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Autore: yami no tenshi    03/08/2011    4 recensioni
Questa è una storia che ho scritto per il contest "infanzie rubate". Ed è di questo che parla, un'infanzia rubata. Jamina conosce solo le due lame che l'hanno accompagnata per tutta la vita, non sa come si faccia a piangere. Non vorrebbe permettere a nessuno di toccarla, ma ciò di cui ha davvero paura è essere abbandonata.
Terza classificata all'"Infanzie Rubate" contest di Namine22 e Hiko
Seconda classificata al "Dramatic" contest di _Calypso_
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nickname:  Yami
Titolo storia: Requiem per una lama
Fandom: Originale
Rating: Giallo
Genere: Drammatico, Romantico, Triste
Parola scelta: Lama
Note dell’autore: premetto che questo è il primo contest al quale partecipo e che spero di non fare troppo casini. Non ho molto da dirvi su questa storia, tranne che non ho avuto il tempo di riguardarla attentamente visto che domani parto e che è quasi tutta scritta di getto. E che non sono per niente soddisfatta. Fino all’ultimo ho pensato che non ce l’avrei fatta a spedirla, ma alla fine eccola qui. Jamina è un personaggio che adoro, vi chiedo solo di non essere troppo crudeli con lei (e con me).





non so bene che dire su questa storia. l'unica cosa può essere la soddisfazione per averne finita una. e anche un po' per aver avuto il coraggio di pubblicarla.

Jamina è un personaggio a cui sono molto affezionata. Pur non avendo scritto ancora molto su di lei sono anni che ci "lavoro" anche se in un contesto un po' diverso da questo. spero solo di riuscire a trasmettere quanto la ami e che alla fine piaccia un po' anche a voi.

 

Lievi, i raggi del sole scivolano sul suo volto svegliandola. Pigramente tasta il letto al suo fianco accorgendosi con disappunto che è vuoto. E freddo. Per un attimo teme che se ne sia andata, come all’inizio temeva in continuazione. Poi guarda la sveglia. Le dieci passate. E Jamina è un essere mattiniero. Non si sorprenderebbe affatto se anche di domenica si fosse svegliata all’alba per andare in giardino ad allenarsi. Non riesce proprio a separarsi da quelle lame. Da quando l’ha trovata svenuta davanti al cancello di casa sua con quelle accanto, è sempre lì che sono rimaste. Al suo fianco.

Sente invece delle voci, delle risate di bambini provenienti dal cortile. E la sua voce che, calma, racconta loro qualche storia. Sorride. Sa che i bambini le piacciono, molto più degli adulti. Ancora oggi sono gli unici, a parte lei, dai quali si lasci avvicinare spontaneamente. Si affaccia alla finestra e la osserva. È davvero bellissima, ciò che di più bello lei abbia mai visto. La pelle candida, i capelli ancora più candidi e quegli occhi dalle iridi tinte di viola. Non si stancherà mai di ripeterle quanto la ritenga meravigliosa, quanto non si stancherebbe mai di guardarla. Non solo per il suo aspetto. Continuerà fin quando la stessa Jamina non crederà alle sue parole.

Osservandola si accorge delle lame nascoste sotto le maniche larghe della camicia che indossa. Sorride di nuovo, ma questa volta nei suoi occhi c’è una punta di tristezza. Ricorda nitidamente la prima volta che entrò nella sua stanza dopo averla soccorsa. Rintanata in un angolo, in posizione difensiva, le lame strette in mano abbastanza da rendere le nocche più pallide di quanto già non fossero. E i suoi occhi. Non potrà mai dimenticarli. Gli occhi di un animale braccato, in trappola, che ancora disperatamente si dimena cercando di liberarsi. Occhi spezzati nel profondo.

Aveva tentato di rassicurarla, parlandone senza avvicinarsi troppo. Non sapeva se lei capisse ciò che le stava dicendo. Si limitava a continuare a guardarla, sempre nella stessa posizione. Alla fine le aveva lasciato qualcosa da mangiare e se n’era andata. Aveva continuato così per giorni, settimane, prima che lei decidesse di dirle a sua volta qualcosa. Un’unica parola “Perché?”

Prima che si lasciasse toccare invece ci vollero anni, due lunghissimi anni. Da qualche mese aveva cominciato a girare per la casa, anche se per la maggior parte del tempo solo quando lei era al lavoro o quando ancora dormiva.

Una mattina per caso si svegliò in anticipo e la vide allenarsi, le lame che saettavano nell’aria fresca, i movimenti sinuosi. Ne restò affascinata. Ma allo stesso tempo si chiese perché una bambina di neanche tredici anni avrebbe dovuto saper usare delle armi in quel modo.

Il loro primo contatto fu apparentemente casuale. Le sue mani la sfiorarono mentre lei prendeva il vassoio con il cibo dalle sue. Certo, ci vollero comunque altri mesi prima che la situazione evolvesse ulteriormente, ma fu comunque un inizio. L’inizio. Un altro giorno andando nella sua stanza per parlarle come aveva preso abitudine a fare quotidianamente non trovò la sedia sulla quale si sedeva di solito, solo il letto dal quale lei la osservava, quasi la sfidasse ad avvicinarsi. Si sedette sul letto.

Da tempo aveva smesso di rivolgerle domande personale, alle quali sapeva che non avrebbe risposto. Aveva però scoperto che le piacevano letteratura e la poesia, e le leggeva, o le parlava delle opere che più l’avevano colpita. Adorava vederla ascoltare con aria assorta, eppure sempre guardinga. Decise però che forse era giunto il momento di ritentare. Le domandò una volta ancora quale fosse il suo nome. Le la guardò, sospettosa, prima di rispondere “Jamina”. Quel giorno non riuscì e non cercò di farle dire altro ma uscì soddisfatta dalla stanza.

Soddisfazione che fu niente in confronto a quando iniziò a raccontarle di sé.

Ho tre anni e già due lame in mano. Lei davanti a me mi insegna come usarle, mi insegna che dovrò per forza usarle. Anche se non perché. Dice che non ho bisogno di saperlo.

I mesi passano e miglioro in fretta. Lei dice che ho un dono, una benedizione. Ma quando fallisco e la frusta cala sulla mia schiena non ne sono tanto sicura.

È il giorno del mio quarto compleanno. Haru è davanti a me. Lei è l’unica persona che mi rivolga la parola in tutto l’istituto. Gli altri mi guardano con disprezzo, o hanno troppa paura di Lei.

-Uccidila.- dice.

Ma io non posso farlo. Mi rifiuto. Le ferite ci metteranno giorni a guarire.

La seconda volta c’è un altro bambino davanti a me. Uno che non conosco. Lei non dice niente, lui attacca e capisco che questa volta non ho la possibilità di rifiutare. O la mia o la sua vita.

Sento le due lame gemelle che affondano nella carne, il sangue che mi cola tra le dita. Per un momento non sento nulla, il tempo si ferma. Poi vedo il corpo che cade, a terra, nel suo stesso sangue. E percepisco qualcosa nel profondo del mio animo che si spezza. Non sento rimorso o senso di colpa. Non ho ancora chiaro cosa significhino questi due concetti. Lei dice che non bisogno di saperlo.

-Andando avanti diventerà più facile.-

Non capisco subito di cosa stia parlando. Poi realizzo: uccidere, dilaniare corpi con le mie lame e con queste raccogliere anime e dolore.

Ma il tempo passa e continuo a sentire dolore. Forse in fondo è rimorso, almeno in parte. Ma ciò che davvero mi fa male è che sta iniziando a piacermi e, in qualche modo, so che è sbagliato, profondamente sbagliato. Comincio a pensare di essere io a essere sbagliata.

Ma non posso rivelare niente, né emozioni, né sentimenti, perché Lei non vuole. Non posso piangere perché è da deboli. È umano ed io non lo sono. Sono una bambola. Lei lo ripete in continuazione. E ancora dice che non ho bisogno di sapere altro a parte ciò che Lei mi dice.

Vivo praticamente fuori dall’istituto, in mezzo alla neve. Lei dice che devo imparare a sopravvivere con le mie forze. Ogni giorno sento il gelo che mi penetra nelle ossa e la fame che mi lacera le viscere. E ogni giorno devo combattere per arrivare al giorno successivo contro le bestie che popolano i terreni circostanti.

Ogni giorno mi sento più simile a loro, nonostante io usi lame invece che zanne o artigli, e mi chiedo se ne valga la pena.

Non sopporto la vista delle lame, eppure sono sempre con me. Durante le notti all’aperto, l’addestramento o quelli che Lei chiama i miei ‘lavori’. Le odio. Mi odio. Guardo Haru e penso a quanto lei mi sembri pura, col suo sorriso e con le mani delicate che curano le ferite che Lei mi infligge. Mi sento sporca. E Lei se ne accorge.

Quando mi richiama nella stanza, ci sono Haru e Jenna, la donna cui Lei ha affidato l’incarico di crescermi. Non è mai stata affettuosa o gentile con me, non le era permesso, ma era tutto ciò che conosco e in qualche modo contorto le sono affezionata.

Le vedo morire, entrambe, davanti ai miei occhi. Sento il loro sangue che mi schizza addosso, sul viso, sui vestiti, che forma una pozza intorno e sotto di me. Che m’impregna.

-Hai imparato la lezione di oggi?- mi chiede.

Annuisco meccanicamente.

Penso che se prima avevo un’anima questa ormai si sia dissolta quando ho iniziato a togliere vite. Eppure c’era ancora qualcosa dentro di me in grado di infrangersi, come cristallo.

Divento un guscio vuoto. Non m’interessa più niente, nessuno. Non ho più nessuno che possa interessarmi. I lavori che lei mi commissiona iniziano a intensificarsi ed io comincio ad aspettarli con ansia. Solo quando le due lame brillano nelle mie mani, mi sento viva, solo in quegli istanti posso pensare, e convincermi, di esistere.

E quelle lame che prima odiavo adesso le amo. Sono il fulcro di tutto. L’inizio e la fine di me. Sono tutto, perché non c’è nient’altro. Sono diventata davvero ciò che Lei voleva. Una bambola, una bambola assassina. E lei dice che è giusto così, che non ho bisogno di altro.

Ma ogni volta che penso che ormai dentro di me tutto sia morto mi sbaglio. E desidero solo che non sia così.

Ho sei anni quando il suo compagno, il compagno di Lei, entra nella mia camera in una di quelle poche notti che mi concesso passare dentro l’istituto. Quando si avvicina, non faccio niente per fermarlo, sento che niente può più avere importanza. Non ho mai pianto e non piango neanche adesso. Ormai credo che anche se volessi farlo non ne sarei in grado.

Viola il mio corpo, più e più volte. Eppure il momento in cui mi sento maggiormente violata è quando prende in mano le mie lame. Lo percepisco come un contatto intimo. Troppo.

Quando poi le sento incidermi la pelle, immagino solo che sia la sua, immagino di poterle spingere una di quelle lame in giù fino al cuore. Non posso fare altro.

Per un anno non cambia nulla, svolgo le mie mansioni, passo una notte a settimana all’interno dell’istituto, più di quanto io non abbia mai fatto prima. Poi arriva lui. Lev.

È il figlio di uno degli uomini al Suo servizio. È il secondo a rivolgermi la parola senza esservi costretto. Dice che vuole essere mio amico. Se potessi ne rimarrei sorpresa. All’inizio lo ignoro. Sono un’assassina e gli assassini non hanno bisogno di amici. Le uniche amiche che posso avere sono le lame. Nient’altro.

Ma lui non demorde e alla fine mi ritrovo ad ascoltarlo. Ha una decina di anni più di me. E un giorno mi chiede se sono realmente soddisfatta della mia vita. Non so cosa rispondergli, non ho mai pensato di avere il diritto di pensarci. Gli dico che non ho scelta, semplicemente. È quello che Lei mi ripete sempre.

-C’è sempre una scelta.- dice lui.

Non so cosa rispondere.

Inizio a rifletterci, a pensare che forse a ragione lui. Ma penso anche a quello che sono, a quello che faccio. Probabilmente non c’è redenzione per tutto questo, per me. Che non può esserci.

Decido di parlarne con lui. Forse lui lo sa. Ho otto anni, sono solo una bambina, anche se non mi sento più tale da tanto tempo. C’era stato un periodo in cui sgattaiolavo di nascosto nella biblioteca per leggere, prima che Lei lo scoprisse e mettesse in chiaro che una bambola non ne aveva bisogno. Leggevo spesso storie che riguardavano bambini e la loro infanzia. Mi interessava questa parola ‘infanzia’. Era uno dei pochi concetti che non capivo.

Allora gli racconto tutto. Lui non dice niente. Tutto ciò che voglio, è che mi accetti, forse perché è l’unico modo che ho per accettarmi io stessa. Ma lui continua a tacere. Non riesco a leggere la sua espressione. E per la prima volta da anni ho paura. Sono terrorizzata da quello che sta per succedere.

Lui alza gli occhi. Sono colmi di ribrezzo, di orrore. Anche lui ha paura, ha paura di me. È come tutti gli altri. Mi ha tradita.

Perché questo è ai miei occhi. Un tradimento. Per una volta mi sono fidata, ho avuto delle aspettative. E fa più male questo di tutto ciò che c’è stato fino a quel momento. Il suo sguardo mi uccide. Non c’è più niente che può rompersi. Solo morte.

E le lame che per lui avevo abbandonato tornano nelle mie mani, dove devono stare. Adesso vorrei piangere, ma avevo ragione, non ne sono più capace.

-Ti avevo detto che non potevi avere amici, che non ne meritavi. Che non ne hai bisogno. Tu non hai bisogno di nessuno.- Lei mi parla.

-Puoi fare solo una cosa: ucciderlo.-

E questa volta non mi oppongo. Non rifiuto. Le lame di nuovo affondano. Nel suo petto. Visto quanto fa male nulla cambierebbe se anche fosse il mio. E la pioggia fuori dalla finestra suona il requiem per la mia anima.

La mia mente però è sveglia. Finalmente si è ridestata. ‘Non hai bisogno di nessuno’ mi ha detto Lei. Ed io le credo, come ho sempre creduto ad ogni singola parola che ha pronunciato. Con il sangue di lui che ancora gronda dalle lame, sento l’odio sempre sopito emergere dalle profondità del mio essere. Non più solo verso me stessa. L’odio verso di Lei che mi ha reso ciò che sono.

Per mesi faccio finta che nulla sia cambiato. Poi decido e la mia decisione è irrevocabile. Appicco il fuoco all’istituto, e mi lascio dietro solo cenere, cenere e dolore.

Arrivo in città. Qui le mie lame non hanno valore, non servono a nulla. Qui forse però potrò essere umana.

Tiro avanti rubando ogni giorno un po’ di cibo, non molto. Sono abituata ad accontentarmi di poco. Un giorno un signore vestito in modo piuttosto eccentrico mi si avvicina. Mi chiede se voglio un lavoro.

È il proprietario di un bordello. Rifiuto la sua offerta. Ricordo le mani del Suo compagno che mi sfiorano lascive e non voglio permettere a nessun altro di farmi una cosa del genere. Ride di me e mi assicura che un giorno tornerò da lui implorando.

Incontro un gruppo di ragazzi. Vivono in strada come me, commettendo piccoli furti e dormendo nei vicoli, dove capita. Alcuni di loro si prostituiscono per strada e alcuni, a volte, non tornano più.

Mi accolgono nel loro gruppo e per un po’ vivo con loro. Non racconto loro chi sono, o chi ero. Mi accorgo presto che per i loro sforzi non sono sufficienti. Ai bambini sotto i sei anni non è richiesto di fare niente per contribuire al ‘benessere’ comune. Non so se sia la cosa migliore da fare, ma di fatto sono troppi e sono come dei pesi morti. Hanno bisogno di soldi, molti soldi per sfamare tutti. Per dare a tutti una possibilità di sopravvivenza.

Non so perché m’importi qualcosa di loro. Forse voglio che mi spieghino il significato di quella parola, ‘infanzia’ che non riuscivo a comprendere. E so che se non li aiuto non ne avranno mai l’occasione.

Non sopporto che tutti abbiano sempre ragione a parte me, ma alla fine torno dal signore eccentrico e accetto la sua proposta. Non lo imploro però, questo mai. E non lo dico agl’altri.

Passano quattro anni. E pur avendo adesso a disposizione abbastanza soldi per comprare cibo a sufficienza dimagrisco. Vomito praticamente ogni giorno. Devo resistere. Per loro. Questo mi dico. Ma so che è una bugia. In fondo penso di meritarmi questo dolore come contrappasso per quello che ho inflitto.

A tredici anni però raggiungo il mio limite di sopportazione. È una notte come tante che sfodero le lame dopo anni di inattività e uccido ogni cliente presente nell’edificio. E poi il signore, quello eccentrico. Mi sento bene per la prima volta dopo tanto tempo. Come se le cose fossero tornate al posto giusto. Ma è una sensazione fugace e di nuovo cado nella disperazione.

Credevo di essere cambiata, di poter aiutare gli altri, invece di ucciderli. Mi sono sbagliata. Di nuovo. E ho deluso tutti.

E allora fuggo. Corro finché le forze non mi abbandonano. Fino a sentirmi male, a svenire. Per poi risvegliarmi in una stanza sconosciuta e sentire dei passi che si avvicinano alla porta. Tempo di un attimo e sono nell’angolo della stanza, pronta a difendermi, le mie fedeli lame strette in mano.

Non permetterò più a nessuno di toccarmi.

Il suo racconto finì e lei si sentì il cuore stretto in una morsa. Avrebbe voluto poter comprendere anche solo un minimo del dolore che era stata costretta a subire. Le veniva piangere, ma sapeva, sentiva, che non era la cosa mossa più adatta da compiere. Una delle poche cose che aveva capito di lei era che detestava essere compatita. Non poteva concepirla, la compassione.

Allora provò a toccarla. Con una mano le accarezzò il viso. Era quasi sicura che si sarebbe ritratta, che sarebbe scappata lontano da lei e dal suo tocco.

Invece restò sorpresa quando si accasciò tra le sue braccia, contro il suo petto. Per una volta le mani lontane dalle lame, che giacquero abbandonate sul letto. Non vedevo il suo volto, lei non voleva che lo vedesse, ma sentiva le sue lacrime che le inzuppavano la camicetta. Ed era felice, stupidamente felice che si fosse aperta.

Quando l’abbracciò però si irrigidì. Non era abituata, non sapeva come comportarsi, capii. Aveva un corpo che poteva facilmente accettare il dolore, ma non la tenerezza. Le massaggiò la schiena finché non si rilassò, finché stanca per lo sforzo di raccontare non si addormentò.

Il giorno dopo non sembrò apparentemente essere cambiato nulla. Jamina riprese a tenersi a distanza. Però la osservava, lo sentiva, per studiare la sua reazione.

E a quanto pare non commise nessun errore perché a distanza di un bel po’ di tempo lei è ancora lì, a raccontare storie ai bambini.

Continua a guardarla senza che lei se accorga. Le piace pensare che stare con i bambini le faccia bene, che la aiuti a guarire, anche se comprende che non è certo sufficiente. Che probabilmente niente sarà mai sufficiente a ridargli quello che ha perso. Mentre per l’ennesima volta le viene voglia di uccidere, e non è sicura sia in senso figurato, la donna che le ha fatto questo, vede uno dei bambini cadere, e mettersi a piangere.

Trattiene il respiro, non sa davvero come Jamina potrebbe reagire. Le lacrime sono un’altra di quelle cose che ancora non comprende, che la mettono a disagio.

Uno dei momenti che si ricorda meglio di quella loro strana convivenza è il loro secondo bacio. Strano a dirsi ma quello più speciale fu il secondo, non il primo. Forse perché fu Jamina ha prendere l’iniziativa. Ad avvicinarsi volontariamente. Senza le lame in mano, come nel primo. Era incredibile come fossero sempre presenti. Era sicura che ci dormisse, anche.

Si era accorta di essersi innamorata il giorno in cui lei le aveva pianto sulla camicia, tra le sue braccia. E si era sentita molto in imbarazzo. Lei una donna di quasi trent’anni che s’innamora di una ragazzina neanche sedicenne. E neanche una ‘normale’, ma una dall’anima spezzata e incatenata a un passato dal quale non riesce a liberarsi. Ovviamente se l’era tenuto per sé. Non le sembrava proprio il caso di ‘traumatizzarla’ con una cosa del genere. E così aveva aspettato, facendo finta di niente.

Anche quando una sera l’aveva sentita urlare dalla sua stanza, era corsa a vedere cosa era successo e l’aveva trovata ancora addormentata, ma preda degli incubi. Le due lame strette al petto, bizzarra parodia di un peluche. Svegliandola, si era ritrovata a fissare i suoi occhi spalancati e pieni di un orrore indicibile, e un lungo taglio sulla guancia. Una lama sporca di sangue tra di loro. Non fece nessuna domanda.

Faccio incubi ogni notte, praticamente da quando mi ricordi. Per questo non ho bisogno di molte ore di sonno, sono abituata a dormire poco.

Sogno di quando ero là, all’istituto. Della volta in cui sono morte Haru e Jenna, della notte in cui il Suo compagno è venuto per la prima volta nella mia stanza, del giorno in cui ho versato il sangue di Lev.

Oppure di una delle volte che L'ho delusa, che non ho portato a termine il lavoro perché c’erano di mezzo dei bambini. Sento sulla schiena la frusta che disegna solchi profondi, sento le mie urla come venissero da un’altra persona, come se osservassi la scena dall’esterno. Poi sento il dolore, insopportabile quando Lei se ne va lasciandomi sul pavimento. Non riesco a muovermi, mi chiedo se è la volta buona, se sto per morire. Spero che sia la volta buona. Non ho neanche le lame con me. Mi sento nuda. E sola.

Oppure sogno del mio primo giorno di ‘lavoro’. Era stato facile. Nessuno sospetta mai dei bambini. Vengono lasciati avvicinare, così semplicemente. Dovrebbero essere piccoli e indifesi. Prede facili. Per questo Lei mi aveva addestrato.

Molte delle persone che ho ucciso nel corso del tempo erano persone cattive e meritavano la mia lama. Il primo no. Era un uomo gentile, e quando cercò di aiutarmi durante la recita che avevo costruito per lui, era sincero. Mi sentii sporca. Intimamente e profondamente. Di uno sporco che non può essere ripulito. E allo stesso tempo, quando smisi di mentirgli, pochi attimi prima che la lama calasse, mi sentii bene.

Fu quel giorno. Capii che tutta la mia vita sarebbe stata una menzogna. Sempre. Avrei mentito a Lei fingendo di non provare emozioni, di essere la perfetta macchina che aveva creato. E avrei mentito a tutti gli altri fingendo di provare emozioni che avevo studiato sui libri, ma che non mi raggiungevano.

Oppure sogno del giorno in cui Lei mi ha marchiata. Avevo sette anni. Da allora quel simbolo brucia sulla mia spalla. È davvero un bel disegno: rappresenta una lama, rappresenta me, circondata dai rovi e con una lama è stato inciso. Con una delle mie lame. La parte peggiore non fu affatto il dolore, ma come con il Suo compagno, fu sentire le Sue mani che accarezzavano la mia pelle, le mie lame. Il dolore fu solo una liberazione.

Ancora oggi non riesco a guardarlo. Lo detesto. Così come non riesco a guardarmi allo specchio. Tutti non hanno mai fatto altro che ripetermi quanto questo mio corpo sia bello. Per me non significa niente. È solo una maschera, l’unica maschera che non posso togliermi.

Dopo quell’episodio, dopo aver sentito il benessere che mi aveva procurato sentire la lama affondare, volli ritentare. Feci un esperimento e guardai il sangue che colava dai miei polsi e dalle lame. Non fu come quando era la frusta a farlo. Fu giusto. E fu bellissimo. Anche se dovetti iniziare sempre a girare con maglie a maniche lunghe. Smisi solo nel periodo di Lev.

Una volta provai a sfregiarmi il viso. Non sopportavo la gente che mi guardava, volevo diventare ripugnante così che nessuno avrebbe più osato posare lo sguardo su di me. Quando Lei lo vide si arrabbiò davvero molto. Chiamò guaritori da ogni parte, provò di tutto finché il taglio non scomparve. Non ci riprovai più. Non aveva senso.

Un altro sogno che faccio spesso, e che non è proprio un incubo riguarda un ragazzo che incontrai quando lavoravo nel bordello. Me lo ricordo perché era diverso dagli altri clienti. Veniva una volta al mese e spesso soltanto per parlare con me. O meglio, lui parlava ed io ascoltavo. Scoprii che apparteneva ad una famiglia importante, che si sentiva schiacciato dalle responsabilità, dalle aspettative che il padre riversava su di lui. Ed io partecipavo alla sua sofferenza pur non dicendo nulla. La comprendevo forse meglio di chiunque altro. Fui felice che non fosse presente quando me ne andai. Ucciderlo mi avrebbe ferita.

Ma il sogno che faccio più di frequente è quello di un viso, il viso di una giovane donna. In lacrime. Quando stringo le lame al petto come fossero l’unica salvezza, l’unica ancora che mi trattenga dall’annegare nella follia, vedo il suo volto. E piange. Sempre. Non so chi sia. So solo che vorrei che smettesse di piangere. E che è colpa mia se piange. Una volta mi ritrovai anche a sussurrare una parola, una semplice di quelle che si dovrebbero imparare subito da piccoli “Mamma”.

Jamina tacque. Cercò di assimilare tutto ciò che le aveva detto. Poi vide quei suoi occhi distrutti che stillano lacrime perlacee. Più percepiva la devastazione che la dominava, più le sembrava meravigliosa. Sentì il desiderio di baciarla forte come non l’aveva mai sentito e quanto in quel momento fosse fuori luogo. Si controllò, non era certo il momento giusto, se mai ce ne sarebbe stato uno, e l’abbracciò. E per un attimo, solo per un attimo, lei si abbandonò all’abbraccio. Poi si sottrasse. Le chiese di andarsene. La vide mentre rimetteva le lame sotto il cuscino. Aveva ragione, ci dormiva. Ma non le dava gioia.

Sarebbero serviti altri tre anni prima che il momento giusto giungesse. Fu una volta in giardino. Era andata a guardarla allenarsi. La facevo spesso, senza farsi vedere. Quella volta fece un passo falso, un rumore e lei se ne accorse. Bloccata a metà di un esercizio la guardò. Sembrava imbarazzata. Ed era adorabile. Ci fu solo un attimo di esitazione, prima che cercasse di fuggire, ma fu sufficiente perché l’afferrasse per il polso e finalmente congiungesse la loro labbra. Fu solo uno sfioramento, leggero come un soffio di vento. Poi lei si liberò e scappò in mezzo alla boscaglia che circondava la casa.

Non la rivide per i cinque giorni successivi. Finché d’un tratto non ricomparve nella biblioteca, mentre era immersa nella lettura di un libro. Rimase immobile, temendo di spaventarla con qualche movimento brusco, solo osservandola.

Si avvicinava guardinga. Stupita, la vide arrivarle davanti, chinarsi lentamente verso di lei. E baciarla, un bacio leggero come il precedente. Per restare, dopo, l’impalata esitante a studiare le sue mosse. Con negli occhi solo il desiderio di scomparire e nessuna lama pronta, a portata di mano. Le aveva abbandonate. Per la prima volta. Sentì un moto d’orgoglio.

E pianse. Pianse silenziosamente di gioia. Ma Jamina vide le lacrime e fraintese. Le si adombrò il viso, e a capo chino, con gli occhi pericolosamente lucidi, si avviò verso l’uscita. Accortasi del suo errore la richiamò. Le domandò perché se ne stesse andando.

“Le persone piangono quando soffrono o quando sono tristi.- un attimo di esitazione.- E se sono deboli.”

Sembrava una lezione imparata a memoria.

“Chi è stato a dirtelo?”

“Jenna.”

“Raccontami.”

Avevo cinque anni. Successe pochi giorni prima che morisse. La trovai in bagno che piangeva. Mi avvicinai incuriosita, non sapevo cosa fossero quelle gocce d’acqua limpida che le colavano sulla faccia. Ne presi una tra le mani e l’assaggiai. Era strana, salata. La guardai in attesa di una qualche spiegazione a quel bizzarro fenomeno. Mi disse che erano lacrime, che la gente normale piange, più o meno spesso, quando si sente triste, o sta soffrendo fisicamente o spiritualmente. Le donne di solito più spesso.

Sai Jenna era una persona molto triste. Ancora giovane aveva perso il marito e i tre figli, e non si era più ripresa. Credo che avrei dovuto sentirmi triste anch’io, partecipare al suo dolore. In fondo era la donna che mi stava crescendo. Al tempo avevo visto ben poco del mondo esterno, fuori dall’istituto, ma avevo notato che quando accadeva qualcosa di triste tutti erano tristi, o si mostravano tali. Ero ancora troppo piccola e inesperta per avere chiara la differenza.

Mi disse anche che lame che portavo ai fianchi servivano proprio a quello, a far soffrire le persone. A farle piangere. Non abbassai lo sguardo, non capivo se fosse o meno un male.

Anche il ragazzo che frequentava il bordello piangeva qualche volta. Durante tutto il periodo in cui ci incontrammo, io non gli rivolsi mai la parola, ma lui sembrava sempre sapere quando c’era qualcosa che avrei voluto domandargli.

E rispose che piangeva perché era un debole, come suo padre non mancava mai di ricordargli. In quelle occasioni appoggiava la testa sul mio grembo e spesso mi raccontava episodi della sua infanzia. Io cercavo di assimilare il più possibile di ciò che diceva Forse avrei dovuto accarezzargli la testa o qualcosa del genere, ma non lo feci mai. Si sentivo già abbastanza a disagio. Pensai solo che forse se avessi ucciso il padre con quelle lame che Jenna diceva facevano piangere, lui si sarebbe sentito meglio.

L’unico cui invece domandai perché io non piangessi mai, perché io non fossi in grado di farlo, fu Lev. Lui però non mi rispose. Solo, prima fissò me con occhi tanto addolorati da costringermi per una volta ad abbassare i miei, e poi le lame. Non c’era necessità di parole, conoscevo già da sola la risposta. Jenna aveva detto che le persone ‘normali’ piangono. Ed io non lo ero. Semplice e terribile.

Più che mai prima di allora Jamina le era sembrata una bambina tanto quanto in quel frangente. E come ad una bambina le spiegò che le persone posso piangere anche per altri motivi. D’orgoglio, di soddisfazione. Di gioia.

Lei non risultò particolarmente convinta, ma non fece obiezioni. Non che prima ne avesse mai fatte.

E ora continua ad osservarla, curiosa di vedere cosa farà. Come affronterà la nuova situazione. La vede impacciata dire al bambino di andare da lei, medicare la piccola ferita che si era procurato al ginocchio. Irrigidirsi quando lui le si butta addosso. Per poi rilassarsi impercettibilmente e ricambiare il suo piccolo abbraccio, in maniera molto goffa. Lei che poteva vantare una fluidità nei movimenti da far invidia a uno di quegli stupendi felini che si vedono dei documentari.

Sorrise. Di nuovo. Prima di vedere il loro vicino di casa avvicinarsi, alle sue spalle. Toccargliele. E Jamina scattare. Quelle maledette lame in mano. Sempre.

 

 

Inutili note dell'autrice

Siamo alla fine. Vi faccio i miei complimenti se siete arrivati fino in fondo.

Ringrazio chi legge e sarei davvero grata se qualcuno perdesse un minutino a commentare.Sse non lo farete però non fa niente. Potete anche consigliarmi di darmi all'ippica se volete. Seguire o no il consiglio sarà a mia discrezione.

Alla prossima, se ci sarà. ^_^

Sotto i giudizi di:

 

Hiko_Madara
 

Originalità: 8/10 

Utilizzo della parola: 5/5 

Stile: 8/10 

Lessico e grammatica: 5/5 

IC (caratterizzazione del personaggio): 4/5 

Gradimento personale: 4/5


Ottimo utilizzo del pairing in quanto esse ( le lame ) appaiono molto e con un ruolo fondamentale nella storia. Mi piace lo stile in quanto riesci a far venire quell'ansia che ti tiene incollata fino alla fine del racconto per vedere come va a finire. Grammatica perfetta e lessico più che adeguato non troppo pesante e per niente da gasata ( e per questo ti ringrazio) con parolone solo per fare la figa . All'ic non posso darti il massimo in quanto, secondo me, potevi spiegare di più le caratteristiche dei personaggi in generale, sopratutto della principale, che devo ammettere mi è piaciuta tantissimo. Comunque sia, brava, davvero e non vedo l'ora di leggere altre tue storie v.v Ahn, al gradimento personale non ti ho dato il massimo perchè sono stronza ( un pochino ) e difficilmente accetto a pieno una storia, quindi considerati fortunata perchè quattro su cinque dato da me è veramente tanto *-* 



Namine22

Originalità                                         9/10
Stile                                                    9/10
Lessico e grammatica                     3/5
IC                                                        5/5
Utilizzo parola                                  5/5
Gradimento personale                   4/5
 
Extra: +10 shoujo ai
TOTALE: 35/40
 
Parere di Namine:
Quanto sono contente che ti sei iscritta! E’ una storia che mi è piaciuta molto, anche se perde tanti punti a causa di una struttura e di una grammatica decisamente poco efficaci. Ho notato molti errori di battitura, che però non ho considerato (anche perché hai detto di non averla potuta rileggere). Tuttavia hai fatto anche parecchi errori grammaticali di cui uno salta particolarmente all’occhio e te lo dico così d’ora in poi potrai correggerti, se vorrai: “e” è una congiunzione, come ben saprai, che collega una frase principale ad una subordinata e dunque è scorretto inserirla subito dopo di un punto fermo. Questo errore lo fanno in tanti, spesso perché, con l’abitudine di ascoltare gli anime, è facile confondere una semplice intonazione d’effetto con una regola grammaticale. Hai sbagliato anche il tempo nel primo blocco di ricordi di J. (in una parte hai usato il presente, nell’altra – in maniera a mio parere più adeguata- il passato). A parte questo ho apprezzato molto l’IC e lo stile che, per quanto acerbo, rende già molto. Il prompt è stato usato perfettamente, tanto che risulta fondamentale per la comprensione della storia quindi nulla da ridire su questo. Comunque sia, per me sei stata bravissima ;), peccato solo per gli errori!
PS: stai attenta anche all’impostazione della pagina: spesso un interlinea doppio piuttosto che un semplice accapo può giocare tanto sulla comprensione dell’intera storia.

 


Seconda classificata

Yami

Requiem per una lama

-Correttezza grammaticale, ortografica e morfo-sintattica: 9,3/10
-Stile narrativo: 7,5/10
-Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
-Trama e sviluppo della storia: 8,5/10
-Originalità: 10/10
-Attinenza al bando (drammaticità): 10/10
-Gradimento personale: 5/5
 
Per un totale di 60,3 punti"Requiem per una lama" è una storia davvero splendida. Inizio così perché la prima reazione che ho avuto alla fine della lettura, oltre alle lacrime che mi rigavano le guance, è stata quella di un più completo e totale stupore.
Ho pensato molto al motivo per cui questa storia mi è piaciuta così tanto: non si tratta solo di una reazione a pelle, ma ci sono molte ragioni alle spalle. Comincerò con la ragione principale: Jamina. E' unica, fantastica, incredibile. Il lavoro che sta dietro alla caratterizzazione dei personaggi è profondissimo e incredibilmente accurato: in entrambi i momenti della narrazione l'identificazione con la protagonista è la più completa e totale. Non si può non amarla: il dolore che prova nell'uccidere ma al contempo la necessità, la continua presenza delle lame, parte di lei più di qualunque altra cosa, le violenze che è costretta a subire. Anche la "Lei" di cui si parla, nonostante rimanga soltanto un'ombra, non è mai una presenza marginale, ma è più che mai viva e inquietante nel ricordo di Jamina, che continua a dipendere da lei. L'altra "lei", la donna innamorata di Jamina, è l'antitesi della "Lei" precedentemente citata, così dolce e materna nel suo delicato sentimento.
Una tale attenzione nella caratterizzazione dei personaggi non può che premiare l'elemento fondante del contest, ovvero la drammaticità. Questo racconto è fortemente crudele, straziante e doloroso: i temi che affronta l'autrice sono delicati e difficili da affrontare, ma non c'è mai una caduta nella banalità. La trattazione di argomenti come la pedofilia, l'autolesionismo e la prostituzione è sempre seria e attenta, con descrizioni anche particolareggiate che però non si trasformano mai in un'esplosione di violenza gratuita. Ogni lacrima e ogni taglio hanno una giustificazione ben radicata, fondata sul forte conflitto della protagonista e della difficile accettazione di se stessa, il rapporto con il suo corpo e in particolare con le lame.
L’originalità non può che essere massima: non ho mai letto niente del genere né nell’ambito del femslash né nell’ambito del fantasy (genere che non amo molto). Hai sviluppato la trama in modo brillante e l’hai caratterizzata con molti elementi personali, rendendo questa storia un vero gioiello. Il finale è aperto, si capisce che un lieto fine è impossibile e non si può che simpatizzare con Jamima per l’ennesima volta. Trovate di questo tipo sono una vera ventata d’aria fresca.
L’unico problema che ho rilevato è lo stile, che ho trovato veramente troppo spezzato. Il lettore è costretto a fare più pause del necessario e ciò disturba fortemente la lettura, purtroppo. Abbassarti così tanto il punteggio mi è dispiaciuto molto, poiché ritengo la tua storia di livello altissimo, tuttavia lo stile, a mio parere (ma è un’opinione abbastanza condivisa), è molte volte il vero discriminante della qualità letteraria. Il tuo stile è asciutto, una caratteristica di per sé positiva, ma alcuni periodi risultano troppo brevi, privi di quella fluidità che accompagna il lettore fino alla fine del testo senza stancarsi.
Le imprecisioni formali sono poche, parzialmente legate ai periodi spezzati: infatti, troviamo alcune subordinate senza la loro proposizione principale, costituendo errori sintattici. C’è un verbo avere privo della consonante “h”, alcuni errori nella punteggiatura dei dialoghi e un errore di consecutio temporum: per il resto la grammatica è ottima, complimenti!
  
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