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Autore: indiceindaco    12/08/2011    8 recensioni
Perché dimenticare è vile. Per ricordare ci vuole tutto il coraggio a nostra disposizione.
Ambientata durante "Il prigioniero di Azkaban".
"E benché sia il più grande e spasmodico dei dolori, ricordo."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
- Questa storia fa parte della serie 'Cristallizzato nel tempo.'
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"Io mi dico che è meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati"
Fabrizio De André. Giugno '73


 Sono solo, adesso, in questa cabina, di questo vagone, di un treno che sa di risate e tuttigusti +1.
Sono seduto, la schiena un po’ ricurva.
Accanto a me tutti i miei inutili averi, in una valigia consumata.
Lascio scorrere il palmo su quei sedili, che tanti sogni hanno raccolto.
Poggio la fronte sul vetro freddo.
Sbircio fuori.
Orde di ragazzini eccitati ed urlanti si disperdono sulla banchina del binario 9 e ¾.
Felici, spensierati.
Ricominciano un nuovo anno, come anch’io ho fatto, quand’era ancora il mio tempo.
Mi sento talmente vecchio.
Talmente stanco.
Che quasi cerco di accelerare i battiti, perché tutto questo finisca in fretta.
Non so cosa mi abbia spinto ad accettare questa proposta.
La nostalgia, forse.
Lì, su questo vagone, da solo, la fronte sul vetro, chiudo gli occhi.
E benché sia il più grande e spasmodico dei dolori, ricordo.
 
***
Occhi grandi, profondi e caldi.
Occhi che ti entrano nel cuore.
Color del cioccolato.
L’unico capriccio che io abbia mai amato concedermi.
Una zazzera di capelli scompigliati, da chissà quale vento, neri come il buio.
Con uno slancio mi sorride e si accomoda, spontaneamente, accanto a me.
Mi tende la mano, il ragazzino espansivo e focoso.
-Ehi! Scusami, ma ho deciso che devo far amicizia con te. Non mi piace che tu stia qui: tutto solo!
Una voce squillante, allegra, guizzante.
Mi spaventa un po’ il suo modo di fare, così diretto ed indiscreto.
Non so se mi infastidisce o se ha un carisma accattivante.
Comunque vada, per educazione, stringo la mano che mi ha allungato con entusiasmo.
Ha una presa calda, sicura, si direbbe…rassicurante?
-I-io sono…Remus.- dico, sulle mie.
La timidezza comincia a serrarmi la gola, sento che arrossisco.
Ma a lui non sembra importare. Vuole forse mettermi a mio agio?
-Piacere, mi chiamo James. James Potter.*
Lo guardo.
Le sue labbra sorridono, sincere.
I suoi occhi sembrano sapere già tutto di me.
E non mi sono mai sentito così nel “posto giusto” come adesso.
James.
 
 
***
Guardo i miei nuovi compagni di casa.
Come mamma aveva predetto, stampandomi un bacio appiccicoso sulla guancia, sono stato smistato a Grifondoro.
Mi guardo intorno, sentendomi piuttosto Corvonero.
D’improvviso il Cappello Parlante giubila di nuovo:
-GRIFONDORO!
Il silenzio cala nella Sala Grande.
Un brusio di protesta, forse mal celata, si leva da quelli che James mi ha indicato come i nostri “nemici”.
Capisco che il motivo di tanto silenzioso baccano è il ragazzino che è stato appena smistato, come me, nella Casata di Godric.
Non alto quanto elegante.
Dall’espressione basita.
Ha le labbra piegate in un mezzo sorriso: non di disgusto, non d’orgoglio.
Sembra essere lì per caso, un passante distratto, come se nulla potesse realmente toccarlo o sconvolgerlo.
Guarda ai Serpeverde, ma non con delusione…si direbbe indifferenza.
Si alza lentamente. Fa un inchino alla professoressa McGranitt, più stranita di lui, e si dirige verso il nostro tavolo.
James lo guarda curioso. Io, al mio solito, sospettoso.
Mi lancia uno sguardo complice, come se fossimo confidenti.
Sta per sedersi, un quattro panche lontano dalla nostra, ma cambia idea.
Repentino, imprevedibile, si abbandona accanto a me.
-Si, lo so, i miei avi stanno già rivoltandosi nelle loro povere tombe!- sbotta d’un colpo, facendo sghignazzare il mio nuovo amico James.
Non colgo la battuta.
-Un Black tra i Grifondoro? Al mio vecchio verrebbe un colpo, se mi sapesse tra i Serpeverde!- annuisce, con l’aria di chi sa, James.
Continuo a non capire.
Sono sicuro che James sappia qualcosa a proposito della famiglia di quell’undicenne.
Sono sicuro che James mi spiegherà, perché io ignoro la natura della sua identità.
James ed il ragazzo si sono già presentati.
Un paio d’occhi vispi ed arditi si incastrano nei miei.
-Piacere, Remus, giusto? Io sono Sirius Black.
Mai avrei saputo dare nome migliore a quel paio d’occhi.
Sirius.
 
***
Camminiamo, ridendo, per i corridoi della nostra scuola, quando James ci fa segno di tacere.
Sembra che qualcuno stia piangendo.
Ci guardiamo, interrogativi e svoltiamo l’agolo.
Sirius alza un sopracciglio, ritirando le braccia al petto e guardando, con quel suo cipiglio nobile, il ragazzino, che poggiato ad una colonna, piange.
James è già al suo fianco e gli poggia una mano sulla spalla.
Io sono indietro, alle spalle di Sirius.
Lo guardo.
È minuto, per avere undici anni.
Ha dei capelli paglini e liscissimi.
Gli cadono sulla fronte.
Ci guarda smarrito, spaventato.
Gli occhietti piccoli ed acquosi, bagnati di lacrime.
Ci spiega che è stato vittima di uno scherzo.
Dei ragazzi del quarto anno avevano trasfigurato la sua mano in una biscia.
E lui trema ancora di paura, perché odia i rettili.
Dice che non è la prima volta che lo bistrattano.
-Stai tranquillo, non succederà più. Ci siamo noi qui, adesso! Come ti chiami?
È il cuore di James, sempre pronto a battere per qualcun altro, a parlare.
-Peter Mi-mi-mi-nus- balbetta il ragazzino.
Peter.
 
***
 Non avrei potuto immaginare cosa ci sarebbe successo.
Quando sei un ragazzino, forse, non consideri certe cose.
Pensi che tutto possa davvero durare per sempre.
James, Sirius, Peter ed io, passammo i nostri sette anni ad scuola sempre insieme e nella felicità più assoluta, fatta anche di piccole cose.
Ed è questa la punizione che mi spetta, per tutta quella felicità, forse immeritata.
James è morto.
Peter è morto.
Sirius, l’ho perso. E forse è meglio così.
Ed il mio cuore se n’è andato via con loro.
È avvizzito, dal dolore.
Mi dirigo nella stessa scuola della mia adolescenza, ma da insegnante questa volta.
Sento l’obbligo di ricordarli.
Sento l’umido nei miei occhi.
E benché sia il più grande e spasmodico dei dolori, mentre ricordo, non posso far a meno di sorridere.
  
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