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Autore: Kokky    04/08/2011    1 recensioni
I notturni sono generalmente percepiti come tranquilli, spesso espressivi e lirici, alcune volte piuttosto pessimisti, ma in pratica pezzi che rientrano sotto la definizione di notturni comunicano svariate sensazioni e stati d'animo (Wikipedia).
27 = La nebbia stava salendo: divenne tutto uguale, il mondo, di un grigio candido che univa la terra e il cielo. Se non fosse stato per gli alberi vicini al treno, avrei visto soltanto una vasta lastra di vetro chiaro, opaco; un nulla.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Dramma teatrale
 
LEI: Ero piccola e siamo andati al mare. Era così luminoso il cielo! E terso, disteso a formare una lastra di vetro monocolore. La superficie blu e acquosa era smossa da un leggero vento, faceva avanti e indietro; le onde si susseguivano rapide e spumose... ero così felice. La luce del sole m’illuminava in pieno, calda e lucente. Affondavo i piedi nella sabbia morbida e umida, per la felicità presi un secchiello e mi misi a lavorare – feci un castello, o almeno per me lo era, anche se in realtà avevo fatto solo due torrette, due piccoli cumuli color ocra... con le mani e la sabbia bagnata lo decorai, facendo gocciolare gli ornamenti sopra il castello. Era bellissimo.
Poi il cielo si rabbuiò, arrivarono le nuvole plumbee a coprire il sole, la tempesta. Il vento s’alzò forte e il mare fu scosso dalla sua violenza disarmante. Avevo paura, ma mio padre mi prese la mano e tutto fu calmo dentro di me. Salimmo in macchina e io sbirciai il cielo buio. Ero felice lo stesso, perché papà m’aveva stretto tra le sue braccia e avevo sentito di nuovo il caldo.
Adesso non sono felice. Adesso mio padre non c’è più.
(vaga un po’ sul palco, con espressione vacua)
LEI: Ricordo la prima volta che ho nuotato – avevo imparato a farlo in piscina, ficcando la testa sott’acqua e scalciando coi piedi –, era estate e la giornata sapeva di allegria: i bambini gridavano gai e correvano tutti in tondo, sui ciottoli della spiaggia di Fondachello; l’acqua era piena di quel vociare all’unisono... io non li conoscevo, ma vederli mi faceva sorridere. Andai a nuotare lì nel mare freddo, a smuovere i piedi e le mani, lì sotto, lì con mia madre vicino che avanzava a rana.
Ricordo che tenevo gli occhi aperti sott’acqua, e quindi vedevo sfocato il fondale colorato, ma non mi dispiaceva, non mi doleva lo sguardo per il sale, anzi... ero immersa e mi piaceva, ero leggera, leggerissima, una bollicina d’acqua in quel mare immenso. Guardare a largo, là sotto in quel silenzio ovattato, però mi dava paura: sembrava che ci fosse un canto marino, appena sussurrato e magico, che mi attirava in quel blu infinito; e se non fossi mai ritornata indietro? Per questo non fissavo lo sguardo troppo a lungo verso la distesa aperta e mi osservavo i piedi nivei e tremolanti, dai contorni confusi a causa dell’acqua.
Era tutto bellissimo. Mi appariva unico, splendido.
Adesso, invece, non vado più al mare. Mi vergogno. Ho paura che il mio corpo sia troppo brutto per essere visto, una massa informe, una linea storta... non voglio che mi vedano senza vestiti, così, nuda sia fuori che dentro: col seno grosso e le cosce enormi, con i peli di troppo, la schiena storta, la pelle chiara. Mi vergogno di me stessa, della mia insicurezza e bruttezza.
(guarda il proprio corpo e poi si siede a terra, al centro del palco vuoto)
LEI: Da bambina mi sentivo bene, ero felice. Avevo così poche paure! Al buio, nelle stanze di casa, l’unico terrore che mi prendeva era quello di avere qualcuno alle spalle, qualcuno che mi sussurrava nenie incantate e parole fatate, ma c’era sempre e solo il silenzio e io, con rapidità impaurita, accendevo la luce bianchiccia. La notte, quando riposavo nel letto a castello, l’incertezza mi prendeva l’animo: cos’era quello che vedevo? Erano assi di legno o, invece, volti di vampiri che aspettavano il mio sonno, prima di mordermi? Forse guardavo troppa televisione, Streghe m’induceva a credere ai mostri delle fiabe...
Che paura potevo avere, se non avevo la percezione di me stessa? Correvo per i prati in fiore, inseguita dal mio cane festante, e sentivo solo l’aria che mi sferzava dolcemente il viso. Non c’erano i cattivi pensieri a braccarmi, non avevo in mente niente al di fuori della felicità genuina.
La possessività e l’invidia mi premevano il cuore, miei difetti da sempre, però solo per un poco, non abbastanza per pensarci.
(sbuffa)
LEI: Adesso le paure sono troppe, hanno le braccia lunghe e forti, mi stringono sino a farmi soffocare. Sono dure a morire – soccombo prima io, sotto il loro peso; non riesco a sconfiggerle, mai mai mai, sono un corpo inerme, una bambola di plastica che viene distrutta, divelta dai loro colpi duri e precisi. Ecco. Che mi rimane? L’aria.
Sono una persona fondamentalmente stupida. Insicura fino allo stremo, non faccio nulla per migliorare la mia situazione, anzi, annego nell’accidia. Sono una noia mortale – ahaha, potrei ucciderti con i miei discorsi vuoti sul cielo; con le mie lamentele perenni – e basta. Mi sto biasimando, lo so, però son capace di fare solamente questo. Naufragando nella pigrizia, le crisi esistenziali mi feriscono profondamente, mi tagliano fino all’osso; rimango sul letto a fissare il soffitto e a non pensare, e mi va bene, mi dico cosa dovrei fare e permango in quello stato d’inerzia, di quiete apparente, quando vorrei gridare al mondo che sono un’idiota patentata, una macchia, un inutile puntino nella terra enorme... eppure questa sfera è così minuscola, nell’universo, che la mia banalità la possiede pure il mondo, perché esso in rapporto alle galassie e alle nebulose è solo un minuscolo dettaglio, una parte dimenticata e nascosta. 
Che noia. Mi sto addormentando io stessa che parlo. Ma cosa dovrei fare, se non discutere di me stessa? Già conoscermi è difficile, figurarsi ciò che mi circonda! È un luogo sconosciuto, all’apparenza una casa piacevole, uno spazio delimitato da case, alberi, strade, il cielo... la città, brulicante di vita morta, è una scatola di plastica dove ci crediamo sicuri – e invece, invece è una trappola per topi che, prima o poi, ci si chiuderà addosso, fino a soffocarci.
(si alza in piedi e passeggia)
LEI: Da bambina sapevo dire l’alfabeto tutto d’un colpo: ABCDEEEEFGHILMNOPQRSTUVZETA. Com’ero veloce, battevo tutti gli altri bimbi. Ero felice, felicissima, di correre e giocare, mi nascondevo dietro un cespuglio e aspettavo che mi trovassero, accarezzavo un cane e la gioia mi si dipingeva sulle guance, poi mordevo un bel pasticcino e la mia lingua assaporava quel dolce gusto, sentendomi unicamente e irrepetibilmente allegra; il mare era una culla in cui dormire beati, il cielo un luogo magico da raggiungere, per volare nell’Isolachenonc’è e a undici anni, finalmente, iscriversi ad Hogwarts... il mondo era una piattaforma spaziale da cui, in futuro, partire verso infinite avventure.
Adesso, sì adesso, la morte mi si è dipinta sul volto. Sono un’adolescente senza capo né coda, una persona a metà, né donna né bambina – una persona uccello, come Peter Pan, forse!, ma è una stupida speranza – e con tono lamentoso sparlo su di me. Affondo in queste parole grigie e cupe.
Che cazzo, dovrei reagire, ma ho paura. Mi sento sola, inadatta al mondo, una ragazza storta che non va bene alla gente – ai suoi simili? Io sono un alieno o un vampiro, ma non di certo un essere umano – e che non va bene al mondo. Sembro un emo. Forse lo sono? Chissà... semplicemente, mi sento imperfetta, inutile, stupida.
Forse lo sono.
(inizia a ballare, ma non c’è musica in sala. Balla per un po’ e poi inizia “I don’t feel it anymore” di Fitzwilliam)
LEI: Insomma, ma quanto ancora devo andare avanti? Perché parlare, se le parole sono veicoli di emozioni, e non sentimenti veri? Sono catene nere che ci stringono la carne... sanguineremo? Sanguineranno?
Io voglio vivere, non pronunciare la mia morte!
Io voglio vivere... mi devo rialzare per questo. Mi devo impegnare per essere migliore, studiare per avere un posto nella scuola, nella società... anche se ne vorrei essere al di sopra, senza di questo non andrò avanti, ma morrò sotto i ponti, al freddo, da sola. E le paure diverranno miei punti di forza.
Io voglio vivere!
E se non mi piaccio, andrò avanti lo stesso, perché questo mio corpo – storto e grasso, brutto – è l’unico che possiedo. L’unica mia certezza, in un mondo grande ma piccolo.
Trionferò.
(si sentono delle campane suonare, tintinnanti, allegre, da festa)
LEI: Mi chiamano, gli angeli sono arrivati. (lancia un’occhiata alla platea e fa segno di fare silenzio, si mette un dito sulla bocca) Che feste c’attendono, signori, quando perderò questo involucro di timore e diventerò intera! Ma sappiate che anche l’essere a metà, in fondo, ha una sua magia: ho la parvenza dell’infinito nelle mie affermazioni assolute.
Addio, addio.
(scompare)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
Così si chiude Notturni. Ho cercato per più di un anno un finale adatto, sapete?, senza trovare una storia che si adattasse a una fine, senza riuscire a inventare una trama, un qualcosa di speciale che potesse concludere questa raccolta a me tanto cara. Poi ho cercato nel computer e ho trovato questa fic. È di più di un anno fa, quindi non è un finale recente, ma è quello perfetto per Notturni.
La notte è il buio dell’anima, in questo dramma teatrale. È una delle cose più autobiografiche che io abbia mai scritto – e quando la scrissi avevo già superato il periodo di tristezza cosmica, figuratevi, ora questo mi appare ancora più distante.
Questo monologo è una delle cose più sincere, più disarmanti, distruttive, brutte e belle che io abbia mai scritto – a mio modesto parere, ovviamente, voi magari la penserete diversamente. Spero che vi piaccia, spero che vi emozioni, spero che anche voi possiate decidere di “vivere” senza porvi troppi problemi.
Nel mio piccolo, spero che questa raccolta vi abbia lasciato qualcosa, sia in positivo che in negativo, un sentimento, un’idea, qualcosa. Scusate la nota d’autore formato papiro.
Kokky
   
 
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