nemmeno il tempo di rispondere e, sorridendo, gli sussurrai un “Sto arrivando.” mentre la mano non occupata correva al volante.

---

Ripresi a fare avanti ed indietro davanti a quella specie di arco allestito per l’entrata al red carpet, lanciando occhiate impazienti e continue all’orologio.
Vidi Nicole salutarmi agitando la mano e riuscii a sorriderle giusto in tempo prima che venisse risucchiata dalla ressa all’ingresso. Un delirio. Tra fotografi, giornalisti, e quei pochi fan che erano riusciti a trovare biglietti, non avevo idea di chi fosse peggio.
Vidi il luccichio dell’Audi da chilometri di distanza.
Era incredibile quanto tenesse a quella macchina: la faceva lucidare almeno tre volte a settimana e tutte le domeniche la portava dal meccanico per la revisione settimanale.
Mi sfrecciò davanti ai duecento, sfanalando come un matto. Mi passai una mano sugli occhi. La discrezione fatta persona. Era anche vero che quando si metteva al volante dell’Audi ritornava bambino; il piccolo Rob che giocava da solo con le macchinine nel grande salotto di casa Downey.
Aspettai che voltasse nel parcheggio, mi guardai attorno per cercare eventuali sguardi indiscreti, e dopo un attimo lo seguii.
Non ci vedevamo da soli pochi giorni, ma quando lo raggiunsi e incrociai il suo sguardo, per un attimo temetti mi avrebbe sbattuto contro la macchina e violentato seduta stante.
Lo aspettai all’ingresso delle toilette mentre recuperava la mia cravatta – si era occupato lui degli abiti ed aveva insistito per consegnarmi la cravatta di persona – e chiudeva la macchina pigiando violentemente sul tasto del telecomando, raggiungendomi quasi di corsa. Mi trasse all’interno della costruzione che ospitava i bagni tirandomi per il bavero della giacca, incurante del fatto che fosse la stessa che avrei indossato per la serata e che rischiava seriamente di danneggiarla.

---

Quando vidi che si fermava, lasciando i pantaloni slacciati solo a metà, e riemergeva dalla mia spalla, mi chiesi seriamente il perché. Paranoie che divennero inutili quando finalmente mi accorsi di “Highway to hell” che suonava a tutto volume.
Mi era sembrata la suoneria ideale, mentre la impostavo quel pomeriggio, per il red carpet, ma in quel momento mi fece girare parecchio le scatole.
Risposi quasi ringhiando per l’interruzione.
“Pronto.”
“Rob, amore, stai bene?”
Cazzo.
Diventai di zucchero - letteralmente -, casomai diventasse sospettosa.
“Certo, certo, tesoro, tutto ok. Ero nel bel mezzo di un interessantissimo discorso con Jude.”
Lo vidi sogghignare, mentre armeggiava con lo sguardo puntato sui miei pantaloni.
“Oh, mi dispiace, volevo solo dirti che sono arrivata, sono nel bagno delle signore a rifarmi il trucco.”
Lei ridacchiò, io congelai.
“Ti aspetto fuori dalla porta.” Sorrisi forzatamente al telefono, quasi Susan potesse vedermi dall’altro lato della cornetta, e feci immediatamente segno a Jude di smettere di cercare di lasciarmi letteralmente in mutande. O peggio.
Mi addossai al muro, premendo un orecchio sull’intonaco.
Jude mi guardò interrogativamente, ancora indeciso se arrabbiarsi o meno del fatto che lo avessi appena respinto poco gentilmente.
Quando lo vidi boccheggiare in cerca delle parole, gli intimai di tacere prima di combinare danni irreversibili.
“Di là c’è Susan.” Gli sillabai. In due secondi si appiccicò orecchio al muro accanto a me.
“Dici che ha sentito?” sussurrò.
“Non ne ho idea. Non mi ha detto nulla, e se non ha sentito gli AC/DC a tutto volume non ha sentito neanche noi.”
Ascoltai.
Non si sentiva assolutamente nulla.
“Anche tu, sceglierti posti come questo!” lo sgridai, soffiando sottovoce.
“Ma se fino ad un attimo fa saltavi quasi, urlando che non ci avrebbero mai trovati!” mi fulminò. “E poi è l’unico posto dove ho trovato ganci per gli abiti.” Accennò alle giacche e le camice appese ordinatamente alla parete.
Dopotutto dovevamo presentare un Oscar, serviva attenzione e quella cura per i dettagli che mi contraddistingueva.
Mi accorsi solo in quel momento del fatto che alla mia camicia mancavano i primi due bottoni. Mi staccai lentamente dal muro, additandola inorridito.
“J-Jude.”
Mi fissò un secondo senza capire, poi seguì il mio dito.
Lo vidi strabuzzare gli occhi e smettere di respirare.
Mi avvicinai per toccarla e accertarmi che non fosse un sogno.
Niente, mancavano due bottoni.
Cazzo.
Guardai sul pavimento ma non ne trovai traccia e mi voltai a fissare Jude, ancora immobile nella stessa posizione.
Gli lanciai un’occhiata di fuoco, assottigliando gli occhi.
“Io ti uccido. Te e il tuo piccolo amichetto ninfomane lassotto.”

---

Arrivai sano e salvo al red carpet, grazie a Dio.
Bè, quasi.
Jude aveva riparato al danno coprendomi i bottoni mancanti con la sua cravatta e fregandomi il papillon.
Uscii dall’ombra per mano a Susan e cominciai a muovere i primi passi sul tappeto rosso, sperando che nessuno si accorgesse del fatto che, contrariamente ai miei soliti standard, indossavo una cravatta e non un farfallino.
Dopo neanche mezzo metro mi sentii picchiettare su una spalla. Mi voltai e con la coda dell’occhio vidi Suze illuminarsi d’immenso.
“Jude!”
Si salutarono con baci e abbracci come bravi e vecchi amici, e solo quando si staccarono notai quelli che sembravano i miei occhiali in mano a Jude.
Cercai in una delle tasche interne della giacca senza trovare nulla. Non c’era dubbio, erano i miei. Lui notò la direzione del mio sguardo e me li porse, per poi rispondere alla domanda muta di Susan.
“Li avevi lasciati in… ehm… in bagno.” Improvvisò.
Bè, non era del tutto una bugia, in bagno c’eravamo stati
Li presi e li inforcai, ringraziandolo e stando al gioco.
“Che fortuna che li abbia trovati tu, o non li avrebbe più rivisti.” Susan gli si appolipò ad un braccio, ringraziandolo almeno un miliardo di volte.
Lui mi lanciò uno sguardo di sottecchi.
“Sono sicuro che qualcuno, trovandoli, avrebbe ricollegato le iniziali a lui.” Accennò al “RDJ” scritto con i brillantini sulla stecchetta sinistra degli occhiali.
Susan continuò a ringraziarlo per una decina buona di minuti, finchè non le feci presente che era già tardi ed eravamo solo all’inizio del tappeto.

***

Quando finalmente riuscimmo ad entrare nel teatro, mi sedetti sfinito al mio posto e, dopo un fugace gioco di sguardi, Jude si sedette un paio di posti più in là. Il tutto ovviamente casuale.
Suze si piegò in avanti a parlare con Helena, ed io ne approfittai per sporgermi dietro di lei.
Inutile dire che lo sguardo cristallino di Jude era esattamente puntato su di me.
“Da dove sei entrato?” gli sillabai. Mi ero informato, infiltrandomi tra gli addetti, e tutti avevano detto che mister Law non era passato dal tappeto rosso.
Inclinò la testa, stabilendo un contatto migliore.
“Sono entrato dal retro, troppa gente.”
Inarcai le sopracciglia. Jude Law che aveva paura della gente.
Possibile quasi quanto vedere un ippopotamo con le ali.
In quel momento Suze ritornò a sedere composta, interrompendo il contatto tra me e lui e cominciando  raccontarmi cosa si erano dette lei ed Helena.

***

Non ero più riuscito ad avere nemmeno un minimo contatto con Jude, perciò attendevo impazientemente il cenno dell’addetto che avrebbe significato che i prossimi a salire sul palco saremmo stati noi.
Finalmente, mentre Oprah cominciava il suo discorso, un ragazzo dello staff ci fece segno di seguirlo e ci condusse alla green room.
Ci piazzò in una stanza enorme, davanti ad un televisore che ovviamente mandava la diretta degli Awards.
La green room era praticamente disabitata; noi eravamo tra gli ultimi presentatori e dopo di noi ci sarebbe stato tutto il tempo per gli altri di prepararsi, vista la pubblicità già in programma.
Mi stravaccai su una poltrona, spedendo Jude al bar per i drink. Non ne era particolarmente entusiasta, ma non replicò.
In tutta risposta, lui tornò con due tazze di tè, da bravo inglese.
“Mi prendi in giro?”
Mi porse la mia tazza ghignando.
“Tanto non puoi bere alcolici, mi spieghi cos’avrei dovuto prendere?”
“Qualunque cosa, ma non il tè! Sono un dandy americano, non una checca inglese.” Mi guardò storto.
“Chi sarebbe una checca inglese?”
Mantenni il contatto visivo. Questa volta stava a me sogghignare.
“Non io.”
“Ah, è così, eh?” posò le tazze sul tavolino davanti a me e mi afferrò un polso, facendomi alzare a forza dalla poltrona e tirandomi nella stanza accanto.
Mi mollò accanto al biliardo e chiuse a chiave la porta.
Sorrisi mefistofelico, accennando al tavolo.
“Cos’è, hai voglia di una pa-”
Mi interruppe, saltando a sedere sul biliardo e tirandomi addosso a lui, facendo scontrare le nostre bocche.
“Voglio farti vedere chi è la checca, qui.”
Appoggiai un ginocchio accanto a lui, cercando di issarmi sul tavolo, e gli finii a cavalcioni sul bacino. Gli lasciai un bacio a fior di labbra.
“Bè, teoricamente qui le checche al momento sono due.”
Sorrise, afferrandomi per i fianchi – il colletto era severamente vietato, cinque minuti e toccava a noi – e infilandomi poco gentilmente la lingua in gola.

---

Entrammo da due parti opposte, camminando in sincrono nemmeno a farlo apposta, e in un paio di metri raggiungemmo il microfono.
Partii io a parlare, ma nemmeno a metà discorso fui interrotto da Rob, che stese tutti con il suo solito carisma.
“Calmati.”
Gli poggiai una mano all’altezza del taschino per dare più enfasi alle mie parole, lasciandola poi scivolare involontariamente fino quasi all’ombelico.
Lo vidi aprire leggermente la bocca, in cerca d’aria, quando gli sfiorai i muscoli del torace, e cercai immediatamente di richiamare l’attenzione su di me per evitare che qualcuno notasse la lascivia del mio gesto e la sua reazione non propriamente usuale.
Quando mi interruppe la seconda volta, decisi di rendergli pan per focaccia.
Dopo una mia battuta particolarmente spinosa lo vidi boccheggiare in cerca delle parole e voltarsi verso di me. Mi rispose sagacemente – come sempre, con la sua retorica infallibile la si spuntava raramente -, per poi incatenare lo sguardo al mio, e per un momento credetti veramente che volesse baciarmi. O l’avrebbe fatto lui o l’avrei fatto io.
Giusto in tempo una lucina rossa si accese dietro le quinte, segnalando un momento di silenzio troppo lungo e catturando il mio sguardo, riportandomi con i piedi per terra.
Annunciai le nominations e la mia voce, registrata nei giorni precedenti, prese ad elencarle. Cercai di trattenermi un minimo e gli sfiorai appena la mano. Cinque minuti massimo – sperando in un discorso molto breve da parte dei vincitori – e sarei stato libero di violentarlo dietro le quinte.
Quando venne annunciato Iron man 2 non potei fare a meno di lasciarmi scappare un sorrisino all’indirizzo di Rob, accanto a me, e pregai con tutte le forze che vincesse solo per vedere il suo sorriso soddisfatto.
“E l’Oscar va a… Inception.” Notai che ci rimase palesemente male, anche se cercava di non darlo a vedere, mascherando il tutto dietro il suo solito sorriso cortese.
Porsi il premio ai vincitori e aspettai fin troppo pazientemente che la platea si concentrasse su di loro.
“Possiamo bere un bicchier d’acqua?” chiesi innocentemente ad una delle ragazza che ci avevano portato le statuette.
“Certo.” Mi sorrise. Non attesi un secondo di più, afferrai Rob per un braccio e me lo tirai dietro nel backstage.
Cercai una nicchia buia tra le quinte e gli carezzai il viso, vedendo la sua facciata sgretolarsi sotto le mie dita.
“Siamo obiettivi, Inception è decisamente migliore, in quanto ad effetti speciali.” Provò ad auto convincersi con una smorfia. Non era stato lui, ad essere nominato direttamente, ma gli dispiaceva come se lo fosse stato.
“Iron man potrà anche non aver vinto l’Oscar per gli effetti speciali, ma prima o poi uno di quei premi sarà tuo. Te lo meriti e lo sai. Lo meritavi già ai tempi di Charlot.”
Mi sorrise appena, lasciandomi poi un bacio a fior di labbra.
“Andiamo.” Mi prese la mano e si appostò appena dietro le quinte, aspettando che i vincitori terminassero i ringraziamenti. Gli pizzicai un fianco quando lo trovai a cercare di specchiarsi in uno dei gemelli. Per quanto fosse afflitto, non sarebbe cambiato mai. Ma d’altronde, come aveva detto lui, era importante la cura per i dettagli. Era grazie a quelli che in due anni di frequentazioni clandestine non ci eravamo fatti ancora scoprire da nessuno. Escluso Guy, certo, ma sospettavo fosse dotato di poteri paranormali.
“Narcisista.” Lo apostrofai, guadagnandomi un’occhiataccia.
Uscimmo qualche secondo prima della fine del discorso, sistemandoci in uno dei palchetti laterali come se fossimo stati sempre lì. Come da accordo, una delle ragazze di prima consegnò la nuova busta a Robert.
Quando i riflettori tornarono si incentrarono di nuovo su di noi, lo vidi improvvisamente smettere di applaudire e prendere a guardarmi. Lo fissai interrogativamente, mentre continuavo a battere le mani. L’attenzione era tornata a noi, meglio non commettere gesti avventati.
Ma a quanto pareva, come solito lui se n’era accorto prima di me.
“Jude Law non ha più un passaggio per gli after-party, se qualcuno fosse interessato.”
Cercai di nascondere un sorriso.
Ecco la vendetta per il simpatico epiteto di poco prima.
Lui non aveva nemmeno pensato a come spiegare questa battuta, lo sapevo, agiva d’istinto, ma come sempre il suo istinto era nel giusto ed il gesto si sarebbe di certo giustificato alla platea con il fatto che avevo applaudito tanto vigorosamente ad un vincitore che non era il film di cui era protagonista lui.
Annunciò le nominations e, come la mia poco prima, la sua voce pre-registrata partì con i titoli, facendomi dannare con quel suo accento mostruosamente sensuale.
Approfittando del fatto che fossero tutti presi dal video, ci spostammo di nuovo nel palco centrale, come da copione, invertendo le posizioni di prima davanti al microfono.
“E l’Oscar va a...” approfittai della scusa di leggere la busta per portarmi più vicino a lui. “The social network.” Lo vidi sorridere appena. L’avevamo visto insieme, accoccolati sul divano nel mio salotto, al caldo sotto un plaid. Ci era piaciuto.
Applaudii e ringraziai la ragazza con le statuette, porgendo la sua a Rob.
Cercando di passare inosservati, scivolammo finalmente dietro le quinte e di nuovo nella green room. Non mi feci scrupoli a tirarlo di nuovo nella sala del biliardo.
Chiusi a chiave e ripresi la posizione di poco prima, tirandomelo addosso sorridendo.
Anche questa era fatta.

***

“Robert?”
La voce di Susan ci arrivò alle orecchie forte e chiara nonostante la lontananza.
Lanciai un’occhiata all’orologio accanto alla porta e tirai una gomitata nelle costole a Robert, sdraiato placidamente accanto a me sul tavolo. Gli Oscar dovevano essere finiti da almeno venti minuti, facendo due calcoli.
Saltai giù dal tavolo, recuperando la camicia di Rob e tirandogliela addosso mentre cercavo la mia.
“Vestiti, c’è Susan!” gli sibilai, vedendolo guardarsi intorno confuso, chiudendo gli ultimi bottoni e sistemando il papillon. Lo osservai balzare agilmente a terra. Cercai di sistemarmi i capelli, recuperai le palline da biliardo e le sparsi sul tavolo facendo più rumore possibile. Robert mi guardò aggrottando le sopracciglia, e indicai eloquentemente il tavolo. Sembrò capire, perché sorrise malandrinamente e si affrettò a staccare due stecche dal muro, lanciandomene una e correndo ad aprire la porta con gli occhi che brillavano. Un bambino, un bambino. Si divertiva come un matto, con cose del genere.
Giusto in tempo, vidi Susan arrivare un decimo di secondo dopo e mi feci del male fisico per trattenere la risata che mi nacque alla vista del sorriso angelico di Rob.
“Amore!” la salutò, come se non avesse finito due minuti prima di scoparsi allegramente quello che lei credeva il suo migliore amico.
Quasi mi ruppi una costola, per resistere. Mi dispiaceva per Susan, ma l’Oscar gli ci voleva senza dubbio.

---

Almeno il party di Vogue passò senza ulteriori complicazioni, anche se più di una volta mi ero ritrovato a perdere tutti i contatti con Jude, per poi ritrovarli qualche attimo dopo, scoprendolo appartato in un angolo con questa o quella celebrità. Una volta lo beccai con McGregor, ma fortunatamente ci pensò lui a discostarsi in fretta. Sapeva che non sopportavo Ewan.
Lui, d’altronde, non sopportava Val, eravamo pari. In effetti l’unico con cui andava abbastanza d’accordo era Jamie, grazie a Dio.
Susan arrivò improvvisamente a trascinarmi verso una vecchia amica proprio mentre cercavo di scivolare silenziosamente verso Jude, venendo braccato quasi alla fine del percorso. Mi lasciai tirare, sillabandogli le mie scuse e vedendolo annuire, sorridendo appena.
Sospirai, voltandomi e buttandomi nella conversazione, emanando carisma da tutti i pori come sempre.

---

Me lo vidi portar via quando era praticamente tra le mie braccia, ormai.
Avevamo già avuto la nostra dose di scappatelle, quel giorno, ma non sembrava mai abbastanza da compensare quei periodi interminabili che passavamo lontani.
“Scusa.” Scandì silenziosamente, seguendo Susan.
Non glielo potevo impedire, era sua moglie. Gli sorrisi, cercando di non far trapelare la delusione, a quanto pareva riuscendo in pieno. Quando c’era Susan, a poca distanza, orbitava solamente attorno a lei e non potevo farci niente, anche se la cosa mi pesava in modo inimmaginabile. Ma lui non sembrava capirlo, non sembrava curarsene. Ed io di certo non sarei andato a rinfacciarglielo, lo conoscevo, avrebbe finito per sentirsi l’unico colpevole.
Presi un altro calice di quello che credevo fosse champagne e lo svuotai in un sorso, senza perdere d’occhio un secondo la schiena di Robert.
Rideva, gesticolava, raccontava aneddoti e barzellette.
Stringeva Susan, respirava tra i suoi capelli, le lasciava un bacio sulla tempia.
Abbandonai il bicchiere sul primo tavolo che mi capitò e mi precipitai a grandi passi verso l’uscita.
Era ora di andarsene, la mia serata era finita, cominciava la loro.
Mentre mi avviavo a cercare un taxi, chiamai Ben per farmi prenotare il primo volo disponibile per l’Inghilterra.

***

“Sei sparito, ieri, nessuno ti ha visto andare via.”
“So anche passare inosservato, sai?” forzai una risatina nella cornetta.
Lui mi seguì. “Ho notato.”
Non mi hai visto. Mi hai lasciato andare. Non mi hai fermato.
“Susan ha detto che dovresti venire a cena, stasera.”
“Mi dispiace, sono tornato a Londra.”
“Di già? Pensavo volessi rimanere qualche giorno. Fare un giro nei dintorni…” si interruppe. Udii una porta che veniva chiusa in sottofondo e capii che era andato a chiudersi da qualche parte per non essere ascoltato. “Pensavo avremmo passato del tempo insieme.” La delusione nella sua voce mi fece un male tremendo all’altezza del cuore.
Lo amavo. Io lo sapevo, lui lo sapeva.
Chiusi gli occhi, cercando la scusa più facile.
Semplice, i bambini.
“Mi dispiace. Mi sarebbe piaciuto da morire, lo sai,” ma non ce l’avrei fatta “ma purtroppo Rudy si è sentito male e Sadie voleva che tornassi.” Tenni gli occhi chiusi, come se potesse impedirgli di capire che era una bugia, anche se non era là a leggermelo nel fondo dell’iride.
“Ora va tutto bene?”
“Si, si, certo, tutto passato.”
“Benissimo.” Lo vidi distintamente dietro le palpebre chiuse che sorrideva di quel sorriso luminoso tutto suo.
“Ci sentiamo.”
“Si, certo. Ma sappi che già mi manchi.”
Abbassai appena il telefono e sospirai di nuovo.
“Anche tu.”
Ed era vero.




 




[Ce l’ho fatta. Qualcuno dica a Dio che ora voglio una bambolina, come minimo.]

DIO.
Al momento mi sento la regina del mondo solo per essere riuscita a finirla.
Un parto.
Cinque mesi che questa cosa schifrepida, è in fase di lavorazione (Manu, tu che dicevi che sarebbe stata bellissima appunto per il tempo che ci avevo impiegato, dovrai ricrederti, mi dispiace).
Cinque mesi buttati, insomma.
E sono solo 8 pagine, sono sembrate più che quelle de Il signore degli anelli, mentre scrivevo.

Eppure la amo. O quantomeno la prima parte, quella che aspetta pazientemente da marzo di essere pubblicata e che non ha mai visto così tante correzioni in vita sua (dall’inizio fino all’arrivo al party di Vogue, tanto per intenderci), ma che poi si è vista appioppare stanotte (ebbene si, alle due del mattino mi sono messa a finirla solo perché ci tenevo a pubblicarla oggi, 3 agosto. A qualcuno ricorda qualcosa? Oh, già, il compleanno di Frà!) la parte finale, che è una roba che non si legge proprio.
Ora.
Il titolo è un verso di Numb, dei Linkin Park, che mi è capitata come si dice a fagiuolo mentre terminavo la stesura del pezzo orribile di cui sopra, ed ovviamente tutto questo rusco (termine tipicamente bolognese per indicare il pattume, la spazzatura, i rifiuti, e tutti i sinonimi che volete. Se non lo conoscevate, ora lo conoscete ù_ù “Anderson, do your research.”) è per la cara, carissima Vè, che mi ucciderà per averle rovinato il compleanno. Sei la benvenuta, cara, tutto quello che vuoi, e, finalmente, BUON COMPLEANNO, HO!
Poi la vorrei dedicare a tutte le donnine con cui ho condiviso quella magnifica nottata che sempre ricorderò, vi voglio tanto tanto bene <3
E mi sono tolta dalle scatole anche la shot sugli Oscar, mi sento terribilmente realizzata. O almeno, mi sentirò terribilmente realizzata per i prossimi cinque minuti ._.
Ora, se permettete, vado a letto, che l’orologio segna un orario indecentemente vicino alle tre e mezza. E se non mi sbrigo a pubblicare le supera anche.
Buonanotte e ancora BUON COMPLEANNO, FRA'! <3
- G

   
 
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