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Autore: Neal C_    17/08/2011    4 recensioni
Virginia Foster si trasferisce in una cittadina anonima, Rodeo, in California. Abituata ad essere sempre la prima della classe neppure alla Pinole Valley High School si smentisce e così non può rifiutare una richiesta della cordinatrice del suo corso: aiutare un compagno di classe particolarmente refrattario allo studio, con la testa perennemente nella musica, spesso assente e in continuo conflitto con i professori a cui si rivolge con linguaggio piuttosto colorito, contestando tutto.
Saprà rimettergli la testa a posto o verrà trascinata nel suo mondo di insoddisfazione, di ribellione e continuo rifiuto?
Ha solo cinque mesi per convincerlo* che la scuola non è tutta da buttare, lei che nei libri e nella cultura ci naviga fin da bambina.
*(Armstrong abbandonerà il liceo il 16 febbraio 1990, il giorno prima di compiere diciott'anni.)
[Rating Giallo: linguaggio colorito]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Billie J. Armstrong, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Virginia Foster 1989-2004'
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31 Luglio 1990
una lunga gita in campagna



Oggi è l’ultimo giorno.
L’ultimo giorno prima del mio trasferimento a LA, io e Juls.
Alla fine l’abbiamo avuta vinta su tutta la linea.
Devo dire che all’inizio pensavo che avremmo finito per lasciarci in un paio di mesi e avrei passato il periodo del diploma doppiamente stressata, per colpa sua e della vagonata di cose che mi è toccato ripassare.
Si, sono entrata in paranoia. Questi momenti mi fanno uscire pazza!

Non perché mi vengano crisi isteriche, pianti o altre inutili manifestazioni di stress che servono solo a sfiancarti, no.
Io mi metto lì, ad una cazzo di scrivania e studio, continuamente.
Giorno, notte, pomeriggio, sera, lunedì come venerdì, sabato, o anche domenica.
Poco importa che ore siano, se sia ora di pranzo, se ora di cena, di letto, se sono le tre di notte.
Anzi, non mi accorgo di avere fame, non mi accorgo che sto per farmi sotto, non mi accorgo che sono stanca finché non mi addormento sui libri.
Sono così ossessivo compulsiva che chiunque mi conosca o viva a stretto contatto con me finisce per spaventarsi.
Tra l’altro, qualche settimana fa, mentre io ero tappata in camera mia come al solito, alla mamma sono venute le doglie e siamo dovuti correre tutti in ospedale.
Io e papà abbiamo aspettato fuori un bel pezzo, lui emozionato e allo stesso tempo ansioso, io dolorante perché la testa mi pulsava terribilmente e avevo un gran bisogno di dormire, cosa che non ho fatto bene per giorni.
Poi finalmente ecco l’infermiera arrivare col nostro piccolo Franz che singhiozzava a più riprese.
Mio padre stava per mettersi a piangere, io guardavo il neonato piuttosto incuriosita ma ammetto che non sono riuscita a volergli bene subito.
Insomma...era piccolo, e rosa e raggrinzito...
Si lo so, è la scusa di tutti i bambini piccoli; quando vedono per la prima volta il nuovo nato, esclamano con voce ingenua e innocente un “ma papà, come è brutto/a il/la fratellino/sorellina”, ma loro alla fine non si sentono in colpa per aver pensato quello che ho pensato io.
Poi quando è arrivato in casa la nostra vita è cambiata.
Mamma, nonostante fosse ancora un po’ provata, si affannava appresso alla creatura, papà che temeva per mamma si era fatto ancora più ansioso oltre che assonnato per le notti passate insonni.
E poi naturalmente c’ero io, che dovevo studiare, che per questo venivo lasciata in pace, peccato che fossi anche io vittima degli strilli del neonato.
Tra l’altro Franz non è affatto un bambino tranquillo. Anzi, diciamolo, è un gran rompicoglioni per essere un esserino che pesa tre chili e mezzo.
Inutile dire che ad un certo punto ho affrontato il discorso in famiglia, dicendo che non riuscivo a concentrarmi con Franz che faceva casino in casa, non riuscivo nemmeno a dormire e quindi avevo continuamente sonno; insomma mi stavo affossando e in più l’esame si avvicinava sempre di più.
All’inizio mia madre mi voleva vicino a loro per mantenere il nucleo familiare o cazzate simili ma alla fine ha ceduto e come al solito ho chiesto ospitalità a Mike-biondo-platino.
Di male in peggio.
Si faceva un tale casino da loro e c’erano talmente tante distrazioni che davvero non riuscivo a concentrarmi, la mia ansia e la mia insofferenza aumentavano sempre di più.
Poi alcuni dei ragazzi cercarono di prendere la palla al balzo chiedendomi di aiutarli nel ripasso e io come al solito mi offrii tutta carina e disponibile.
Non l’avessi mai fatto!
Alcuni non erano assolutamente portati per lo studio! Avrebbero fatto meglio a darsi all’ippica!
E invece dovevano prendere quel maledetto diploma e quindi mi rompevano le palle perché spiegassi per poi distrarsi, non capire niente, ripetere a pappagallo.
Poi invece c’erano Al e Dirnt più un paio di altri con cui era più facile ripassare.
Non che fossero degli scienziati anche se in effetti Al aveva davvero una buona testa per lo studio e anche una base di cultura generale migliore degli altri.
Mike-biondo-platino invece aveva parecchie carenze ma afferrava al volo, faceva collegamenti che alle volte mi stupivano e alla fine mi sono convinta che, quel benedetto diploma, lo avrebbe preso lo stesso, pur non avendo mai studiato molto. E in effetti così è andata, se l’è conquistato anche se faticosamente e con appena la sufficienza.
Alla fine ho dovuto chiedere asilo ad un certo Bob, amico di Juls, e ad un certo punto anche il mio ragazzo si è trasferito con noi.
Era un piccolo appartamento di proprietà di Bob che lui aveva condiviso con un ragazzo straniero che appena qualche mese fa si era ritrasferito dalla famiglia in Messico, e lo aveva mollato senza nemmeno pagargli l’affito.
Fossi in lui gli avrei fatto causa o qualcosa del genere, fatto sta che Bob ne parlava tranquillamente e sosteneva che se fosse tornato gli avrebbe fatto pagare gli arretrati, a quel figlio di puttana,  altrimenti era comunque un povero diavolo e non valeva la pena rincorrerlo per mezza America per un mese di affitto.
Mi sono anche offerta di pagargli quelle due settimane e mezzo che mi mancavano prima del fatidico giorno del diploma ma lui ha rifiutato dicendo che era solo un piacere ospitare Juls e compagni.
Che dire? Alla fine mi sono limitata a comprare una bella torta al cioccolato e un po’ di birra e succo di pera per festeggiare il primo week-end di pace.
Ho spiegato ai ragazzi della squatter che non era cattiveria o cosa, ma davvero non riuscivo a concentrarmi, era davvero stressante e credo che abbiano capito tutto tranne il perché della mia ansia patologica. Ma quello me lo aspettavo, niente di nuovo sotto il sole.
Ogni tanto mi arriva qualche lettera di Jenny che mi scrive da Los Angeles.
Lì è contenta, dice che c’è molto più lavoro, una lunga lista di clienti e, alle volte è così stanca che non ha tempo né voglia di fare niente, solo di sbracarsi su un divano, un letto, un cuscino, insomma qualcosa di morbido e crollare nel sonno.
La cosa che mi sembra assurda è che quando le chiedo di raccontarmi un po’ della città sostiene di non averla mai girata! Cristo santo! Sono praticamente tre mesi che sta lì! Perché non si guarda intorno!?

Mi toccherà trasferirmi in fretta, altrimenti quella poltrona passerà il resto dell’anno chiusa in officina fra motori, cassette degli attrezzi e taniche di olio.
Nei giorni scorsi ho finalmente ricevuto il risultato dei miei esami di ammissione all’ UCLA.
Ovviamente ho preso il massimo.
Pensavo che non ce l’avrei fatta, dovendo studiare per il diploma, a prendere il massimo anche ai test di ammissione e come al solito mi sono sottovalutata. Però è un metodo che funziona!
Quando l’ho comunicato in famiglia sono stati tutti entusiasti anche se, da come hanno reagito, praticamente se lo aspettavano.
Invece i ragazzi della squatter si sono complimentati ma non sembravano dare molto peso alla cosa.
Persino Mike-biondo-platino che in genere è abbastanza carino con me, si è limitato a sollevare la testa dal suo basso e a latrare un “brava”, non molto impressionato o entusiasta.
Billie, non ne parliamo.
Dal giorno della famosa lettera l’argomento scuola è out.
Ancora mi sembra assurdo come io abbia fatto ad essere così stupida.
Non ho avuto sentore della cosa finchè non è passata la prima settimana e mi sono accorta che il mio caro vecchio compagno di banco non si presentava a scuola da una settimana.
Ho costretto Jules ad accompagnarmi alla squatter per cantargliene quattro e ho dovuto aspettare le dieci di sera prima che rientrasse.
Quando gli ho urlato in faccia un “che cazzo stai facendo, razza di coglione, fra qualche mese abbiamo gli esami?” mi ha guardata allibito, come se avessi qualche serio problema mentale.

“Dì, ma per caso ti sei drogata?”
“Cosa?!”
“Ti hanno offerto qualcosa che assomigliasse ad una sigaretta ma era più grossa e aveva un profumino cento volte meglio?”
“Armstrong! So com’ è fatta una canna!”
“Questo spiegherebbe tutto...”
“Questo non spiega un cazzo! E non cambiare argomento!”
“Sei sicura di non aver fumato niente? Nemmeno per sbaglio?
Ti hanno offerto della birra che sapeva di strano?”

Continuava a prendermi per il culo, ogni secondo di più, con un mezzo sorriso divertito che aveva sostituito la sorpresa di poco prima.
Tra l’altro io mi rifiutavo di lasciarlo entrare in casa se prima non mi avesse dato spiegazioni.
L’ho già detto che non sopporto i coglioni?!
Ad un certo punto deve aver esaurito la pazienza con me perché ha digrignato i denti, irritato e ha sbottato:

“Cristo santo, l’ho fatto davanti a te! Davanti a te, genio!
Secondo te che cazzo ci siamo detti io e il coordinatore?!
-Oh, salve, che bella giornata vero? Un po’ nuvolosa ma certamente in settimana migliorerà, le temperature saliranno e così non si congelerà il culo ogni volta che esce di casa?!- ”
“D-davanti a me?”
“Tra l’altro questo significa che non hai ascoltato nemmeno una parola di quello che ti ho detto settimane addietro! Per di più mi hai rotto i coglioni fino allo sfinimento per quella storia; era per sport?!”
“Oddio, quella lettera...erano le dimissioni?”
“Si chiama rinuncia agli studi. Magari avessi dovuto presentare le dimissioni!
Significa che avrei avuto un cazzo di stipendio che non fosse quello di cameriere!”
“Mio Dio...”
“Adesso se vuoi gentilmente levarti dai coglioni, sai, vorrei entrare in casa mia.”

A parte la solita delicatezza con cui si è svolto il tutto la cosa mi ha molto impressionato.
Pensavo fossero tutte chiacchiere.
In fondo Billie diceva tante di quelle spacconate, e si comportava spesso da idiota patentato.
Ci ho messo un po’ a digerirlo e l’atteggiamento di Mike Edwards non mi ha molto aiutato in questo frangente.
Un paio di settimane dopo l’accaduto ormai era consolidata la notizia che Armstrong aveva lasciato la scuola. Ne avevano anche parlato per i corridoi e non pochi sguardi si erano volti a me.
Non che sembrassi molto in confidenza con lui, anche perché durante le lezioni  Billie preferiva scarabocchiare, dormicchiare, canticchiare, insomma pensare ad altro: alla fine ci parlavamo poco agli occhi del resto del mondo.
Però sicuramente ero una delle poche persone che gli rivolgevano tranquillamente la parola, quando c’era qualcosa da dire. Non avrei saputo trovare un argomento di conversazione con lui che ci buttasse in appassionate discussioni quindi meglio limitarsi a piccoli commenti o comunicazioni di servizio.
Fatto sta che Mike, ogni tanto, si accostava a me e chiedeva con finta apprensione quando avrei deciso di ritirarmi a mia volta, come il mio amichetto.
Ovviamente gli ho risposto che poteva andarsene anche a fanculo per quanto mi riguardava.
Inutile dire che questo non aveva fatto che incrementare voci, stupidi pettegolezzi e decine di occhiate che ogni tanto mi seguivano per i corridoi.
Grazie al cielo è passata anche questa.
Quante ne ho perdonate a Michael in questi mesi, compreso il suo tentativo di screditarmi agli occhi del rappresentante dell’UCLA presso il quale avevamo il colloquio, io per medicina, lui per ingegneria.
Ma il signor Wellington fortunatamente ha capito la situazione e ha  insistito perché svolgessimo i colloqui separatamente, adducendo al fatto che “si tratta di due percorsi di studio assolutamente differenti ed è necessario considerarli attentamente, in un teté a tete che sicuramente metterà più a suo agio lo studente” e bla bla bla.
Lasciando perdere quest’episodio che mi ha fatto incazzare non poco alla fine mi manca da morire: ci sarà un motivo per cui lo considero il mio migliore amico?!
E domani devo partire e non sono riuscita nemmeno a parlargli.
Magari anche stavolta sarà una cosa a lieto fine.
Prima Jenny, adesso Mike.

Virgin, you can do it.

***********************

 

I bagagli sono pronti da un pezzo.
Alla fine ho optato per due valigione belle piene, una di beni necessari, dall’abbigliamento, ad asciugamani, lenzuola, scarpe, biancheria, roba da bagno e quanto di trasferibile, l’altra per i libri e tutto il “superfluo”.
L’indomani la mamma preparerà il purè di patate; ce lo porteremo, con un po’ di pane, e ci fermeremo a mangiare da qualche parte sulla superstrada. E il pranzo è risolto. Anche perché sei ore di auto non sono poche, sperando poi di non perderci anche se papà mi ha detto che è piuttosto segnalata come destinazione.
So che stasera mi aspetterà una specie di festicciola di addio, stavolta necessariamente alla squatter, per ricordare i bei vecchi tempi, quando controllavo freneticamente che tutto fosse in ordine, pulito, preparato, aggiustato e assolutamente funzionante.
Ma più che stasera mi emoziona la pazza idea che mi è venuta in testa.

Ho deciso di andare a trovare Mike e di risolvere una volta per tutto.
Farò qualunque cosa per farmi ascoltare anche se spero di non doverci arrivare neanche.

Mi sono mossa nemmeno cinque minuti fa da casa e già intravedo Casa Edwards.
Juls dovrebbe essere da Bob o forse alla squatter a dirigere la preparazione della festa, anche se non è decisamente da lui.
Finalmente arrivo al campanello, davanti al portone di casa e busso, ma nessuno sembra rispondere.
Probabilmente anche questo è rotto, di campanello.
Sembra una malattia abbastanza comune qui a Berkley, si fatica a mantenere vivi  e funzionanti i campanelli della porta di casa.
Colgo l’occasione per affacciarmi al vetro di una finestra piuttosto bassa, sempre sulla facciata, proprio di fianco alla porta, e vedo la schiena di Mike, intento a guardare uno strano programma televisivo, forse un documentario sugli alligatori o roba del genere.

Lo chiamo, cercando di attirare la sua attenzione e lo vedo drizzare le orecchie ma ancora non si gira.
Mi avrà riconosciuta o avrà pensato che fosse la tube?
Cerco di alzare la voce e continuo a ripetere il suo nome, scandendolo quanto più possibile e muovendo le braccia, per farmi notare.
Ma, poco dopo, incontro lo sguardo atono di Mike che mi osserva indifferente come se fossi un fantasma che è passato attraverso un muro, frutto della sua immaginazione.
Mi fissa per un po’ mentre io lo incito a farmi entrare, a non fare l’idiota, ad ascoltarmi perché sto per partire e forse non ci rivedremo se non dopo molto tempo.
Non fa una piega, anzi, meglio, si piega sul tavolino di fronte al divano e afferra qualcosa.
Poi improvvisamente il volume della tube aumenta, frastornando persino me che sto lì fuori.
Era il telecomando quello. Ha alzato il volume.
Quello stronzo ha alzato il volume per non sentirmi!
Mi agito ancora di più, picchio contro il vetro, adesso più che mai sono decisa ad entrare in quella casa anche solo per tirargli il collo.

“MIKE EDWARDS, SE NON APRI QUESTA CAZZO DI PORTA GIURO CHE APPENA AVRO’ BUTTATO GIU’ QUESTA FINESTRA TI FICCHERO’ QUEL FOTTUTO TELECOMANDO NEL CULOOO!!!”

Faccio tanto casino che alla fine lo vedo avvicinarsi alla finestra con un’espressione ostile e profondamente irritata. Ma almeno mi caga, è lì a guardarmi in cagnesco.
Si limita ad aprire un’anta della finestra mantenendo bloccata l’altra e a sbuffarmi in faccia:

“Virgin, vaffanculo.”
“Non sia mai che ci vada prima di te.
Fammi entrare.”
“No, vaffanculo”
“Fammi entrare, Mike Edward.”
“Vaffanculo”
“Ma sai dire solo questo?!
E non me ne andrò finchè non mi avrai ascoltata!”
“Virgin, se non te ne vai, ti chiudo la finestra in faccia e chiamo la polizia.”

Lo guardo attonita. Sta scherzando?! È improvvisamente impazzito?!
è il mio migliore amico quello con cui sto parlando?!
Lui sembra serissimo e si mordicchia nervosamente il labbro superiore, quasi con rabbia mentre i suoi occhi fissano i miei rabbiosi, accusatori.
Non capisco di cosa mi accusi.
Adesso sono qui,  sono davanti a lui, tra un po’ gli striscio sulle scarpe, come un verme.  
Che altro dovrei fare per lui?
Perdo tutta la mia baldanza, mi affloscio come un ghiacciolo mezzo sciolto, metaforicamente parlando.
In poche parole abbasso lo sguardo e mi sento gli occhi bruciare.
Probabilmente sono rossi. Anzi riesco a vederlo nel vetro dell’anta ancora chiusa.

“Mike, tu...sei il migliore amico...tu...non dovresti fare così...!”
“beh, adesso è Armstrong il tuo migliore amico. Contenta? No? Non sono cazzi miei.
Torna pure dai tuoi migliori amici! Che stai aspettando, ancora qua?”

Mi chiude la finestra in faccia. E mi lascia fuori.
La Tv continua ad assillarmi con quell’odiosa voce elettronica che mi ronza nelle orecchie.
Vorrei gridare, vorrei rompere quel vetro, vorrei ripetergli chissà quante volte che è una stronzo, non se la merita la mia amicizia, non si merita niente da nessuno.
E io continuo a starci una merda, è questo il problema.
Dalla finestra posso vedere l’orologio da parete che segna le sei e mezza del pomeriggio.
Mezz’ora fa doveva venirmi a prendere Juls.
Ma io non voglio andare a quella stupida festa di addio.
Ne ho abbastanza di feste, riconciliazioni, ore e ore passate a sudare, preoccuparmi, scegliere le parole giuste per rimediare ai casini che sono riuscita a combinare in soli fottuti undici mesi qui a Berckley.
Voglio sparire, anzi avrei voluto rimanere a Berlino con Hana, con i miei vecchi amici che nemmeno sento più: Karoline che diceva che mi avrebbe scritto, Hans che mi prendeva in giro perché andavo nella patria del jazz e del blues e non sapevo nemmeno chi fosse Miles Davis, Erich che mi aveva promesso che sarebbe venuto a trovarmi, uno di quei giorni che fosse venuto a trovare i suoi zii a San Francisco, Franzisca che mi aveva strapregato di mandarle una bandiera americana da appendersi in camera.
 Adesso niente.
Davvero voglio andare a vivere a Los Angeles con uno sconosciuto?
Davvero posso considerare miei amici una banda di sbandati che moriranno a trent’anni di overdose oppure li stroncherà il cancro a quarant’anni se non si suicideranno a venti?
Non lo so. Non lo so cosa mi ha preso. Come cazzo ho potuto?!
Cristo Santo, magari Mike ha ragione. 
Magari sto per fare la più grande stronzata della mia vita con il suo fratellino se non l’ho già fatta con quella gentaglia.

“VIG!”

*******************

Juls mi ha raccolto lungo la strada.
Quell’uomo è davvero ottuso.
Va bene, non ero in lacrime ma sicuramente non ero un fiore.
E lui non si è accorto quasi di niente.
Mi è bastato dirgli che ero un po’ stanca perché non avevo dormito e lui ha lasciato che mi appisolassi sul sedile.
Forse lo fa per enfatizzare l’effetto sorpresa quando arriviamo, non so cosa abbia in testa, ma grazie al cielo si sta zitto e buono, guida con un blues di sottofondo alla radio.
Ovviamente non dormo anche se probabilmente è quello che crede.
Cosa farò una volta arrivata là?
Non lo so. Vorrei non averlo incontrato.
Vorrei essere in un posto sperduto, persa per quartieri di Berkley che nemmeno conosco, magari senza un cane per strada, per potermene stare lì, così, in silenzio, magari a deprimermi grazie a quel grand’uomo di Mike Edwards.
E invece non ne ho il diritto. Siamo arrivati.
Cominciano ad affollarsi intorno a me, a salutarmi, a urlarmi addosso, a cantare non so cosa.
Basta, mi sento male.
Smettetela.
BASTA, SMETTETELA.

“STOP THIS FUCKIN’ SCREMS, SHUT UP!!!*”

Incredibile. Hanno smesso.
Non tutti, ma almeno non mi sento soffocare dalle loro voci.
Li guardo e non riconosco i volti.
Mi sembra di vedere Mike che mi digrigna i denti in faccia, con quella faccia di cazzo che si ritrova, e mi dice che chiamerà la polizia.

“COM’OUN, CALL THE PIGS!
CALL THE PIGS, YOU FUCK!
CALL THE PIGS IF YOU HAVE THE BALLS!!!*”

Si, chiamali. Non ci credo.
Adesso torno là, a casa di quel verme, sfondo la porta di casa e lo picchio a sangue.
Non chiamerà la polizia perché è solo uno stronzo, forse geloso, forse così idiota da cacciarmi in quella maniera, ma più di tutte è un coniglio, un ignobile vigliacco.
Mi sento la gola bruciare, il muco che chiude il naso e sento che sto per piangere.
Non voglio piangere.
Prima riduco quel coglione ad uno zerbino da bagno e poi posso farmi tutti i pianti che voglio.
Però...prima fate smettere l’eco. Sento l’eco che ripete il mio nome.
Mein Gott, sono diventata completamente pazza?

“Virginia”
“Eh?”
“Calma ok?”
“Cosa?”

Davanti a me c’è Mike-biondo-platino che mette avanti le mani lentamente e poi mi prende per un polso. Io non reagisco. Non capisco che cazzo faccia Dirnt. Perché si muove così lentamente?
è improvvisamente diventato ritardato?
La gente comincia a sfollare mentre Pritchard mi tira verso l’interno.
Mi faccio condurre in casa, cercando di non incontrare lo sguardo di nessuno.
Se non li vedo, non mi vedono e non mi vengono incontro.
Se non mi vengono incontro, non mi urlano addosso.
Non guardate, siate ciechi per un momento e poi continuate pure a fare il cazzo che vi pare.
Mi porta in bagno, davanti al lavello.
Dio, che orrore la mia immagine allo specchio: capelli rossicci che sembrano paglia, il mio pallore mi fa schifo e nemmeno piangere aiuta a farmi mettere un po’ di colore.
Cristo, ho gli occhi rossi, mi si sta sciogliendo il trucco, sono in condizioni pietose.
Lui apre il lavandino. L’acqua scorre, poca ma scorre.

“Mike, che fai?”

Mi sciacqua la faccia, come se fossi una bambina incapace di intendere e di volere.
E la mia matita va a farsi benedire. Era verde e adesso è una grossa macchia che arriva fino alle sopracciglia. Magari potrebbe sembrare ombretto.

“Tutto bene?”
“No.”
“Fin qua ci arrivavo anche io.”
“Voglio stare sola.”
“Me ne vado?”
“Si.”
“Non vuoi proprio nessuno? Chiamo Juls?”

Nel frattempo si è allontanato, è praticamente sulla porta.
Voglio che sparisca il prima possibile e con lui tutti quelli che mi capiteranno a tiro.
Le sue parole per un attimo mi fanno riflettere.
Voglio Juls vicino a me? No, certo che no. E poi non voglio che mi veda in questo stato, per suo fratello per giunta.

“No.”

Lo vedo poco convinto.
Non me ne frega un cazzo di quello che pensi, Dirnt.
Sparisci, esci da quella porta, non costringermi a urlartelo.
E invece continua, aggiunge, dubbioso:

“Devo annullare la festa?”
“Cristo santo, si! Sparisci ok?! Tutti quanti! Mandali a casa!
Non c’è nessuna festa qui! La festeggiata è pazza, è malata, è stata ricoverata per malattie mentali!
Racconta il cazzo che ti pare, basta che vi leviate dai piedi tutti quanti!!!”

Non batte ciglio.
Chissà, probabilmente gli capita tutti i giorni di sentire una miriade di insulti che non ci fa quasi più caso.
Bene, ci mancherebbe dover chiedere scusa anche a lui.
Poi mi colpiscono quegli occhi azzurri, così pazienti e così malinconici.
Dirnt, te la sei presa?
No, forse sei triste per me. È commiserazione?
Ma basta. Sparisci.
Si ecco. Così. Non ci sei più.
Adesso posso chiudere la porta, appoggiarmici con la schiena, testa sulle ginocchia, quelle ginocchia che stringo al petto, forteforteforte...

Schiatta di morte violenta, Mike Edwards.
Mi hai rovinato l’ultimo giorno qui a Berkley.

**************

Passo per casa a prendere i bagagli.
Ho passato la notte in quel bagno, mi sono addormentata accovacciata sul pavimento.
Tanto siamo a luglio e fa caldo.
Mi sono alzata verso le cinque e mezza.
Non avevo assolutamente voglia di spiegare a tutta la squatter che cosa mi ha preso ieri sera, anche perché non lo so nemmeno io.
Sono stata una stupida.
Dovevo levarmi questo sasso dalla scarpa secoli fa:
Come ho potuto far passare cinque mesi prima di accorgermi che orami Mike aveva definitivamente chiuso con me?
E perché intestardirsi a questo punto?
Anche io ho chiuso con lui. È quello che vuole ed è quello che avrà.
Sto per partire, per farmi un futuro e lui non ne farà parte. E saranno cazzi miei.
Non si può costringere gli altri a fare tutto quello che vuoi.
Devo darci un taglio con questa mania di controllare la gente e incazzarmi quando le cose non vanno come ho previsto.  Ho sempre dato per scontato che sarebbe andato tutto a posto. Come al solito.
Me ne sono andata di soppiatto passando fra il russare generale e sono andata alla fermata dell’autobus.
Peccato che questo significava aspettare almeno un’altra ora, finché non tornavano a circolare i mezzi.
E invece niente. Stavolta un cane lo avrei gradito volentieri, munito di patente, però.
Mi sono messa sul ciglio della strada e aspettato che passasse qualcuno che andasse nella mia direzione.
Ho dovuto aspettare una mezz’oretta e finalmente è passato un tizio con una camionetta, con sopra il logo di una nota bevanda energetica.
Ho steso la mano, il pollice alzato, e ho chiesto un passaggio.
Quello si è fermato e mi ha fatto salire.
Aveva una faccia simpatica, pacioccona ed era praticamente obeso.
Non ha fatto molte domande e io mi tenevo all’erta.
Diciamo che l’autostop è roba del ventennio scorso* e quasi nessuno si fiderebbe di farlo ma stamattina non ho nessuna voglia di aspettare.
Volevo arrivare a casa, preparare i bagagli, salutare i miei e lasciarmi alle spalle questo buco.
Lo vedo per quello che è, il buco più incasinato, in culo all’America.
Ok, basta Vig, pensiamo positivo...

Alla fine ho scoperto che il camionista si chiamava Brad, aveva quattro figli, due gestivano un negozietto di alimentari che lui aveva lasciato loro.
Notevole spirito di sacrificio perché la vita di un camionista deve essere cento volte peggio di quella di due comodi proprietari di un negozio.
Gli altri due vanno ancora a scuola ma uno dei due è piuttosto portato per il disegno.
Lui sta mettendo da parte dei soldi per mandarlo ad una qualsiasi accademia in cui possano insegnargli a sfruttare il suo talento. Dice che se lo merita.
Ha parlato tranquillamente per quella mezz’ora che ci ha messo a portarmi dall’altra parte d Berkley.
Poi prima di lasciarmi scendere mi ha ringraziato.

“E di cosa? È stato bello starla ad ascoltare.
Quanto vorrei che tutti potessero parlare e ascoltare così, liberamente.”
“Quindi andrai a Los Angeles?”
“Si, la ringrazio ancora per il passaggio.”
“Sempre bello, in compagnia.”
“Arrivederci, auguri per suo figlio.”
“Anche a te.”

Che persona gentile.
Peccato che dovrò omettere il particolare dell’autostop altrimenti, maggiorenne o no, mio padre mi incatena ad una sedia pur di non farmi muovere di un millimetro.
Sono appena le sette meno un quarto e sono già in camera, a mettere in valigia le ultime cose.

Sono appena le dieci quando squilla il telefono di casa mia.
E Franz fa eco al telefono strillando anche lui, beatamente.
è meglio che mio fratello si sbrighi a crescere se vuole rimanere ancora vivo.
Dopo almeno quattro squilli sono costretta ad andare alla ricerca di un telefono e stranamente è ancora lì a trillare, al settimo squillo. Ma ancora non segna occupato?!
Alzo la cornetta e mi investe una voce più che familiare:

“Pronto, sono Juls. Vig è in casa?”
“Salutare no eh?”
“Dio, Vig! Ma che diamine è successo ieri?!”
“Niente. Ero stanca Juls, te l’ho detto.”
“Bene, d’accordo, continua pure a non dirmi niente! E sei stanca anche oggi o possiamo partire?!”
“Juls, per piacere.”
“Vengo a prenderti. Alle undici dobbiamo stare su quella cazzo di superstrada.
Hai un’ora per il resto.”
“Ok.”
“Ehi, ti amo.”

Abbasso il telefono. Ecco un’altra delle sue uscite.  Ma stai zitto.
Ufficialmente è caduta la linea.

********************

Ho salutato, strasalutato tutti, i miei ce l’hanno messa tutta per non deprimermi con quelle scenette commosse. Hanno capito che non è giornata.
E poi ho promesso che il prossimo week-end siamo di nuovo a pranzo da loro per raccontargli e per non far loro patire troppo il distacco.
Sembra che io e Juls stiamo andando a fare una gita in campagna.
Una gita che non finisce più.
Sei ore di macchina solo per arrivarci, a questo famoso prato per il picnick.

“Ehi amore.”
“Si?”
“Prima a telefono...”
“è caduta la linea.”
“Ah.”
“...”
“Ti amo.”
“Adesso non esageriamo.”
“Sei cattiva, lo sai.”
“Sono realista.”
“E attaccabrighe.
Litigheresti anche con un santo.”
“E allora preparati.”

Sarà una lunga gita in campagna.

Note

*GLOSSARIO:  STOP THIS FUCKIN’ SCREMS, SHUT UP!!! 
Piantatela con queste fottutissime urla, chiudete il becco!!!
In realtà l’espressione “shut up” è più violenta e offensiva della traduzione che vi do, ma non so se esiste una cosa del genere in italiano, sono quasi le quattro del mattino e mi rompo di pensarci su.
Quindi Amen xD

*GLOSSARIO:  COM’OUN, CALL THE PIGS!  “Forza, chiama gli sbirri!”
CALL THE PIGS, YOU FUCK! “Chiama gli sbirri, tu, brutto stronzo” (si, Wordreference mi conferma che questa è la migliore traduzione per “you fuck” )
CALL THE PIGS IF YOU HAVE THE BALLS!!! “chiama gli sbirri se hai le palle!!!”

* Il periodo d’oro dell’autostop furono i mitici anni ’70 poi, a parte per la crescita del tenore di vita, direi che sia passato di moda anche per un problema di sicurezza personale...che dite?

Angolo dell’autrice

Non so quando avrò di nuovo la connessione internet, non l’ho riletta la terza volta come faccio di solito né ho intenzione di farlo anche perché sono le cinque e quaranta e io mi sto cuocendo il cervello.
Quindi prendetelo per quello che è, quest’ultimo capitolo, difficilissimo da scrivere,forse incoerente con i personaggi ma stavolta è andata così e non penso che lo modificherò.
Anche perché devo confessare che avevo esaurito le idee e rischiavo di rovinare questa storia se continuavo così. Sapete come si dice, inutile tentare di cavar sangue dalle rape.
Ebbene guys and girls (expecially girls) devo ringraziarvi per avermi sostenuto, chi con le parole di una buona recensione, chi semplicemente dimostrando di apprezzare la mia storia segnandola nelle varie categorie che non starò a specificare.
è stato divertente all’inizio, quasi esilarante in certi momenti, mi ha riempita di soddisfazione benché sia solo una fan fiction, e adesso mi ispira molta malinconia, ‘cause this’s the last act.
Grazie mille, a tutti voi, alla prossima!

Misa


COLONNA  SONORA: Macy’s Day Parade, Good Riddance (Time of Your Life) GD (si, è per questo che sto malinconica ù.ù)

  
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