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Autore: Jo Shepherd    08/08/2011    2 recensioni
Una selva di betulle, un cacciatore e una preda acquattata.
Genere: Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Insonnia
 
La solitudine è sempre stata una fedele amica per me.
 
Cosa c'è di meglio del riuscire a sentire il cuore pulsare litri di sangue instancabilmente, il baccano dei pensieri, il fruscio dell'erba che t'accarezza le gambe o che soccombe schiacciata sotto la suola delle scarpe, i tonfi dei piedi sul terreno scosceso, ora tenero, ora duro come la pietra, le fronde degli alberi che chiacchierano animatamente fra loro, i versi di tutti gli animali notturni...
 
Di notte tutto questo accade.
 
La notte viene generalmente vista come il momento della giornata in cui tutto tace, si assopisce, s'annienta. Io l'ho sempre trovata come l'arco della giornata in cui tutto sembra accentuarsi, tutto è più vivo, più cattivo, più timoroso, più buono. Raddoppia il numero dei pensieri, delle paure, delle fantasie.
 
Il suono di un sasso che rotola, scuote l'aria alla stregua di una possente roccia di alcune tonnellate che rovina giù, verso la vallata, dal costolone di una parete ripida.
Il frusciare delle fronde, con la complicità incostante del vento, da l'impressione che un mercato si sia materializzato tutt'attorno.
Il chiocciare di qualche ruscello, celato dall'alta e folta vegetazione del sottobosco, si espande uniforme ingannando chi ascolta; si può credere che i suoi flutti scorrano proprio sotto i propri piedi, o poco distante dalla propria postazione, ma in realtà, è molto più lontano.
 
Soprattutto la notte è portatrice di entrambe le facce della moneta che tintinna fra le mani della vita; essa è maligna tanto quanto santa con tutti i suoi figli e vigila su di loro con la sua unica pupilla: colei che splende diafana ed apprensiva nella volta stellata.
 
Di notte io vivo, perché di giorno gli altri possano usufruire dei miei servigi.
Quanto tempo della mia vita ho trascorso abbandonandomi al fracasso della solitudine notturna.
Una in particolare mi è ancora vivida nella mente. Un ricordo che m'è stato impresso nella carne.
 
* * *
 
Era un periodo autunnale, l'aria fresca e leggera. Ironicamente il paesaggio si dipingeva di colori caldi e sgargianti in quei mesi.
 
Camminavo flemmatico nel cuore dell'intricata foresta di betulle, che fiancheggiava il lato nord del villaggio. Quegli alberi rendevano quel luogo magico, grazie ai fusti argentei, rigati e slanciati, con la chioma fitta di piccole foglie e rami esili. Giochi di luce si creavano fra essi, grazie al forte bagliore della raggiante pupilla della notte.
Dalla bocca fuoriuscivano piccole nuvolette bianche che piroettando si dissolvevano in pochi attimi.
Presi un gran respiro e stetti in allerta per ogni minima vibrazione. Stavo pur sempre in piena caccia e lapreda che ricercavo quella notte non è mai stata una delle più semplici da abbattere. La sua carne era molto prelibata e richiestissima. La macelleria di famiglia ricavava da anni buoni profitti soprattutto da quel tipo di carne.
 
Scavalcai una betulla abbattutasi al suolo. Scesi con cautela un dislivello di circa cinque metri, gli ultimi due li percorsi sciando sul terreno granuloso. Saltai da una riva all'altra di un piccolo ruscello, mentre un altro, più simile ad un vero e proprio fiume, lo attraversai bagnandomi fin sopra le ginocchia. L'acqua era gelida: attanagliava la pelle.
 
Finalmente giunsi nel territorio della mia preda. Sguainai la spada e sfoderai la pistola. Quest'ultima speravo di usarla nel modo corretto al primo colpo: uno dritto fra le scapole per una morte veloce e pulita. Se avessi sbagliato mira, recidendo per esempio qualche budella, avrei compromesso pericolosamente la qualità della carne e avrei fatto morire la bestia di una morte atroce ed inutile. La lama della spada più che altro serviva a ripulire subito la carcassa; in altri casi come ulteriore difesa, affondando la lama in modo lineare e preciso dritta alla noce del collo.
 
Mi inoltrai di soppiatto per qualche altro metro verso l'interno del territorio.
 
Un grugnito echeggiò fra le fronde. Subito m'acquattai dietro un masso informe. Il cuore accelerò la sua corsa; l'adrenalina scorreva a fiumi regalandomi brividi d'eccitazione. Nell'aria c'era un fantastico odore di terra e muschio.
Uno scricchiolio seguì dietro di me. Repentino mi voltai già visualizzando il punto esatto dove colpire la bestia. Levai la sicura. Un urlo acuto mi fece trasalire.
« Non sparare padre! »
« Laiar?» Mi precipitai da lei con l'ira che ribolliva in corpo. « Cosa diavolo ci fai tu qui? »
« Padre. Sono stufa di aspettare che tu mi insegni il mestiere. »
« Di certo non te lo insegnerò in questo momento. Ma cosa ti dice la zucca? È pericoloso qui fuori. Devi andartene immediatamente! »
« Non me ne andrò fin quando non comincerò ad imparare qualcosa. So che le tue sono solo parole per temporeggiare e aspettare che Lairo sia abbastanza grande da poterti succedere. Ma anche io voglio essere una dei vostri. Desidero imparare e guadagnarmi il pane come » L'afferrai forte ad un braccio e la trascinai con violenza lontano da quel posto.
Stavo dicendo addio alla battuta di caccia per quella notte.
« Tu adesso torni immediatamente a casa! Avrai le tue lezioni, ma di certo non le riceverai adesso! »
« NO!» Sì dimenò tentando di liberarsi dalla salda presa. Infine ci riuscì. « Ormai non vi credo più. Sono anni che ripetete la stessa frase. Io voglio imparare!»
« Come pretendi che una ragazzina di appena quindici anni come te possa andare a caccia? Cacciare bestie come quelle da me abbattute non è cosa da adulti figurarsi da ragazzini. Sei ancora troppo giovane. »
« Ma per poter padroneggiare al meglio le tecniche si deve apprendere già da piccoli padre! »
« Sciocchezze! Mio padre ha cominciato ad istruirmi a dovere alla tarda età di ventitré anni! E così sarà per te e per tuo fratello! Non accusarmi di favoritismi, sai benissimo che per me siete uguali. Non mi comporterò come mio padre! E adesso vattene immediatamente a casa. Non costringermi a convincerti con la forza Laiar! »
Gli occhi le si gonfiarono di lacrime e piansero silenti. Mi diresse un ultimo sguardo amareggiato e deluso: si voltò correndo a gambe levate via dalla foresta.
In quel momento mi sentii un uomo distrutto. Non volevo affatto essere severo con i miei figli; ma per farli crescere bene, quell'atteggiamento era l'unico modo, giusto e sicuro per la loro incolumità. Mio padre preferiva sempre me a mio fratello, e la cosa non mi andava affatto giù perché mi sentivo un traditore nei suoi confronti. Ero molto legato a lui, ma quando mio padre irrompeva nel nostro rapporto tutto diventava scomodo. Mi sentivo male per lui ogni volta. Ho sempre cercato di evitare un simile atteggiamento con i miei figli, ma a quanto pare, nonostante gli sforzi, non sempre si riesce ad andare a buon fine.
 
Stavo per correrle dietro, rassegnato dal fatto che le nostre urla dovevano aver impaurito e fatto fuggire qualsiasi tipo di selvaggina. Sbuffai per le uova rotte nel paniere. Rinfoderai la pistola e inguainai la spada.
Un ruggito mi sorprese alle spalle. Mi voltai e la mia preda, tanto cercata quella sera, stava caricandomi furiosa. Tempo di riprendermi dallo stupore e presi l'arma da fuoco, ma prima ancora che la pistola potesse essere pronta, la belva fu su di me. Una tremenda zampata in pieno ventre mi spinse di lato, facendomi rotolare su di un avvallamento improvviso del terreno. Rovinai fra terra, arbusti e sassi provocandomi numerosi graffi e lividi. Atterrai violentemente con la schiena su un tronco secco, che si spezzò per il poderoso urto. Urlai e la belva in alto mi rispose ruggendo.
Il dolore mi immobilizzava, volevo tanto issarmi ed assestarle un colpo mortale, ma non potevo.
Goffamente stava scendendo anch'essa: ero davvero nei guai.
Lottai contro il dolore e riuscii a voltarmi sulla pancia. Strisciai il più in fretta che potevo, ma il male che scaturiva dal movimento, come lance infilzate fra carne e ossa, mi frenava: non sarei mai riuscito a scappare dalla furia della belva. Attenderla, pronto all'attacco, era l'unica soluzione.
Riuscii ad arrivare ai piedi di una betulla a pochi centimetri da dove ero. Cercavo l'arma da fuoco ma scoprii di non averla a portata di mano, doveva essersi incastrata in un qualche arbusto durante la caduta. Mi restava solo la spada. La sguainai con non poca fatica. Ancora un ultimo grosso sforzo e riuscii a rigirarmi sulla schiena facendo leva anche su piantine, radici e tronco.
 
La belva era ormai atterrata in modo assordante al suolo aizzando una nube. Il suolo sussultò sotto di me. Il mio respiro era accelerato. Il terrore era al vertice massimo. Pregavo affinché riuscissi a superare quella notte. Una lacrima mi lavò il viso sporco di terra.
La belva si fermò, volse il capo alla sua sinistra e drizzò le lunghe orecchie. Un sibilo precedette il suo rantolo di dolore.
Altri sibili seguirono: la bestia continuò a lamentarsi. Il tutto continuò fin quando non si rovesciò in terra.
Sentii dei passi e dei fruscii crescere nella mia direzione.
« PADRE!» Fu Laiar, col suo arco teso, a scoccare quelle frecce provvidenziali. « Padre! Padre! Cos'hai? »
« Laiar... non p-posso muovermi. Ho la schiena bloccata. »
La belva tornò sulle sue quattro zampe malconcio e ringhiante.
« Ci penso io. » Si lanciò contro il pericolo.
« LAIAR NO! NON AVVICINARTI! LAIAAAR!»
Naturalmente non ascoltò le urla del padre agonizzante. Tutto ciò che voleva era assicurarsi di riportarmi a casa sano e salvo, incurante di se stessa. Sì gettò sulla creatura senza staccarle lo sguardo di dosso. Scoccò le frecce una dietro l'altra. La belva si impennò urlante, e lei ne approfittò per lacerale il ventre. Inaspettatamente la bestia le assestò una testata che la fece capitombolare un paio di metri più in là, fra la vegetazione fitta e frusciante del sottobosco. In quel momento imprecai senza sosta sgolandomi.
La creatura tornò a guardarmi, ma prima che potesse fare un solo passo, un'ultima freccia gli fu assestata sulla spalla. Era martoriata. Stava sbieca e tremante.
« Merda ho finito le frecce!» La sentii sbottare in lontananza.
« LAIAR TE NE DEVI ANDARE!»
Non disse nulla. La vidi sbucare correndo dalla vegetazione. Con un balzò finì sulla schiena della bestia seriamente ferita e stanca, difatti non riuscì a stare al passo con l'agilità di mia figlia. Laiar strappò una delle frecce dalla carne del predatore, la incoccò sull'arco e puntando alla nuca la trapasso da parte a parte.
 
La bestia rimase immobile. Emise sommessi rantoli di dolore continui, piegata leggermente su di un lato con rivoli di sangue che le colavano dalla bocca e da ogni ferita inferta dalla mia Laiar. Espirò, per poi accasciarsi violentemente al suolo. Mia figlia evitò la caduta saltando all'ultimo momento. Si piegò su se stessa respirando con forza.
Io quasi dimenticai il dolore tanto era forte lo stupore e l’orgoglio che provavo in quel momento. Esausta arrancò nella mia direzione e si sedette al suolo priva di forza.
« Credi... di riuscire ad alzarti? »
« No... avrai bisogno di più mani per portarmi via.»
« Ok.»  Si mise in piedi. « Vado e torno in un lampo. »
« Non mi muoverò di qui. »
Sorrise e prese a correre.
« Levami una curiosità. » Si fermò « ... esattamente... c-cos'è che vorresti che io ti insegnassi? »
Scoppio in una breve risata.
« Magari... a essere un po' più delicata
« Corri va'!»
Non esitò e svanì nella selva di betulle.
 
Fissai la carcassa priva di vita: che grande spreco.
 
  
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