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Autore: Ilaja    12/08/2011    8 recensioni
Come in un videogioco per ragazzi, quando si è in difficoltà si lancia una delle rare pozioni magiche che ti possono aiutare a vincere i mostri, facendoti guadagnare punti. Ad Ale hanno lanciato l’incantesimo “Vulnerabilità” e “Deperimento”, credendolo un mostro, mentre in realtà non è altri che un diciassettenne un po’ timido e amante delle canzoni di protesta. Vive in periferia, e in prima media lo hanno picchiato per i suoi vestiti da dark e l’aspetto di un albino, ereditato dal padre. Da allora non rivolge più la parola a nessuno.
La scuola è sempre la stessa. Le vacanze non gli cambiano nulla. Al pomeriggio fa i compiti e guarda il soffitto. Non accende mai la tele. Tanto sono sempre le solite stupidaggini da consumisti infoiati.
Dalla storia:
“Devo andare. La piadina del mezzogiorno chiama”
“Piadina stracchino e rucola?”
“Prosciutto e rucola.”
“Il prosciutto mi fa venire sete.”
“Mi piace proprio per questo.”
“Che discorso inutile.”
“Già.”
E si allontanò sulla sabbia.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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What’s the meaning of Friendship?

 

 

 

 

 

 

 

Prefazione:

Come in un videogioco per ragazzi, quando si è in difficoltà si lancia una delle rare pozioni magiche che ti possono aiutare a vincere i mostri, facendoti guadagnare punti. Ad Ale hanno lanciato l’incantesimo “Vulnerabilità” e “Deperimento”, credendolo un mostro, mentre in realtà non è altri che un diciassettenne un po’ timido e amante delle canzoni di protesta. Vive in periferia, e in prima media lo hanno picchiato per i suoi vestiti da dark e l’aspetto di un albino, ereditato dal padre. Da allora non rivolge più la parola a nessuno.

La scuola è sempre la stessa. Le vacanze non gli cambiano nulla. Al pomeriggio fa i compiti e guarda il soffitto. Non accende mai la tele. Tanto sono sempre le solite stupidaggini da consumisti infoiati.


 

 

 


Mi svegliai appena si spense il motore dell'auto, riemergendo da un oblio in cui sarei voluto rimanere per l'eternità. Avevo la gola secca. Faceva caldo.

"Siamo arrivati, siamo arrivati!"

Oh, che gioia.

"Fratellone, siamo arrivati, siamo arrivati!"

"Evviva" esclamai, senza una briciola d'entusiasmo.

Mia madre si voltò a guardarmi, un sorriso falso ostentato sulle labbra dipinte di rosso. "Tesoro, siamo al mare! Non sei felice come tua sorella?"

"Di sicuro non salto in mezzo alla strada come un canguro" feci, indicando Elisa, faceva le feste alla spiaggia di fronte a noi quasi fosse un cagnolino. Le mancava solo la coda.

"Ma ti piace il mare, vero?"

Alzai gli occhi al cielo. Diciassette anni che vivevo con lei e mi chiedeva se mi piaceva il mare. Manco fossi stato una signora novantenne appena incontrata al supermercato.

"Certo, mamma."

Aiutai mio padre a scaricare dal portabagagli tutta l'attrezzatura di sopravvivenza di mia sorella: secchielli di cinque e passa forme diverse, una collezione di gonfiabili da far invidia a qualsiasi negozio di giocattoli, palette e rastrelli come se dovessimo andare a zappare la terra. In effetti, forse piantare prezzemolo sarebbe stato più esaltante che passare due settimane in balia di genitori smielati e sorelle iperattive. Almeno non ti dovevi preoccupare di farti piacere la vacanza.

Lo stabilimento contava una decina di file di ombrelloni blu a righe bianche. Qua e là sparpagliati, una massa di mostricciattoli urlanti e piagnucolosi che chiamavano bambini giocavano a schizzarsi d'acqua o a fare torrette con sabbia bagnata, impiastricciandosi felici braccia, gambe, viso e qualcuno anche i capelli. Sempre urlanti ma con un minimo di decenza - relativamente parlando - stavano sul bagnasciuga gruppetti sparsi di ragazzi tanto sorridenti quanto fannulloni. Tutti alti, abbronzati, con capelli perfettamente pettinati anche se c'era vento, i costossissimi costumi che sfavillavano al sole. Alcuni si spingevano scherzosamente, altri ciarlavano, qualche coppia si baciava o passeggiava tenendosi per mano. Li odiavo come odiavo i bambini, ma almeno quei ragazzi non mi davano fastidio. Eccezion fatta per chi giocava a beach volley. Andiamo, beach volley!! Mi andava bene che nullafacenti come bimbi di dieci anni lo facessero, ma c'erano ragazzi più grandi di me che si rincorrevano in mezzo alla sabbia per prendere un pallone!

Preferii volgere lo sguardo altrove, anche se, oramai, anche quel milligrammo di eccitazione - no, chiamiamola scarsità di noia - che mi era venuto all'idea di abbandonare per un breve periodo quella grigia e austera città dove trascorrevo la mia ignobile esistenza sembrava essersi dissolto nel nulla.

 Sembrava essere entrati in un inquietante luna-park da squilibrati mentali.

 

***

 

"Sicuro che non vuoi venire?"

"Sicuro."

"Ma, tesoro, non vieni mai..."

"Sarà per la prossima volta."

"Tua sorella ci rimarrà male."

"Meglio così. Prima si abitua che in questo schifo di mondo non ci sarà mai nessuno che le vorrà bene per quello che è, meglio sarà."

Mio padre se ne andò sbattendo la porta. Mia madre rimase in silenzio.

"Ti rendi conto di quello che hai appena detto?"

"Certo. Ho appena detto la verità."

"Quindi è così che la pensi..."

"Tu non puoi avere idea di cosa penso veramente, né io credo te lo dirò mai."

Gli occhi le si riempirono di lacrime.

"Che cosa ti abbiamo fatto?"

"Niente. Semplicemente, non riuscite a capire."

"Semplicemente siamo stupidi."

"Be'... sì."

Singhiozzò.

"Molto bene. Almeno ci siamo chiariti."

"Splendido. Mi sono tolto un peso di dosso."

Tentò di guardarmi male, ma non ci riuscì. Era una donna troppo dolce per farlo.

"Spero che passerai un bel pomeriggio."

"Lo spero anch'io."

"Divertiti."

"Vedremo."

"Noi..."

"Ciao."

"Ciao."

Non avevo passato un pomeriggio divertente, né quel giorno, né tutti i giorni che sarebbero seguiti.

Ero rimasto lì. A guardare il soffitto. 

 

Sospirai. Da quella domenica di metà novembre mia madre si era chiusa in quello stato di dolcezza e gentilezza persistenti che si usa quando si sta al capezzale di un malato terminale. Ogni volta che usciva mi chiedeva se volevo qualcosa, un regalo, qualcosa che desiderassi; ogni volta gli rispondevo che, no, andava bene così, grazie per il disturbo. Ogni volta che si metteva a cucinare mi chiedeva se avevo qualche richiesta, volevo mangiare qualche piatto particolare; ogni volta gli rispondevo che, no, andava bene così, grazie per il disturbo.

Le nostre conversazioni si riducevano a questo e a vaghe allusioni alle mie verifiche e ai miei eccellenti voti scolastici. Per tutto il tempo che passavamo in casa assieme, mi guardava come se fosse alla ricerca di un saluto, un sorriso, un segno che fossi ritornato in me. Io non glielo concedevo. Non glielo avrei concesso, mai. Perché semplicemente non sarei mai tornato il bambino giocoso ed estroverso che aveva lasciato in prima media.

Quel bambino non esisteva più.

 

***


"Noi andiamo a farci una passeggiata per il bagnasciuga."

"Bene."

Mia madre respirò profondamente prima di azzardarsi a chiedermelo.

"Vuoi venire?"

Scossi la testa.

"Bene. Ogni tanto dai un'occhiata a tua sorella che sta facendo il bagno. La vedi, è quella laggiù, quella sopra il delfino gonfiabile."

"La vedo, è l'unica che parla con un pupazzo di plastica."

Mia madre si morse il labbro.

"Lo fa perché è felice" si intromise, gelido, mio padre. Lo squadrai, pensando che erano mesi che non parlavamo. Lo potevo vedere solo all'ora di cena, e io mangiavo sempre da solo chiuso in camera.

"Lo fa perché è felice" ripeté, quel tono perentorio che non ammetteva repliche e che non sopportavo. "Non perché è matta. Metti ben in chiaro la differenza."

"Le persone felici parlano con chi non le può ascoltare?"

"Anche tu da bambino parlavi con i pupazzi."

"Da bambino. Lei ha nove anni."

"E non è una bambina?"

"Io a nove anni chiacchieravo con i miei amici davanti a un frappé alla fragola."

"Noi sappiamo cose di te da bambino che nemmeno ricordi e di cui non ci sarebbe da vergognarsi."

Mi zittii, guardandolo con odio. "Non ci tengo a saperle."

"Sembri un undicenne."

Calò il silenzio, interrotto solo dal venditore di cocco che girava gridando le stesse parole ogni tre secondi.

"Noi andiamo, tesoro" disse, tremula, mia madre. "Più tardi tua sorella ha detto che ci raggiunge... pranziamo al solito bar..."

"Non credo che verrò, non ho fame."

"Più tardi facciamo il bagno tutti insieme..."

"Gemma, hai sentito che non vuole venire?! Lasciamolo in pace."

Si allontanarono, mia madre che tremava, mio padre che la reggeva, duro e inossidabile.

Ma sì, andate tutti al diavolo.

 

Tentando di non pensare alla litigata con i miei genitori – non che quel battibecco avesse fatto la differenza, nel nostro rapporto -, passai la mattinata nella mia tanto agognata solitudine, a godermi l’aria salmastra. Nonostante odiassi la spiaggia e tutti gli esseri che la popolavano, dovevo ammettere che era rilassante stare a leggere o a chiudere gli occhi, sfiorando con le dita la sabbia scura e fredda dall’alto della sdraio.

La gente che farneticava lungo la riva sembrava dire sempre le stesse cose. Parlava del tempo, della scuola, del lavoro, di amori sperati e di amori traditi, di piccoli desideri e grandi ambizioni. Qualcuno, pensando di fare una figura da studioso davanti a una bella ragazza, si accingeva a discutere di politica citando discorsi sentiti in televisione da vecchi con la barba lunga, ricevendo piena ragione dai cenni del capo dei suoi ascoltatori, fessacchiotti che avevano lasciato la scuola a sedici anni per darsi alla grande, emozionante carriera del meccanico muscoloso che cuccava sempre bene.

Speravo di addormentarmi, per non sentire quelle stupidaggini da minatore imbevuto di birra, ma più di una volta mi ritrovai con il piede a mezz’aria nell’atto di alzarmi e di dirne quattro ai miei vicini d’ombrellone, ritirandomi subito convincendomi che non era il caso di discutere con quei neandertaliani. Secondo il loro modo di pensare, una botta a chi non era capace di  rispettarli era l’unica maniera di risolvere le cose. 

A lungo andare, iniziai a cadere in un torpore sempre più insistente. Il sole tiepido mi accarezzava le gambe, mentre il vento fresco mi levigava il viso; i rumori e le grida che si udivano per la spiaggia continuavano a ripetersi come una nenia dolce e insistente, irritante sentita la prima volta ma poi avvolgente se ascoltata per ore ed ore. Come mosso dalla risacca del mare e sbattuto lievemente dalle onde che s'infrangevano a riva, mi stavo quasi per addormentare, escludendomi dalle urla divertite dei ragazzi che si rincorrevano tra gli ombrelloni...

"Posso?"

Aprii gli occhi, frastornato. Il mio umore nero tornò ad affacciarsi sulla faccia. Ero così rilassato...

Un uomo in costume, sulla settantina e con una pancia da far invidia all'immenso pallone gonfiabile con cui giocavano una coppia di bambini dell'ombrellone accanto, mi fissava dritto di fronte a me, sul volto una maschera di rughe che gli storpiavano il sorriso tirato sulle labbra sottili e scarne. Senza attendere risposta, si buttò di peso sul lettino accanto a me, provocando un tale fracasso che credevo l'avesse sfondato.

"Ehi, ma..."

Il vecchio si grattò la pancia con aria soddisfatta. Già, era soddisfatto. Era finalmente riuscito a rompere le scatole a qualcuno che non fosse una ragazza giovane dalle forme invoglianti.

Se c'era una cosa che non sopportavo più dei ragazzini spensierati, erano i vecchietti dannatamente estroversi. Insomma, solo perché loro non avevano nulla da fare durante il giorno, non significava che anche gli altri fossero liberi e disponibili ad accogliere ogni loro inutile dilemma sull’immensità dell’universo.

“Bella giornata, eh?”

“Tetra” risposi freddamente. “Mi scusi, ma lei… chi cazzo è?” Avrei voluto evitare un tono così scortese, ma la mia irritazione aveva raggiunto l’apice quando aveva dato segni di voler parlare del tempo atmosferico.

“Nessuno che tu conosca” ribatté questi con disinvoltura.

“E allora cosa le dice che io le abbia dato il permesso di sedersi accanto a me e di parlarmi?!”

“Si deve avere il permesso per tentare di fare amicizia?”

Mi morsi il labbro. Decisi di adottare l’atteggiamento di chi si rivolge a un povero sociopatico, giusto per fargli sentire tanto disagio quanto lui me ne stava procurando. “Certo, fare amicizia è una bella cosa…” risposi con tono accondiscendente, impiegando tutte le vibrazioni positive che possedevo. Assai poche.

La frecciata andò a segno, e lo sconosciuto fece una smorfia. “Molto bella, quanto è bello per te andare a funghi nei meandri di una palude.”

Il sorriso strafottente mi morì sulle labbra. “Si può sapere perché mi tormenta?”

“Sei una persona sola, lo si vede lontano un miglio. Io voglio aiutarti.”

“Agenzia cuori solitari, buongiorno. Sono un vecchio pazzo che rompe le scatole ad un adolescente asociale.” Lo guardai malissimo. “Che cosa dolce. Perché non va’ anche negli ospizi anziché stare in spiaggia a prendere il sole, buon samaritano?”

Il vecchio incrociò le dita sul suo bel pancione, il volto apparentemente imperturbabile. “Senti, punkettone…”

“Sono dark.”

“Bene, darkettone…”

“Sono dark e basta. Mi chiamo Ale.”

“Alessandro.”

“No, Ale e basta.”

“Ciao Ale-e-basta, io sono Anselmo.”

“Molto divertente.”

“Mai quanto la tua personalità.”

“Gentile.”

“Non c’è di che.”

Passammo qualche minuto in silenzio, entrambi a guardare un gruppo di ragazzi che giocava a palla tra le prime onde del mare. Sembravano felici.

“Perché non ci provi?”

“A fare cosa?”

“A fare amicizia.”

Mi strinsi nelle spalle. “Non credo che sia gente interessante da frequentare.”

“Ma perché non ci provi?” insistette lui.

Lo guardai male. “Non m’interessa.”

“No?”

“Per niente.”

Anselmo corrucciò le sopracciglia. “Un adolescente che non prova interesse verso un gruppo di belle ragazze…”

“Interesse che sembra provare un vecchio viscido e bavoso.”

Ce l’avevo fatta. Stava per andare via.

Sì, vattene! Esultai mentalmente, nel silenzio che seguì la mia constatazione poco simpatica. Il suo sguardo ferito non mi toccò nemmeno. Di dolore ne avevo provato troppo per potermi rammaricare delle situazioni altrui.

“Il fatto che uno sappia apprezzare la bellezza esteriore e abbia sessant’anni non lo rende automaticamente un maniaco sessuale, sai, punkettone?”

“Dark” corressi, laconico. Ero stupito del fatto che avesse ripreso il dibattito con così tanta indifferenza. Forse anche lui aveva sofferto molto.

“Dark” ripetei, e per la prima volta non osai guardare qualcuno in faccia.

“Per me è lo stesso. Sarai sempre un irritante ragazzino asociale senza fegato né ormoni a smuoverti le gambe e a darti una svegliata, visto che in questo mondo di avvoltoi la cosa più bella che ti possa capitare è avere un amica che ti assista sempre, non gente ostile che ride davanti a tuoi fallimenti.”

Lo fissai con ira. Sapevo come andava il mondo, lo sapevo meglio di lui e del suo pancione decretante filosofie da quattro soldi.

Per questo da anni avevo deciso di non affidarmi ai sentimenti umani. Gli umani erano deboli.

“Ah, non trovi la risposta, eh? I duri a volte sono peggio dei mollaccioni.”

“Io non sono un mollaccione.”

“Ah no? Io pensavo di sì. Lo sai che ci vuole più forza e impegno a mantenere rapporti sociali che a non averne?”

Strinsi i pugni. Il sole diventava sempre più forte, bruciando la mia pelle bianca come la neve.

“Si può sapere cosa vuole da me? Chi è per darmi lezioni di vita? Dio?”

Me lo immaginai, un vecchio panzone che si toglieva la maschera e si faceva crescere una lunga barba bianca, con una veste immacolata e il sorriso da… da buon samaritano.

Questa volta fu lui a stringersi le spalle. “Stavo solo consigliandoti cosa fare. Come hai detto te, non ho nulla di meglio da fare questa mattina.”

Ricademmo in un silenzio pesante. Una parte dei ragazzi della spiaggia stava esultando. Aveva messo fuori gioco un avversario facendolo cadere all’indietro, in mezzo alla sabbia bagnata. Lui stava ridendo a crepapelle.

“Anche se volessi, non sarei mai accettato da loro.” Mi sorpresi a parlarne con un perfetto sconosciuto. Non l’avevo mai ammesso neppure a me stesso.

“E perché mai?”

Sospirai. “Siamo troppo diversi.”

“Sei un eunuco?”

Mi raddrizzai guardandolo scandalizzato. “Santo cielo, no!”

“E allora in cosa siete diversi?”

“I modi di pensare. La ragione. Lo stile di vita.”

Il vecchio si alzò e si stiracchiò. Diversi crac inquietanti risuonarono da quella che doveva essere stata un tempo la sua spina dorsale. Raccolse le ciabatte e il telo che aveva steso sopra il lettino.

“Se ne va?” chiesi. Un attimo dopo mi morsi il labbro. Troppa preoccupazione nel mio tono di voce.

“Perché, ti da fastidio?” rispose lui, ridacchiando.

Non ribattei.

“La piadina del mezzogiorno mi chiama.”

Volsi lo sguardo altrove. “Piadina stracchino e rucola?”

“Prosciutto e rucola.”

“Mhm. A me fa sempre venire sete, il prosciutto.”

“Mi piace proprio per quello.”

“Che discorso inutile.”

“Già.”

Allontanandosi, si girò a guardarmi. “Un ultimo consiglio: da’ qualche possibilità ai comuni mortali. Il mondo è uno schifo per antonomasia, ma non per questo quei poveri ragazzi devono esserne per forza soggiogati. L’essere umano è una macchina splendida. Quando pensi che la sua memoria non possa contenere più un megabyte, ecco che ti stupisce con qualche hardware di nuova generazione.” Mi fece l’occhiolino.

I ragazzi avevano finito di giocare. Adesso stavano chiacchierando, in cerchio.

Mi venne un groppo alla gola quando uno si girò nella mia direzione.

“Scusa!”

Strabuzzai gli occhi. “Dici a me?”

“Ci manca un giocatore per una partita a beach volley… giochiamo al campo dietro lo stabilimento. Vuoi venire?”

No? Sì? Vedremo?

Tentar non nuoce.

Annuii con la testa. Una delle ragazze mi sorrise.

Andando nella loro direzione, mi voltai a guardare nella direzione in cui il vecchietto doveva andare a prendere la sua piadina. Poi ricordai che eravamo in Liguria. Non facevano piadine in Liguria.

Nonostante ci fossero pochi ombrelloni per quella strada, non riuscii ad individuare il suo.

Non era mai esistito.

  
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