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Autore: La neve di aprile    10/08/2011    3 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
EPILOGO



 

LOS ANGELES, luglio 2007
Il chiacchiericcio nel pub era al limite del sopportabile, un brusio continuo che riempiva le orecchie di Izzy e rimbalzava di parete in parete, sui mattoni a vista, tra le cornici chiuse attorno a vecchi LP dalle etichette sbiadite.
La pinta di birra davanti a lui era ormai mezza vuota e tutto quello che era riuscito a scoprire dalle chiacchiere strascicate della giovane cameriera bionda dietro al bancone era che Alec era morto, qualche tempo fa, e che la nuova proprietaria era una grandissima stronza con un gran bisogno di scopare.
Chi fosse quella fantomatica proprietaria ancora non l'aveva scoperto e per riuscire a saperlo, l'unica cosa che poteva fare era restare lì ad aspettare che si presentasse.
“Guarda che potresti dover aspettare tutta la sera,” l'avvisò la biondina, masticando rumorosamente una gomma.
“Stai cercando di dirmi che disturbo e devo lasciare il posto?” ribatté Izzy svogliatamente, rigirandosi il bicchiere mezzo vuoto tra le dita.
Non aveva voglia di star lì a discutere con una ragazzetta stufa di lavorare, era lì per vedere Roxanne.
Per provarci, almeno.
Prendere la decisione era stato più facile del previsto, gli era bastato alzarsi al mattino e decidere: da lì, comprare un biglietto aereo e infilare due cose al volo in valigia era stata solo una naturale conseguenza dell'impazienza che si era accesa dentro di lui, un fuoco quasi insopportabile nella sua improvvisa smania di calpestare le strade asfaltate e sovraffollate della città degli angeli.
Il tempo si era diluito in una macchia confusa, non avrebbe saputo dire quanto effettivamente ci avesse impiegato l'aereo a far la spola tra le due città, se c'erano stati scali o ritardo: un attimo prima era a LaFayette e un attimo dopo a Los Angeles -nel mezzo neppure il tempo necessario a capire se il suo era un capriccio, un errore o la cosa giusta da fare.
Vent'anni.
Li sentiva tutti, uno per uno, cadergli addosso come macigni.
Vent'anni prima aveva inciso il suo primo cd e incontrato l'amore della sua vita.
Vent'anni prima era giovane e vivo ma troppo spaventato da entrambe le cose al punto da preferire un'esistenza annebbiata da fiumi di alcool e droghe sempre più pesanti, pennellante di confusione su una lucidità che l'avrebbe spiazzato e costretto a crescere.
Vent'anni prima era circondato da persone di cui adesso ricordava a malapena i nomi, nascondeva la solitudine dietro grandi occhiali da sole e li toglieva solo per rivelarsi a una creatura ancora più sola di quanto non fosse lui ma infinitamente più forte e più fragile.
Aveva capito così poco, di Roxanne..!
In quei quattro anni passati assieme si era costruito un'immagine perfetta al cui centro c'erano due occhi scuri, profondi e silenziosi, a sorridergli dolcemente e perdonargli ogni errore, ogni passo falso.
Ma non era solo indulgenza, non era comprensione o il desiderio di apparire perfetta: lei gli era rimasta accanto quando si era rivelata la cosa più dolorosa in assoluto da sopportare per amore.
Un amore così grande da non poter essere quantificato, un sentimento così immenso da vincere il dolore e la paura solo per poter sentire la sua voce al telefono, uno slancio così coraggioso che non era stato in grado di reggere tutto quell'impeto e aveva finito col lasciarla cadere a terra, di faccia, contro la dura superficie della realtà.
Aveva sbagliato tutto, non aveva capito niente.
Ma piangere sul latte versato non serve, si disse buttando giù un sorso di birra e riconoscendoci nel retrogusto lo stesso aroma dolciastro di quella che beveva sempre lei.

 

-Izzy, questa birra fa schifo!
-Mi prendi in giro?
-No, è troppo amara.

 

Ricordava così bene la smorfia che le increspava le labbra, il tono irritato della sua voce che lo rimproverava silenziosamente e il sorriso che un attimo dopo si delineava morbido sulla curva delle sue labbra.
Era come se in quel momento tutto l'amore che conteneva in corpo affiorasse in superficie, il suono della risacca per l'onda gigantesca di emozioni che si sollevava dietro quel gesto e poi lo investiva, senza dargli il tempo di prendere fiato, trascinandolo via nell'impeto della corrente, nei suoi flussi sottomarini in cui poteva lasciarsi galleggiare, conscio che nulla gli avrebbe mai potuto far più male della perdita di quei momenti.
Scosse il capo, ripensando a quella sera ormai lontana in cui aveva sbagliato ad ordinare.
Non era mai stato bravo in quelle cose, troppo distratto e troppo fatto per poter ricordare la differenza tra due birre fondamentalmente identiche tra di loro se non nel nome.
I dettagli, le cose più piccole.. era difficile afferrarli in condizioni normali, figurarsi quando il suo mondo era un inseguirsi sfocato di colori, emozioni, suoni smorzati o accentuati dai cocktail chimici che si sparava in vena per scampare ai primi bagliori del sole, troppo intensi per i suoi occhi chiari e spaventati.
Non si era mai accorto di come fosse la paura ad inquinare e uccidere i sentimenti.
Sospirò silenziosamente, evitando lo sguardo della biondina e sentendosi stupido come non mai.
Cosa diavolo sperava di ottenere, dopo vent'anni?


 

Roxanne si era svegliata quella mattina con una sensazione insolita a stringerle la bocca dello stomaco, un'apprensione che allungava le sue dita gelide facendo riaffiorare vecchi ricordi e vecchi fantasmi sepolti sotto cumuli di oblio polveroso.
Aveva incrociato il suo sguardo nel riflesso dello specchio all'ingresso e aveva aggrottato al fronte, perplessa senza conoscerne il motivo.
Oh, certo, sapeva perfettamente che giorno era.
Non avrebbe potuto dimenticarlo, cadeva il ventennale dall'uscita di Appetite for Destruction e sentiva nell'aria il profumo friabile di una nostalgia latente che cresceva lenta e inesorabile, come una marea.
Quante sciocchezze, si rimproverò cinicamente riavviando una ciocca di capelli con un gesto brusco.
Non aveva più diciott'anni, era una donna adulta con un'attività commerciale ben avviata e una carriera di successo alle spalle, non era da lei lasciarsi incupire da una ricorrenza di questo tipo: non era l'anniversario del suo incontro con Izzy o del loro primo bacio, all'alba dopo quel concerto pazzesco, o della loro rottura. Quelli li aveva festeggiati, ogni tanto.
In segreto, senza che nessuno la vedesse, negli ultimi anni dedicava quelle giornate a mettere ordine nella sua memoria, appiccicando vecchie fotografie su album anonimi e alzando un bicchiere alla salute di Izzy, senza mai azzardarsi a fantasticare su come sarebbe stato rivedersi e cosa avrebbe potuto significare incrociare di nuovo il suo sguardo.
Non aveva il coraggio di chiedersi se i suoi occhi avevano la stessa sfumatura di cupa malinconia a screziare il verde limpido, se il sorriso era ancora un taglio obliquo sul volto sempre troppo magro. Semplicemente non poteva, non l'avrebbe sopportato.
Frugò nella borsa alla ricerca delle chiavi di casa e, una volta assicuratasi di non correre il rischio di dover chiamare il fabbro o Christopher per rientrare, uscì nel caldo sole estivo al tramonto e nascose i suoi pensieri dietro le lenti scure di un paio di occhiali da sole.
Perché tormentarsi così, del resto.
Era stupido persino il pensiero di potersi sentir toccare dal ricordo di Izzy, dopo tutti quegli anni, non sarebbe stata in grado di spiegare a parole quel nodo che d'un tratto le stringeva la gola senza passare per una quindicenne alla sua prima cotta.
Eppure... eppure non poteva fare a meno di chiederselo.
Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quel tempo, come sarebbe stato rivederlo per davvero?
Posare gli occhi su qualcosa di reale e non su un ricordo sbiadito, quasi in bianco e nero.
Respirare un odore vero e non cercarne l'eco confuso.
Ascoltare una voce e non tentare di immaginarne il suono.
L'ondata di dolore risalì acre dal suo stomaco, un conato di sentimenti inespressi che si costrinse a reprimere per non soffocare: era un mostro che non andava stuzzicato, il suo cuore.
Ecco cosa aveva imparato negli anni, sulla sua pelle.
Lo scatto metallico dell'accendino precedette la fiammata e fu con sollievo che inalò la prima boccata di fumo, sbattendo le palpebre e stringendo le labbra in una linea sottile, severa.
Era in ritardo ed era quasi sicura che Gemma, la biondina svampita che aveva assunto qualche mese prima, non si fosse avvicinata al bagno che le aveva caldamente raccomandato di pulire neppure per sbaglio, approfittandone per restarsene dietro al bancone per giocare alla padrona del locale.

 

Nell'attimo in cui Roxanne varcò la soglia del locale, il sorso della terza birra che aveva ordinato andò di traverso ad Izzy.
D'un tratto fu come se il sole fosse precipitato dal cielo schiantandosi contro di lui, una sensazione di calore così abbacinante da coglierlo totalmente di sorpresa -aveva dimenticato, negli anni, come il suo corpo reagisse alla sua semplice presenza fisica, reclamando la sua attenzione, ogni singola cellula intenta a inseguire lo stesso, identico, scopo: trovarla.
Sbiancò, il suo volto si tinse di una sfumature di verde così allarmante che la biondina lo guardò storto senza avere il tempo di dirgli niente.
“Gemma”
La sua voce.
La parola risuonò nitida nelle sue orecchie, una nota così acre e fumosa che quasi non la riconobbe. Eppure era lei, lo sapeva, non aveva alcun bisogno di voltarsi a controllare. Era Roxy, la sua Roxy.
Abbassò lo sguardo, aggrappandosi al boccale di birra con tutte le sue forze, senza aver il coraggio di guardare.
“Gemma, fammi indovinare,” proseguì intanto la voce, con una sfumatura così terribilmente sarcastica da farlo rabbrividire, “non hai fatto quello che ti ho detto ieri, vero?”
Si perse la risposta della ragazza, nel tentativo di non morire di crepacuore su quel tavolino in disparte.
Non aveva più l'età per nascondersi dietro una maschera di indifferenza, aveva soffocato parti di sé per troppo tempo rinunciando a poterle controllare in un futuro creduto lontano, un futuro che si era fatto presente con il passare degli anni e reclamava la sua vittoria senza un briciolo di pietà nei suoi confronti.
Tutto quello che poteva fare era rimanere lì in silenzio, pregando silenziosamente ogni singola divinità gli riuscisse di ricordare per sperare di passare inosservato.
Non si sentiva pronto, non lo sarebbe mai stato.
Come molto tempo prima, si ritrovò solo e terrorizzato oltre ogni immaginazione, incapace di andare fino in fondo e raggiungere un obbiettivo, l'unico che avesse desiderato e inseguito con così tanta tenacia e per così tanto tempo.
I suoi occhi, fino a qualche attimo prima assorti nei disegni sbilenchi delle venature del tavolo lucido, si sollevarono con apparente casualità e inseguirono l'eco di un rimprovero sibilato più avanti: Roxanne era lì, le mani sui fianchi e un paio di grossi occhiali scuri troppo lucidi per lasciar intravedere qualcosa oltre il riflesso dello sgomento di Gemma.
Strinse le mani con così tanta forza da far sbiancare le nocche, nel tentativo di tenersi stretta una frase che fosse dotata di un qualche senso logico -gli sarebbe bastato trovare la forza di alzarsi in piedi, batterle un mano sulla spalla e dirle “Cristo santo, ma sei davvero tu?” senza cedere all'impulso di scappare via e tornare ad infilare la testa nel buco di sabbia di un'indifferenza che era stanco di provare.
Assorto nei suoi pensieri, non si accorse dello sguardo della donna che saliva a catturare la sua immagine riflessa sul vetro lucido di una foto incorniciata.
Non la vide socchiudere le labbra ed esalare un rantolo silenzioso, soffocato dal grumo di emozioni che le aveva stretto la gola, non si accorse del petto completamente svuotato che faticava a riempirsi d'aria né del leggero indietreggiare che la portò a sbattere contro l'imbottitura di uno sgabello: fu solo il fracasso del legno contro il pavimento, mentre questo cadeva a terra e rotolava desolato vicino ai tacchi degli stivali di lei, a scuoterlo.
Sentendosi come se stesse osservando la scena al di fuori dal suo corpo, si alzò in piedi e il rumore della sedia che strusciava sul pavimento scuro risuonò acre come uno strappo dentro l'anima.
Incrociò il suo sguardo nell'esatto momento in cui lei sollevò gli occhiali da sole a trattenere le onde disordinate dei capelli che minacciavano di caderle sul volto, inermi come la curva intristita che andava disegnandosi sulle sulle sue spalle -una debolezza effimera come un sospiro, una concessione troppo preziosa per non essere percepita prima di scomparire in un battito di ciglia.
Lo sguardo di Roxanne si staccò da lui, tornando a Gemma.
E se non l'avesse conosciuta troppo a fondo, avrebbe potuto tranquillamente sostenere che non era successo nulla, che lo sgabello era caduto per caso e che la sua sedia aveva strusciato sul pavimento in un bizzarro gioco di coincidenze dai suoni aspri. Ma la conosceva, e sapeva che in quell'istante il suo mondo si era fermato e aveva ripreso a girare all'incontrario.
Non a caso, per lui era stato lo stesso.

 

Roxanne finse di non aver notato come gli occhi di Izzy fossero ancora terribilmente verdi, di una sfumatura così preziosa e particolare da chiuderle lo stomaco in un nodo feroce, e di come conservassero l'ombra di un'ironia sferzante pronta a schioccare come una frusta, nella cornice di rughe sottili che il tempo e la vita avevano scavato tutt'attorno.
Finse di non aver intuito come il suo corpo fosse ancora sottile e slanciato nonostante l'età, sotto le pieghe disordinate di una camicia stropicciata e pantaloni scuri troppo larghi - né tantomeno di come il suo, di corpo, avesse reagito ad una carezza invisibile tendendosi come una corda in uno spasmo quasi doloroso, insostenibile.
Finse persino di non aver seguito i passi di lui cercare e trovare l'uscita dal locale, spiandolo nello stesso riflesso dove l'aveva visto la prima volta solo un attimo prima, rimproverando Gemma più aspramente di quanto avrebbe voluto.
Nel guardare la ragazza allontanarsi in fretta e furia con una bestemmia stretta tra i denti, si disse che semplicemente era stata la sorpresa a farla reagire così e non un'ondata di emozioni che per un attimo l'aveva quasi sopraffatta.
Erano due persone diverse, due estranei con un passato in comune, si rimproverò silenziosamente, frapponendo tra sé stessa e la porta smerigliata dietro la quale Izzy era scomparso l'esigua barriera del bancone lucido, argine fin troppo fragile per poter trattenere i suoi pensieri.
Li sentiva montare, inesorabili come una marea, premendo contro i confini della sua anima con un'intensità tale da farle credere sarebbero stati in grado di mandare in frantumi ogni sua volontà e ogni resistenza. E se era bastata un'occhiata, a scatenare quel putiferio, non osava pensare a cosa sarebbe successo se si fossero parlati.
“Non sarebbe successo proprio niente” sbottò seccata, acciuffando uno straccio e caso e sfogando la tensione su una serie di sfortunati bicchieri appena lavati.
Era da quando aveva iniziato a lavorare lì che asciugare pinte l'aiutava a svagarsi: il lavoro fisico, la sensazione sfiancante dei muscoli e affaticati e mai fermi, riuscivano in un qualche modo a darle pace dall'ennesimo casino di Matty o dalle litigate tra i suoi genitori.
Era per questo che lavorare le piaceva.
Sbuffò, cogliendo con la coda dell'occhio la testolina bionda di Gemma fare capolino oltre uno spigolo.
“Si?” le chiese, sforzandosi di non suonare troppo acida.
“Ho finitom” rispose l'altra, sforzandosi a sua volta di suonare molto più offesa che spaventata.
L'arroganza della cameriera era qualcosa che riconosceva anche come suo, un muro di difesa tra se stessa e il resto del mondo -sorrise, gentilmente, facendole segno che andava bene, nonostante l'istinto le suggerisse piuttosto di licenziarla in tronco.
Eppure, molto tempo prima, era stata anche lei così: si impose di ricordarselo, mentre concedeva venti minuti di pausa alla ragazza che la guardò sconvolta come se le avesse appena detto di passare il resto della serata a scrostare vecchi graffiti dal retro dell'edificio armata solo di uno spazzolino da denti.
“Solo venti minuti?” protestò, puntualissima, dopo un attimo.
“Si, Gemma, solo venti minuti. E che siano venti!” le raccomandò gelida, posando un boccale su una mensola piena a metà “Non come l'altro giorno, che ci hai messo tre quarti d'ora per mangiare un hamburger..”
L'altra brontolò qualcosa, un insulto prigioniero dietro la linea strafottente delle labbra, prima di annuire e slacciarsi il grembiule che le cingeva i fianchi. Stava già per scomparire nel retro, quando invece si voltò e aggrottò la fronte.
“Ah... il tizio al tavolo, quello che ha rovesciato la sedia”
Il cuore di Roxanne perse un battito e, suo malgrado, la donna si scoprì intenta a penzolare dalle labbra della cameriera come un cucciolo bisognoso d'affetto.
“Mh?” mugolò, cercando di mantenere una vaga parvenza di autocontrollo.
“Ti cercava, ma non mi ha detto il suo nome.”
“Non ha bisogno di farlo..” commentò sottovoce lei, mentre l'altra si dileguava dietro una porta chiusa “Sa che lo riconoscerei ovunque.”

 

Izzy si svuotò, soffiando in un'unica nuvoletta disordinata il fumo dell'ultima sigaretta.
Vent'anni.
Vent'anni e sembrava solo ieri l'ultima volta che aveva tenuto Roxanne per mano, che l'aveva spogliata prima di fare l'amore, che aveva vegliato i suoi sogni inquieti nei barbagli di luce di un giorno nascente, incapace di addormentarsi.
Vent'anni e solo a rivederla, solo a sentire il suono della sua voce, si era reso conto di quanto tutto fosse rimasto uguale e di quanto tutto fosse invece terribilmente diverso.
Era passato così tanto tempo che persino l'ombra di quella chiesa, la stessa che aveva vegliato il loro primo incontro, sembrava non essere più la stessa: il rosone era scolorito, gli intarsi erosi dal tempo e sporchi s'incuria - era lo specchio impietoso del suo cuore, un campo di battaglia abbandonato senza onore in una ritirata frettolosa, i gradini cosparsi di immondizia e gli angoli neri di inquinamento.
Rimase seduto, in silenzio, ascoltano il chiasso della notte crescere in lontananza sotto la luce tremula dei neon che oscurava quella delle stelle. Non ce ne erano, a sbirciare la tristezza che gli colorava gli occhi. Non si intravedeva neppure un misero spicchio di Luna, oltre il chiarore artificiale imposto dalla città.
Era tutto diverso dall'ultima volta che era stato lì: quella rosticeria cinese due edifici più in là una volta era un negozio di libri usati, e al posto dello strip club dall'insegna vistosa c'era la minuscola merceria di un vecchio donnone dall'aria invincibile.
Nel corso degli anni, si disse, anche lei dev'esser stata sconfitta.

Erano tutti stati sconfitti, in un modo o nell'altro.
Chi dall'avarizia, chi dalle dipendenze, chi dalla paura e chi dalla vita.
Dei suoi vecchi amici erano almeno in cinque quelli morti prima di vedere i trent'anni, e degli altri aveva perso le tracce molto tempo prima senza neppure sapere il perché.
Si erano bruciati, ecco cos'era successo: avevano scelto di vivere pochi anni oltre ogni limite di sopportazione, senza mai risparmiarsi nulla e accettando ogni ostacolo come una sfida da superare -avevano avuto molto, tutti loro, ma quando era stato loro presentato il colpo si erano trovati con le tasche vuote o bucate, perdendo ogni cosa.
Sospirò, frugando nelle tasche della camicia per trovare un'altra sigaretta.
Mentre la fiamma dell'accendino allungava una carezza di calore alle sue labbra, scorse una sagoma ferma qualche metro più in là: appoggiata con una spalla allo stelo metallico di un lampione, Roxanne premeva con forza le mani nelle tasche dei pantaloni, guardando verso di lui con un'ostinazione tale da farlo sorridere.
“Perché ridi?” chiese lei, troppo fulminea per non essere prevedibile, troppo attenta per sembrare disinteressata.
“Perché non sembri cambiata affatto” rispose lui dopo un'avida boccata di fumo, abbandonando gli avambracci sulle ginocchia.
La vide seguirne la linea con attenzione, indugiando sui polsi colorati da una moltitudine di braccialetti di stoffa, adagiandosi tra i tendini del dorso e poi scivolando lungo le dita ancora sottili, senza trovare appiglio sui polpastrelli e schiantandosi a terra, gli occhi puntati su una macchia del cemento tra le sue scarpe.
“Invece sono cambiata!” si arrabbiò lei, raddrizzando la schiena e irrigidendo la mascella in una veemente e tutt'altro che tacita ribellione.
Per niente stupito, Izzy si limitò a inalare un altro tiro, senza toglierle gli occhi di dosso.
Un minuto scivolò via, nel silenzio più assoluto, e poi un altro.
Tra di loro sfilò una coppia mal assortita - una giovane prostituta in bilico su tacchi troppo sottili e un vecchio grassone dall'aria volgare - che non li degnò di un'occhiata, e una macchina della polizia sfilò ululando nella via accanto.
Ma non si mossero.

Rimasero immobili, vecchi guerrieri di una guerra mai conclusa, viaggiatori colti alla sprovvista da un terreno troppo fragile per essere attraversato senza lasciare in pegno qualche dolorosa cicatrice.
Fu Roxanne a cedere, con un sospiro silenzioso che sembrò svuotarla di ogni energia. Frugò nervosamente nella borsa, avvicinandosi ai gradini.
“Sei in ritardo di vent'anni” lo rimproverò senza asprezza, sedendosi accanto a lui.
Vicina abbastanza da poter percepire il suo calore sulla pelle, lontana abbastanza da non soffrire poi quando si sarebbero inevitabilmente divisi, vinta dal desiderio di respirare una volta ancora il brivido dell'appartenenza feroce che li aveva uniti e che sanguinava ancora, spezzata senza ragioni, nell'animo di entrambi.
“Non sono mai stato puntuale” le ricordò lui, lottando contro l'impulso di stringerla a sé e cancellare quei cinquanta centimetri scarsi che li separavano.
Nel delicato gioco di equilibri che stavano costruendo, sarebbe bastato un passo falso per farli precipitare in un vortice di rovina senza fine: consapevoli come non mai della delicatezza di quei secondi preziosissimi, indugiarono entrambi nel sapore ovattato di una sigaretta, un lasso di tempo troppo breve per permettere loro di trovare una soluzione, ma ampio abbastanza da poter riempire le loro labbra del sapore dolce amaro dei ricordi più cari.
“Non sei mai stato il tipo che avvisa, del resto..”
Roxanne sbirciò verso di lui, cercandone lo sguardo come assetato cerca ristoro in un bicchiere d'acqua.
“No, hai ragione” sorrise lui “Non sono mai stato un bravo fidanzato”
“No, non lo sei stato.” annuì, pensierosa, e dopo un attimo si strinse nelle spalle “E io non ti ho mai reso la vita facile” gli concesse con un'occhiata vaga e un sorriso che non seppe dire se fosse dispiaciuto o semplicemente rassegnato nel rivangare gli strascichi di un passato tanto remoto.
Rimasero in silenzio, di nuovo, lasciando che fossero i loro respiri a dialogare tra loro, ritrovando ritmi perduti in un affiatamento discreto che nessuno dei due ebbe il cuore di negare.
Erano stati qualcosa di troppo grande per poter fingere che i loro corpi, al di là dei loro desideri, non ricordassero cosa significasse stare così vicini senza potersi sfiorare: era una tortura troppo dolce per poterla fermare, un dolore così delicato e insopportabile da non poter essere ignorato.
Izzy la spiò di sottecchi. Era vero, era cambiata: da ragazza acerba e minuta si era trasformata in una donna dal piglio deciso, i lineamenti induriti dal tempo e da una determinazione che non aveva mai smesso di bruciarle negli occhi scuri, dal colore così denso da farlo sentire prigioniero.
Come una falena che danza attorno alla fiamma, consapevole che un volteggio sbagliato potrebbe ridurla in un un grumo di cenere spazzato via dal vento, allungò istintivamente una mano per riavviarle i capelli dietro un'orecchia, rivelando una serie di piercing lungo tutto il lobo, una catenella di minuscoli anelli argentati che non ricordava di aver mai visto.
Si chiese cos'altro fosse cambiato, su quel corpo che un tempo aveva conosciuto in ogni sua piega e curva, e sotto l'impeto dello sguardo di lei si scoprì impaziente nel desiderio di scoprirlo, di far scivolare via la stoffa della camicia bianca lungo la curva delle spalle di lei per rivelare centimetro dopo centimetro la pelle dove un tempo indugiava in baci bollenti e distratti.
“A cosa pensi?” le chiese invece, ritraendo la mano nel momento in cui la vide irrigidirsi.
Roxanne tacque, per qualche istante.
Avrebbe voluto dirgli che si sentiva di nuovo una ragazzina confusa e spaventata, che la giovane donna distrutta dal dolore che aveva seppellito dentro di sé negli anni stava di nuovo urlando la sua frustrazione, che nonostante tutto stava iniziando a pensare che avrebbe potuto tranquillamente mandare a puttane ogni suo buon proposito e fare qualcosa di estremamente stupido se lui solo gliel'avesse chiesto.
Si abbracciò le ginocchia, posandovi sopra il volto.
Realizzò che non le importava. Aveva sofferto molto, oltre ogni immaginazione e oltre ogni sopportazione, eppure ora capiva perfettamente che stare senza di lui era infinitamente peggio che non scrollare le spalle su vent'anni di vita passati separati per lanciarsi a capofitto in qualcosa che continuava a far parte di lei.
Non voglio che tu te ne vada di nuovo dalla mia vita, pensò nascondendo una fitta di dolore al petto.

“Penso che potresti almeno offrirmi una sigaretta, Izzy Stradlin,” disse invece con un sorriso.

 

Più tardi, stringendo tra le dita un foglietto di carta con su scritto un numero di telefono assieme alla certezza che quel “ti chiamo” non fosse semplicemente una frase di circostanza, si chiesero entrambi perché ci era voluto così tanto tempo per capire la vastità del sentimento che li aveva legati.
Anni e anni di bugie, anni e anni in cui avevano finto di stare bene, di essere liberi, di poter andare avanti da soli -tutto sembrava invece averli spinti in una direzione ben precisa per farli ritrovare in quel giorno preciso.
Il destino, si sarebbero detti qualche giorno più tardi seduti al tavolo di un ristorante, era qualcosa che andava oltre la loro comprensione.
Forse erano nati per stare assieme, forse erano nati per trovarsi, amarsi e, nella perdita, comprendere come non potessero più stare l'uno senza l'altra. Forse era vero, avevano qualcosa che gli altri non avrebbero mai avuto.
Forse, invece, non era niente di tutto questo.
Quello di cui erano certi, seduti sotto il cielo senza stelle di Los Angeles all'ombra di quella chiesa, era che per il momento era abbastanza.
Il resto lo avrebbero scoperto poco alla volta, semplicemente vivendolo.





 

The sun shines out of our behind
Yes, we may be hidden by rags
But we've something they'll never have.


FINE



 

   
 
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