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Autore: Kokky    04/08/2011    1 recensioni
Luigi e Edo sono amici per la pelle, ma uno screzio nato quasi per caso li divide. Luigi si sente in colpa, anche per aver mentito tutta la vita sulla sua sessualità. Ed è difficile tirare avanti senza il suo amico...
Una menzogna può essere l’inizio di tutto. Una bugia può rosicchiarti dall’interno fino a svuotarti e può rendere dolorosa, quando meno te l’aspetti, un’amicizia.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I can see you crystal clear
 
 
Sabato notte, discoteca. Vedete questa massa danzante e sudaticcia? Bene, superatela con lo sguardo: lì in fondo alla sala, su un divanetto di finta pelle nera, c’è un gruppo di ragazzi. No, non sono quello col Blood Mary in mano, né quello che sembra aver annegato il proprio cervello nella vodka. Un po’ più a sinistra, accanto a quell’essere belluino e oscuro che ricorda un toro da monta.
Eccomi, un ragazzo qualunque, di una normalità che sfiora quasi il banale; castano, media statura, maglietta grigia. Ave Cesare.
Sì, non sono al massimo della gioia. Praticamente mi hanno trascinato qui con la forza, con tanto di minacce poco velate e pedate nel sedere. Per salvare il salvabile, agguanto il cellulare e ricerco un conforto virtuale con un messaggio:
A: Edo
Oggetto: Ohi, che fai? Io mi ritrovo a sguazzare nell’ambiente più letale e ostile della Terra (non è una biblioteca). Probabilmente agonizzerò per mancanza d’ossigeno. È stato bello averti come amico.
Ho una vena melodrammatica molto sviluppata (se non si fosse notato). Quasi mi diverto a soffrire, per il semplice gusto di sbandierarlo ai quattro venti. In realtà, comunque, sono un tipo allegro... e nel mio habitat naturale, che non comprende discoteche, sono anche simpatico.
Aspetto inutilmente che Edo mi risponda... non oso immaginare cosa stia facendo, conoscendo il soggetto. Per inciso, Edo è ufficiosamente il vicino di casa con cui ho condiviso tutta la mia vita fino all’adolescenza, e ufficialmente il mio migliore amico.
Gioco con il cellulare, facendolo saltare fra le mie mani. Alzo lo sguardo verso la folla gioiosa e frenetica: per un attimo mi sento spaesato, più di quanto non abbia ironizzato fino ad’ora, inadatto a questa febbrile vita che mi circonda. Solamente per un istante, mi sento solo, aspettando che Edo mi risollevi il morale e la serata; che mi aiuti, come sempre, con un suo ciarliero “mi chiedi come va? Mi sto spaccando dalle risate”.
Ma è un attimo, di quelli così rapidi da passare senza lasciare cicatrici, e subito mi sento chiamare.
«Luigi?», sì, esatto questo è il mio nome. Piacere.
È arrivato lui, il Vendicatore, il Distruttore, la mia condanna. Colui che mi ha trascinato qui. «Non ballo».
«Ma bevi. Forza! Andiamo a prendere qualcosa!», e come dirgli di no, quando il suo sorriso potrebbe spingere le pietre a fare harakiri, facendole tuffare in mare, o il sole a ballare la samba con la luna?
Emh. Dicevo... lo seguo con uno sbuffo rassegnato.
In fondo, cosa sarà mai farsi una bella e sana bevuta?
 
Uno schifo.
Ovviamente, avrei dovuto immaginare che ne sarei uscito distrutto. E stavolta non sto esagerando per amor di teatralità; mi sento davvero male, ho un’emicrania da spaccare i neuroni a suon di fitte, la lingua impastata, la gola riarsa, un dolore lancinante alla schiena e... un peso sul petto.
Spalanco gli occhi, mentre un dubbio mi assale. Piego il collo e inclino la testa per poter guardarmi il torace. Un braccio – umano – è avvinghiato alla mia pancia.
Umh, interessante. Ieri notte dev’esserlo stata, almeno.
Sospirando, mi rotolo su un fianco e cerco il cellulare sul comodino. 5 nuovi messaggi: o hanno sbagliato numero, o è successo qualcosa.
Sono tutti di Edo.               
  1. Sono con una figa che non ti dico, sai che gambe! Non dirmi che anche tu te la stai spassando... conoscendoti, letale sta a normale come Luigi sta a giovane ventenne italiano.  (01:32)
  2. Non tenermi sulle spine: sei in un pub? Disco? Stai limonando e non vuoi rispondermi? Ahòò. (2.15)
  3. Ti sei imboscato con qualcuno e non vuoi dirmelo. Tratti in questo modo il tuo amico di sempre, quello che ti ha raccontato tutti i dettagli più succulenti? Non si fa così. (2.47)
  4. Stavo scherzando. Lù, sei ancora vivo? Se vuoi mi metto la tuta da Superman e volo a salvarti. Ho con me una bombola d’ossigeno. (3.46)
  5. Terra chiama Luigi. Edo inizia a preoccuparsi. Non eri tu quello afflitto da sms-mania compulsiva? Dov’è finito il pollice opponibile più veloce del profondo Sud? (5.33)
Sogghigno, sentendomi un po’ in errore. Poi mi rigiro, guardando chi mi sta accanto. Una fitta acuta e improvvisa mi attraversa tutto. Quello che si chiama senso di colpa mi dà il capogiro.
Una menzogna può essere l’inizio di tutto. Una bugia può rosicchiarti dall’interno fino a svuotarti e può rendere dolorosa, quando meno te l’aspetti, un’amicizia. Così, sotto tutti i convenevoli, mi sento colto in fallo.
Perché chi mi è accanto è un giovane, affascinante uomo addormentato e io sono il bugiardo che mente da una vita a chi ha di più importante.
 
Sono nato vent’anni fa da una tipica coppia italiana: lei, un po’ grassoccia, dalla voce ciarliera che bolle come la lava in un vulcano, querula e indiscutibilmente cattolica (almeno le domeniche); lui, pingue e pelato, fanatico della squadra di calcio della sua cittadina, fumatore incallito che si sente ancora giovane quando al bar la cameriera gli ammicca. Il tutto condito da una famiglia invadente, ingombrante e vociante, oltre che iperprotettiva.
La mia vita è sempre stata ristretta dalle braccia amorose (diciamo soffocanti) dei miei parenti, pronti a guarirmi le ginocchia sbucciate da bimbo o a prepararmi i miei piatti preferiti se andavo male a scuola, per consolarmi e rincuorarmi. Ogni mio passo è stato seguito, controllato, registrato, applaudito.
Li amo, è inutile negarlo, ma d’altra parte è difficile resistere così, crescere per davvero, con le proprie forze, e diventare qualcuno. Soprattutto, è quasi doloroso nascondersi dietro un sorriso, mentire quotidianamente a tutti loro.
Sono scappato via due anni fa. Nessuno ha mai scoperto il sollievo di trasferirmi per andare all’università, né ha immaginato come mi senta meglio qui, dove i miei familiari non possono vedermi. Sono indubbiamente più sereno – ma rimango un codardo di prima categoria.
L’unica mia valvola di sfogo è stata Edo, per molti anni. Eravamo inseparabili: da bravi vicini di casa, da bimbi giocavamo a pallone in strada, intrufolandoci in cortili e campetti abbandonati; poi, abbiamo incominciato a uscire insieme, con la stessa comitiva, e ogni estate ci siamo ritrovati nello stesso lido, a nuotare per rinfrescarci dalla calura; e abbiamo frequentato lo stesso liceo, l’uno il compagno dell’altro, ridendo e scherzando allegramente. Tuttora ci sentiamo ogni giorno col telefonino.
Lui... lui non sa di me. Come tutti gli altri. Nonostante questo, però, è il mio amico più importante: è sempre stato con me quando avevo voglia di sfuggire ai miei genitori, quando volevo vagare per strada senza una meta o bere qualcosa per dimenticare un piccolo litigio familiare; c’era e c’è ancora.
Per un certo tempo ho creduto di amarlo. Realmente. Poi ho preferito rinunciare a qualsiasi pretesa sessuale, per il semplice fatto che avrei rovinato tutto... e non avrei potuto rivelarmi nella mia cittadina. Ho mentito per tutti questi anni e così ancora ora, pur essendo felice della mia vita, soddisfatto e orgoglioso di ciò che provo, di chi sento attratto, di chi amo... ecco, pur essendo contento, questa mia felicità è all’oscuro di una parte di me. È scevra, recisa dal me che loro amano.
E di questo non posso perdonarmi, anche se continuerò a farlo.
 
Stringo il cellulare nella mano sinistra. Sospiro piano, mentre il dormiente si muove accanto a me, ritraendo il braccio. Cosa scrivere a Edo?
Buongiorno! Guarda, ti dico soltanto che ho qualcuno accanto a me...
No, magari potrebbe incominciare ad indagare. Meglio fingersi un eunuco. Qualcosa tipo:
‘giorno. Ieri ho inspiegabilmente perso la capacità di vomitar parole. Mi scuso per l’inconveniente, ma la Treccani sta lavorando per aggiornare il mio vocabolario personale.
Mi strizzo le palpebre con le dita. No, non va bene... un’inquietudine di fondo, quella che poco prima mi ha colto, ritorna a prendermi.
Cosa dovrei dirgli, che ieri ho incontrato uno e me lo sono portato a letto?
Non mi va di fare lo spiritoso, così gli invio la prima scemenza che mi passa per la testa.
Ho dimenticato di controllare il cellulare. Sono ancora vivo, comunque, e del tutto integro, non c’è bisogno di fare così.
Lancio il telefono sul comodino, chiudendo gli occhi.
«Certo che lo tratti proprio bene», biascica una voce alla mia destra.
Sobbalzo dalla sorpresa e mi volto: guardo attentamente per la prima volta lo sconosciuto della notte precedente; non ricordo il suo viso, probabilmente l’alcol ha minato la mia memoria. È un ragazzo davvero giovane, ancora più di me, dal naso sottile a punta, gli occhi acquosi e sorridenti, i capelli biondastri e mossi; paffutello e alto, dalle dita lunghe e lisce.
Mi sono ritrovato un cherubino fra le mutande e non lo sapevo. Dio.
«Beh, almeno io posso dire di avere la maturità di poter lanciare cellulari per aria. Tu, invece, mi sembri eccessivamente giovane per dare consigli».
Sorride che è una meraviglia. Non che sia bellissimo, anzi, il suo volto è un po’ irregolare e il suo sguardo sembra sfocato, incerto, ma ha un ché di dolcemente affascinante.
«I tuoi genitori sanno che ti sei infilato impropriamente nel mio letto e hai forzato la mia virilità?», continuo, ignorando il suono dei messaggi che arriva dal mio telefono.
«Vivo da solo, fortunatamente, e direi che non sono stato io a forzarti. Comunque si è fatto tardi, vado», sogghigna e sembra ben meno angelico. Scivola da sotto le lenzuola e agguanta degli occhiali, inforcandoli velocemente. Ecco spiegato il suo sguardo languido.
Lo saluto con un cenno della mano, non chiedendo neanche come si chiama, e mi allungo verso il telefonino.
E dire che io mi preoccupavo per te... non mi sembri granché scalfito e io, invece, ho continuato ad arrovellarmi per tutta la notte. Mah.
Ditemi che non è vero, si è offeso? Sbuffo e lancio nuovamente il cellulare, girandogli le spalle. Non ho voglia di replicare e lascio che sia il silenzio a risolvere le mie questioni.
 
Sono nervoso senza motivo. Probabilmente è l’idea di non aver risposto a Edo per la prima volta nella mia vita.
E, per la millesima volta, prendo il cellulare in mano. Passo il pollice sulla tastiera consumata, pensando a qualcosa che possa chiarificare la situazione. Magari il sacrificio di un agnello, il dono di una goccia del mio sangue... la teatralità è tornata a regnare.
Riprendo la serietà troppo tardi: lo schermo si illumina e il solito suono mi segnala l’arrivo di un sms.
Forse è Dio che mi ordina di smetterla.
A parte gli scherzi, apro il messaggio.
Luigi, che fine hai fatto? Perché non mi hai risposto, allora non te ne frega niente?
Che diamin- ma cosa gli è preso, tutto a un tratto? Perché queste parole accusatorie, così inaspettate da un tipo come lui?
Non c’è bisogno di scaldarsi, Edo... non è successo assolutamente nulla, semplicemente non avevo voglia di risponderti.
Aspetto quasi fremendo che mi risponda, ma non lo fa. Inspiro, espiro e sbotto con un urlo nevrotico. Quel... quell’Edoardo.
Compongo il suo numero in un soffio, senza doverlo cercare sulla rubrica elettronica, e aspetto che accetti la mia chiamata. Mentre il mio telefono risuona di un tu-tu ritmato, mi rendo conto che la mia incertezza e malcelata scontentezza nel rispondergli è dovuta alla mia menzogna primigenia. Non volevo scrivergli perché mi sento in colpa nei suoi confronti, più che per tutti gli altri. Tuttavia, sento che la mia amicizia sarebbe ancor più danneggiata da una mia eventuale rivelazione, così continuo a mentire per salvare questo minimo di rapporto a distanza.
«Lù», la sua voce suona arrabbiata.
«Ohi, ciao», sussurro col fiato mozzo. Cristo, qualcuno dovrebbe insegnarmi ad affrontare la realtà a testa alta.
«Mh», commenta molto eloquentemente.
«Edo, io...»
«È inutile che beli come un agnello spaurito», ha per caso intuito la mia idea di sacrificarne uno sull’altare del Perdono?, «tanto lo so che ti sei stancato di me... che hai trovato degli amici con cui parlare di tutto quello che ti passa per la testa – e poi, sì, io alla fine sono rimasto qui, in questo sputo di città», Edo è partito in quarta, che qualcuno lo fermi, per carità, «sono qui a fossilizzarmi in questo bar di periferia e tu ti sarai circondato di amici più simili a te, con tanti interessi comuni ai tuoi», quali interessi? Mi trattengo civilmente dal rispondere, «avrai iniziato a pensare che sono un peso, una zavorra inutile e... forse è così».
Eh? Cosa? Aspetta, fai dietrofront, non ho capito bene. «Edo?», lo invoco quasi.
«Anche io sento che, a volte, non è la stessa cosa. Sei lontano, dai, sei dannatamente lontano e hai una tua vita. E io ho la mia», borbotta ancora.
«Ma che cazzo sei scemo?», dico naturalmente, senza pensarci. Non avevo neanche lontanamente immaginato che potesse avere tutte queste paturnie in testa, né che se le fosse tenute per sé per chissà quanto tempo. Edo è uno che parla chiaramente, senza preoccuparsi di ferire o insultare le persone; un ragazzo che non cela mai nulla, neanche quando fa qualche idiozia. Ecco perché mi sembra assurdo tutto quel discorso sbucato fuori dal niente: sicuramente ci ha pensato da un bel po’, tenendomi all’oscuro.
«C-cosa?», balbetta.
«Dai, ma sei coglione? Cos’è questa storia? Ho una mia vita? Certo che ne ho una, mi sembra logico averne una, abito in un’altra città da due anni, vado all’università e incontro gente. Dovrei iniziarmi a preoccupare se non fosse così. È perfettamente normale che io abbia altri amici», un respiro profondo, «e che esca con altri e tutto il resto. Questo non vuol dire che devi iniziare a pensare di essere inutile. Né... dai, insomma», non mi vengono le parole, maledizione!
Edo respira forte, lo sento affannarsi.
Cosa posso dirgli? Di nuovo una fitta fastidiosa mi trapassa la schiena; so cos’è, è quell’odiosa sensazione di non dire tutta la verità a chi merita di sentirla.
«Grazie, sei stato davvero illuminante», mi precede Edo. «Grazie tante, davvero, sbattermi la verità dei fatti in faccia è molto consolatorio. Sei gentilissimo nel tuo amore del dettaglio. Amici, università, una tua vita... più che regolare, anche io ne ho una. Anzi, proprio per questo è da qualche mese che mi preoccupo... ho paura di lasciarti in disparte, di dimenticarti. Sei andato via e in questi due anni ti ho visto sì e no due mesi, dopo diciotto anni passati insieme... tutta la nostra vita, praticamente. E ora sei tu, invece, a voltarmi le spalle?»
«Sei stato tu che fino a un momento fa mi hai detto di essere un peso e ora ti lamenti se ribadisco il vero?»
«Magari sono davvero un coglione, come hai detto tu. Magari è meglio finirla qui».
«Finire cosa? Lo sai che questo è un litigio da innamorati? Non ti riconosco più, davvero», annaspo.
«La nostra amicizia, cretino».
E mi chiude il telefono in faccia, risucchiando con sé tutta la mia forza di ribattere.
 
Vi sembrerò davvero un cretino – probabilmente lo sono –, ma ancora non ho ben capito cos’è successo.
Ricapitolando, io sono in torto perché sono un:
  1. Coglione;
  2. Codardo e vigliacco di prima categoria che finge e per questo si sente in colpa e allora alla fine il sistema collassa e qualcuno ci rimette qualcosa;
  3. Ho bisogno di respirare dopo il punto b;
  4. Un essere amorfo che non merita l’amicizia di Edo.
Direi che tutti quanti i punti sono adatti a descrivere la mia situazione. Mi rendo conto che sono finito qui grazie alla mia scelta inespugnabile di non dire nulla ai miei, né agli altri familiari e amici, sulla mia sessualità. È una cosa che semplicemente non posso fare.
Però questo ha compromesso il delicato equilibrio fra me e Edo. E dire che lui è la mia ancora di salvezza in occasioni drammatiche come questa... lui mi dà consigli, lui ascolta le mie lamentele, lui ci ride sopra, lui mi fa prendere coscienza di me.
Come potrò fare senza Edoardo?
Mi passo una mano sugli occhi, sospirando, e decido che è meglio affogare i propri problemi nell’alcol. C’è il rischio che essi risorgano mostruosamente più forti di prima e pronti ad avvinghiarsi alla mia gola, ma quel che sarà sarà.
Infilo il giubbotto, mi attorciglio una sciarpa attorno al collo ed esco.
 
Un momento di lucidità mi coglie: sono avvinghiato a un torace sodo e asciutto, la mia mente è confusa e le mie gambe molli.
«Sei pesante e fastidioso, lo sai?», annuncia una voce sopra di me.
«Sono anche ubriaco, ho una scusante... e devo mandare un sms», ciarlo torvamente, tastando le tasche del giubbotto alla ricerca del cellulare.
Il ragazzo a cui sono aggrappato sospira bonariamente. «Ti incontro due volte in due giorni e ti ritrovo sempre con un tasso alcolico nel sangue da far paura agli alcolisti anonimi... a proposito, c’è una riunione stasera a tre isolati da qui, forse dovresti farci un salto, non credi?»
Mi blocco con il telefonino in mano. Alzo lo sguardo annebbiato verso il mio interlocutore, investito da quella marea di parole in rapida sequenza. Il mio cervello non può sostenere l’alcol e un discorso di senso compiuto nello stesso istante.
«Eh?», sussurro, riconoscendo il suo volto. Quel naso a punta e quei bei capelli biondi... «Oh sei tu. Certo che... faccio sempre una figura di cacca con te. Ti sei messo d’accordo con qualcuno per cogliermi nei momenti più imbarazzanti?», e per dire ciò ho spremuto al massimo le mie meningi.
«Veramente sei tu che mi salti addosso ogni volta che mi vedi. Dovrò munirmi di protezione anti-stupro».
«Ti sento risentito, ho fatto cilecca ieri sera?», gorgoglio quasi senza più ragionare. Il telefonino mi cade dalla mano e il messaggio per Edo viene cancellato dalla mia mente.
I suoi occhi lampeggiano sotto le lenti. «Umh, non esattamente», mormora ghignando, mentre avvicina il suo volto al mio.
E un’altra volta dimentico.
 
È passato un mese da quella litigata.
Avrei dovuto battere il ferro finché era caldo, cioè chiedere scusa a Edo sin da subito. Invece, quella sera sono finito a far tutt’altro e la mattina dopo mi sono sentito uno schifo. Ho sfogato la mia rabbia con Federico (il biondo), invece di lasciarla covare nel mio animo per portare a un mio cambiamento e rinsavimento.
Così la mia amicizia sembra essere andata all’Inferno, senza tanti crismi né perché. Ancora non capisco, ecco tutto.
Allungo le gambe sulle lenzuola pulite, spalancando gli occhi. Federico mi dorme accanto, supino.
Mi alzo cercando di non far rumore.
«Dove vai?», sussurra volgendosi verso di me.
«Sei sveglio, allora. Ti ricordi che giorno è oggi? Torno nella mia città natale per le vacanze invernali», lo informo.
«Ah. Secondo me Edo ti aspetta con una lupara», inutile dire che gli ho spiegato tutto. Con qualcuno dovevo pur sfogarmi, non avendo il mio migliore amico.
«Guarda che non tutti i siciliani sono mafiosi», ribatto tranquillamente. Ormai sono avvezzo a commenti del genere anche dalle persone più insospettabili.
«Oh, sì, ne sono convinto... ma la lupara dà quel tocco di romanticismo che è essenziale in un delitto d’amore».
Sempre ironico, Federico. È quasi migliore di me. Sorrido sofficemente. «Allora devo aspettarmi che tu mi insegua per gelosia? Non vorrai per caso uccidere Edo a suon di frecce?»
«Scemo. Guarda che ti aspetto», borbotta lui, alzandosi e baciandomi leggermente.
Sarei molto più felice se non fossi preoccupato per Edo. Effettivamente non so cosa aspettarmi da lui.
 
Niente. Ovviamente niente.
Sono qui da tre giorni e non si è fatto sentire, pur sapendo del mio arrivo. Andiamo, è impossibile che non lo sappia: i suoi genitori sono i vicini dei miei; la mia città è abbastanza piccola da avere ben poche notizie da riferire, quindi l’avvento di uno studente fuori sede crea sempre scompiglio; e, come se non bastasse, Edo era affacciato al suo balcone quando sono sceso dalla macchina e sono entrato a casa mia.
Quel ragazzo mi farà impazzire, ormai è chiaro come il sole.
Armato di coraggio, mi alzo dalla poltrona del salotto – che è stata la mia dimora in questi tre giorni di pigrizia assoluta – e indosso il giubbotto.
«Luiggggi!», mia madre si fa sentire dalla cucina. Il suo orecchio deve aver percepito il mio spostamento sospetto e carico di intenzioni sovversive (quando mai?).
«Sì?», mi affaccio in cucina con un sorriso smagliante, cercando invano di rassomigliare a un modello da rivista platinata.
Mamma si volta con il suo sguardo indagatore e osserva il mio vestiario. Orrore! Non ho le pantofole, bensì le scarpe! «Dove stai andando?»
Secondo te? Sulla Luna. «Emh... vorrei, sì, insomma io...»
«Una ragazza?»
Eccola. I suoi occhi s’assottigliano, provando a scrutare la verità. Cosa potrà mai leggere nel mio sorriso forzato ed ebete? «Non esattamente».
«Edoardo».
«Brava. Esatto! Devo andare a trovarlo, è una cosa urgente, una questione di vita o di morte».
«Sai che fra meno di un’ora inizieranno ad arrivare i parenti per la cena della Vigilia? Sai che ti dovrai trovare vicino alla porta di casa, pronto ad accoglierli affettuosamente, a posare le loro giacche sul letto matrimoniale, ad abbracciare le cuginette e i cuginetti?», una minaccia velata si eleva dalla sua bocca.
Preferirei spararmi alle palle, ma non oso proferir parola alcuna.
Mia madre mi fissa ancora. «Bene, vedo che sudi freddo. Puoi andare».
«Gr-grazie» e scappo via alla velocità della luce.
 
Edo a casa non c’è. Edo non è lì. Edo non esist- Edo, dove diamine sei?
Corro per le strade della città di cui conosco ogni angolo, cercando con gli occhi la sua testa scura e le sue spalle spioventi.
Possibile che si sia nascosto? E dove?
Mi fermo un istante, troppo stanco per continuare. Cammino un altro poco, lentamente, e infine lo vedo: è dentro a un bar, con un analcolico in mano e lo sguardo più sconsolato che abbia mai visto.
Quasi sorrido. Mi rendo conto di quanto sia stato stupido litigare – per cosa, poi? Perché avevamo paura? – e quanto sia sciocco non parlare con lui, con chi mi conosce meglio, nonostante tutto.
Entro nel bar e lo chiamo ad alta voce.
Lui si volta sorpreso, guardando afflitto. «Lù, sei diverso».
«E tu sei una testa di... porcellino d’india. Che hai fatto ai tuoi capelli? Sono rossi», sbuffo.
Si alza dallo sgabello e mi viene incontro. Gli occhi sono sempre gli stessi, blu e profondi come il mare in tempesta. «Tu, piuttosto, devi aver perso almeno cinque kili».
Edo paga il conto e usciamo fuori, un po’ imbarazzati. Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, mentre i nostri piedi ci conducono verso luoghi conosciuti e amati.
Arriviamo al mare, che rulla e gorgheggia sulla spiaggia di ciottoli grigi. Non vi è cosa più bella al mondo di quelle onde che avanzano e arretrano sulla battigia, portando il gelo e il colore d’inverno con loro.
«Sono stato uno stupido», inizio io, giocherellando con un piede sui sassi bagnati.
«Anche io», ribadisce Edo, sospirando. «È stata tutta una mia paranoia, lo so. Tutto è sempre andato a gonfie vele, tra di noi. Non avevo motivo di preoccuparmi, davvero, non con un amico come te».
«Non è vero... avevo torto», bisbiglio chiudendo le palpebre. Il buio mi avvolge. Cosa sto per fare? Cosa sto per dire? «Io, ecc-»
«Lo so. Almeno credo di saperlo», mormora ansiosamente Edo. Lo guardo: il suo profilo dritto, i suoi occhi incerti. «E l’ho sentito di più quando hai deciso di andartene: come se mi voltassi le spalle, anche se non l’hai mai fatto, anche se io ho sempre accettato che tu non mi dicessi sempre la verità. Lo so, lo so che mi hai mentito».
Mi sento pietrificare. Il cuore si blocca, come il respiro e le mie funzioni cerebrali; svanisco, lasciando il mio corpo di monolite.
Cos’è che ha detto? Potreste ripetermelo?
«Lo so», ribadisce un'altra volta Edo con semplicità.
«Ah», borbotto. «Lo sai. Che sono un bugiardo?»
«Che sei un frocio, cretino!»
«Ancora con questi insulti!», fingo di essere scandalizzato da quelli, quando in realtà sono sconvolto dalla sua rivelazione.
«Quale dei due?», ghigna Edo amorevolmente.
«E comunque si dice gay o omosessuale, se non ti piace il termine inglese», ribatto freddamente.
Edo tace, osservandomi con dolcezza. Con quello sguardo un po’ strafottente, ma pieno di amicizia e comprensione, che mi ha costantemente rivolto. E che io ho ricambiato, nonostante le mie paure e le mie menzogne, con tutta la sincerità possibile.
Lo abbraccio di slancio. Il mare romba intorno a noi. Lui si stringe a me.
Stiamo ancora in silenzio, l’uno contro l’altro, perdendoci nel rumore armonioso e potente delle onde.
Poi, finalmente, mi rendo conto delle sue parole. «Lo sapevi... per tutto questo tempo? E non mi hai detto niente?»
«Sei tu a non avermi detto nulla. Ho aspettato inutilmente che ti rivelassi», mormora fra i miei capelli.
«Scusami. Sai com’è», alzo le spalle.
«Me ne rendo conto, capisco perché l’hai fatto», dice piano.
Sorrido sul suo collo, sentendomi stranamente franco e libero, nonostante mi ritrovi ancora stretto fra le sue braccia forti. «Toglimi una curiosità, come l’hai capito?»
Edo ridacchia sommessamente, poi riprende il suo solito aplomb britannico – o altresì conosciuto come la sua faccia da schiaffi. «Eh, ti pare... ho notato subito come guardavi Marco, quando facevamo il bagno tutti insieme. Ricordi? Eravamo in seconda elementare. Ti ho visto, sai? Ho visto che gli guardavi l’uccello».
Rido anch’io. «Sarei dovuto stare più attento, ma si sa che i bambini son bambini».
Edo si scosta dal mio abbraccio e infine ci allontaniamo. Lo guardo allegramente e gli passo un braccio sulle spalle, stritolandogli il collo affettuosamente.
Mi sento completo, a mio agio, grazie a lui. Sento di amarlo di un amore inspiegabile e sostanzialmente diverso da quello che provo per qualsiasi altro: un sentimento simile a quello che intercorre fra i gemelli.
Edo mi guarda con fare allusivo. «Che fai, non dirmi che vuoi cavalcarmi! Non mi sento pronto a una dichiarazione del genere».
Rido apertamente, stringendo con più forza il braccio sulle sue spalle. «Oh, guarda, per te potrei anche fare il passivo. Sai com’è, noi gay siamo molto flessibili».
«Ah davvero? Quasi quasi un pensierino ce lo faccio».
Ci guardiamo negli occhi con complicità. Poi incominciamo a ridere, rischiando quasi di soffocare per la mancanza di fiato.









Questa fic è arrivata prima al Writer Tournament di Scrivartisti Appassionati. Spero che vi sia piaciuta, a me ha divertito molto scriverla :)
Kokky
   
 
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