LA
DIFFERENZA
Le nuvole
avevano appena scagliato giù le loro ultime gocce di
pioggia. Il cielo, che
fino a poco prima era sembrato cupo e minaccioso, ora si distendeva
lasciando
un margine di azzurro al di là delle nubi scure; la grondaia
di un palazzo
stillava acqua convogliandola in una piccola pozza sul marciapiede,
simile alle
tante che tappezzavano il cortile e rendevano la strada, non del tutto
asfaltata, sdrucciolevole. Erano i postumi di un temporale estivo, di
quelli
che non ti lasciano nemmeno il tempo di imprecare contro le nuvole che
queste
hanno già terminato di buttar giù la pioggia.
All’interno di
un appartamento del palazzo numero tre c’era una ragazzina
che se ne stava
addossata alla finestra, mentre sua madre se la prendeva proprio col
maltempo
passeggero, colpevole di averle bagnato i panni stesi fuori ad
asciugare.
A Marianna, la
ragazzina, non interessava che la pioggia avesse ritardato i processi
di
lavaggio di sua madre: stava infatti a ridosso della finestra, col naso
e le mani
incollate al vetro, e fissava attentamente il balcone del palazzo che
aveva
davanti, il numero quattro.
Marianna era in
quel momento centosessanta centimetri per cinquanta chili, accumulati
in quasi
tredici anni di vita, di pura malinconia. Respirava contro il vetro con
impazienza, gli occhi fissi sulla finestra del numero quattro, ed ogni
minuto
che trascorreva in quella posizione, senza che avvenisse nulla di
particolare,
la trascinava ancora più giù nella tristezza.
«Questo è
tempo
di Marzo, non Luglio! Marzo!» sua madre spalancò
la finestra che dava sul
balcone della casa, uscendo per controllare lo stato del suo bucato.
«Ehi, tu!» si
rivolse poi alla figlia, «devi andare a comprare il pane e i
biscotti, prima
che finiscono.»
«Mmm,
sì»
rispose Marianna, guardando ostinatamente di fronte a sé.
Lo stato
contemplativo in cui si trovava mutò quando vide oltre
l’altra finestra un paio
di occhi e una fila di denti disposti in un sorriso, da lei presto
ricambiato.
Le due non ebbero bisogno di comunicare a gesti perché
entrambe capissero quel
che dovevano fare.
«Dammi i soldi,
che vado!» fece Marianna alla madre.
Raccolse una
manciata di spiccioli, si precipitò fuori dalla porta e poi
giù per le scale.
Ad attenderla trovò un’altra ragazzina,
all’incirca della sua stessa altezza,
che le si affiancò mentre percorreva il cortile.
«Mi accompagni a
comprare delle cose?»
«Certo!»
La madre di
Marianna non aveva avuto vita facile nello scegliere il nome della
figlia:
avrebbe optato per Anna, ma le resistenze del marito, che premeva per
Maria,
erano state convincenti al punto che, per mettersi d’accordo,
erano giunti ad
un compromesso. Così le era toccato chiamarsi Marianna, che
era sempre meglio
di Annamaria, pensava la diretta interessata, ma non meno banale; la
sua amica,
invece, aveva il nome più bello e originale che avesse mai
potuto concepire:
Virginia. A fronte di un’anonima Marianna, una Virginia
risaltava molto di più.
Marianna pensava sempre che quel nome calzasse a pennello sulla sua
amica, le dava
un qualcosa di aristocratico che la differenziava dal resto dei ragazzi.
«Non hai tasche
dove mettere i soldi?» domandò Virginia, notando
che l’altra si tastava i
pantaloncini di stoffa verde.
«No.»
«Mettili qui.»
Le offrì uno
spazio nella borsetta color blu con le cuciture rosse che portava
orgogliosamente a tracolla. Marianna notò la presenza, oltre
al portafoglio e
ad un pacco di fazzoletti, di una scatola nera, in pelle.
«Che
cos’è?» la
curiosità prevalse e così la estrasse.
Virginia la aprì
con uno scatto; le mostrò un paio di occhiali da sole neri,
dalle lenti enormi,
poi li indossò, scostandosi contemporaneamente i capelli
dalle spalle. Erano tanto
grandi da non lasciar quasi intravedere le sopracciglia.
«Wow»
commentò
Marianna.
«Regalo di
compleanno» spiegò Virginia, riponendoli nella
custodia.
Poi le sorrise,
la prese per mano e non la lasciò fino a che non furono
costrette a reggere
insieme la busta della spesa per il troppo peso, non senza il
disappunto di
Marianna.
Vivendo nello
stesso quartiere ed essendo le due uniche ragazze in un gruppetto di
soli
maschi, era stato quasi naturale per loro stringere amicizia. Erano
cresciute
andando a scuola insieme, passando i pomeriggi l’una a casa
dell’altra,
partecipando a partite di nascondino e palla avvelenata con tutto il
circondario tanto da guadagnarsi il titolo di sorelle.
Ma le sorelle,
essendo della stessa famiglia ed avendo in possesso un patrimonio
genetico in
parte simile, si assomigliano e Marianna di una cosa era sempre stata
certa:
lei e Virginia non si assomigliavano affatto.
Mentre lei
aiutava la madre a preparare la salsa di pomodoro durante la prima
settimana di
Agosto, Virginia andava in vacanza con i suoi genitori in luoghi che
lei non
avrebbe saputo rintracciare se non con l’ausilio di una
cartina geografica;
d’inverno Marianna aspettava pazientemente dietro la finestra
che Virginia
terminasse la lezione di pianoforte e fosse libera di uscire con lei;
Virginia
aveva anche visto la comparsa del “sangue mensile”
ben cinque mesi prima di
lei, era diventata della sua stessa altezza e, le sembrava, ogni giorno
più
simile a sua sorella maggiore che si chiudeva in camera per non essere
disturbata e si truccava di nascosto dalla mamma.
Marianna era
anche sicura del fatto che non avrebbe mai indossato quei bei reggiseni
colorati che fasciavano il seno precoce della sua amica,
perché pareva che il
suo corpo non volesse partorire null’altro da aggiungere a
quelle due punte
striminzite che si ritrovava.
Eppure Marianna
non per questo la invidiava, trovava anzi naturale che Virginia la
superasse in
tutto quel che faceva.
Erano talmente
affiatate da non poter concepire di essere separate. Marianna in
particolare
aveva cominciato a sviluppare una sorta d’ansia mentre
aspettava che Virginia
fosse pronta per uscire, un tumulto che l’agitava e che era
differente
dall’impazienza. Questo sentimento si placava solo nel
momento in cui Virginia
scendeva le scale del portone e le correva incontro e tornava a
manifestarsi
quando la sua amica rivolgeva un sorriso dolce ai ragazzi
più grandi.
Da qualche
settimana Virginia insisteva, durante il tragitto per tornare a casa,
nel
passare davanti al campo sportivo.
«Ma perché
facciamo sempre questa strada?» domandava Marianna, mentre
ansimava per la
difficoltà di percorrere la salita.
Virginia era già
qualche metro più su, ferma sul marciapiede, ma non guardava
la sua amica:
torceva il capo verso un’abitazione dalla cui finestra
proveniva ancora una
luce. Marianna la osservava e non capiva.
«Allora?» la
incalzò, facendo passi più lunghi per
raggiungerla.
Virginia non le
rispondeva, intenta a fissare quell’unica luce accesa. Quando
Marianna la
raggiunse, notò una certa agitazione sul viso
dell’amica, non fastidiosa come
quella che provava lei ma entusiasta; fremeva per qualcosa che lei non
capiva.
Si decise anche
lei a dare un’occhiata a quella finestra, ma non
notò nulla di particolare; ad
un certo punto, però, vide la sagoma di un ragazzo dai
capelli scuri
affacciarsi con apparente noncuranza. Virginia trattenne il respiro e
trasalì a
quell’apparizione.
«Vieni!»
gridò
prendendo Marianna per un polso e tirandola via.
Presero a
correre via all’improvviso, senza fermarsi finché
non giunsero alla rampa che
introduceva il loro quartiere; lì si arrestarono
bruscamente, riprendendo fiato
e poggiandosi al muretto. Marianna osservò la sagoma
dell’amica, una figura
esile ed aggraziata con le mani sulla pietra, i capelli impreziositi da
un
fermaglio e la bocca aperta per ansimare; fra una boccata e
l’altra, grazie
alla luce del lampione, vide comparire un accenno di sorriso e
un’espressione decisamente
emozionata. Allora Marianna capì perché Virginia
volesse percorrere quella
strada tutte le sere.
«Perché sei
corsa via?»
«Così»
rispose
lei, senza smettere il sorriso che le stava forzatamente salendo sulle
labbra.
Marianna non
fece più domande e quando fu il momento di congedarsi non le
riservò che un
saluto molto freddo. Una volta che fu sola nell’androne,
invece di dirigersi al
suo appartamento imboccò le scale che conducevano al
seminterrato; aveva con sé
la chiave di casa, del palazzo e anche della cantina e
perciò poté far scattare
la serratura e spingere la vecchia porta. Questa cigolò
rumorosamente e rivelò
un corridoio basso e stretto ai cui lati erano presenti numerose porte;
ogni stanza
apparteneva ad un inquilino e quella di cui Marianna possedeva la
chiave era
l’ultima del lato destro.
La ragazzina
rabbrividì: lì sotto faceva sempre freddo e per
questo era un luogo molto
appetibile durante i pomeriggi estivi. Avanzò nel buio,
orientandosi grazie
alla poca luce lunare che filtrava da una grata posta in alto,
così da aprire
la porta della cantina.
Subito un odore
di chiuso le investì le narici, ma lei non vi
badò, cercando piuttosto
l’interruttore della luce. Una volta che la lampadina
penzolante illuminò
l’ambiente comparvero ai suoi occhi cianfrusaglie di ogni
tipo; lo spazio era
davvero esiguo: uno scaffale posto a destra fungeva da sostegno per
scatoloni
sigillati su cui era stato scritto “indumenti 0-3
anni” e così via, oltre che
per degli pneumatici, un vecchio ed ingombrante televisore e barattoli
di salsa
al pomodoro; un lungo specchio incrinato ornava un’altra
parete, accompagnato
da una motocicletta, mentre un frigorifero era stato sistemato in un
angolo. Marianna
si districò fra le buste, i barattoli e i cesti impilati
l’uno sull’altro per
sedersi su un bancone in legno, abbracciandosi le ginocchia.
Non aveva mai
avvertito tanta distanza fra lei e Virginia come quella sera e la cosa
peggiore
era stata ascoltarla negare ed escluderla da quei nuovi sentimenti. Nel
silenzio della cantina cominciava a crescere in lei una rabbia mai
provata nei
confronti dell’amica, ma non sapeva spiegarsene la ragione;
era un sentimento
diverso dall’ansia che l’attanagliava mentre
l’aspettava.
Marianna
rifletté sul fatto che non aveva motivo di essere
arrabbiata: Virginia non le
aveva fatto nulla e si era comportata quasi normalmente, eccetto che
per quello
stupido sorriso che le aveva visto spuntare. Quella sera
andò a dormire piena
di pensieri e senza essere riuscita a scacciare
quell’arrabbiatura
ingiustificata.
Imparò ben
presto a convivere anche con quel nuovo sentimento che si manifestava
ogni
qualvolta che Virginia si fermava per qualche minuto in più
a parlare con
Francesco, il ragazzo che abitava vicino al campo sportivo. A volte si
mettevano da parte, seduti sui gradini dei palazzi, e discutevano a
voce bassa;
Marianna vedeva comparire sul volto dell’amica sorrisi e
risate che invece di
rallegrarla la incupivano; non riusciva a sostenere quella visione per
molto
tempo, le provocava una gran voglia di irrompere fra loro e separarli.
Marianna non era
gelosa. Anzi, la sola idea di rapportarsi con Francesco le faceva
schifo, ma
non riusciva a capire perché Virginia trovasse
così divertente stare insieme a
lui, perché la preferisse a lei; cos’aveva lui di
tanto speciale che lei non
poteva offrirle?
La rabbia nei
confronti di qualcuno prevede uno sgarbo, un’offesa che
generi tale sensazione;
Virginia non le aveva fatto nulla di male, continuavano a passeggiare
insieme
ed uscire la sera come se nulla fosse, eppure Marianna aveva perso
quella
spontaneità che tanto la caratterizzava nei momenti
condivisi con l’amica. Non
sapeva spiegarsene il motivo, ma qualcosa dentro di lei le suggeriva di
non renderla
partecipe della rabbia e dell’agitazione che la pervadevano
quando veniva
nominato Francesco.
Seguendo
l’esempio della sua amica, Marianna aveva dato il suo primo
bacio ad un
ragazzino del quartiere ed aveva passato le ultime settimane della
quinta
elementare a tenersi per mano con lui e dividere il panino
all’intervallo. Era
stato naturale che, una volta compiuto il passaggio alle scuole medie,
quella
simpatia svanisse senza alcun danno da parte di entrambi. Non
c’era stata ansia
nel vederlo pomiciare con una sua compagna di classe, niente di quello
che
Marianna sperimentò un pomeriggio non molto diverso dal
solito.
«Dai,
sbrigati!»
le aveva detto Virginia, già sparita sotto la rampa di scale.
«Arrivo.»
Marianna le
aveva aperto la porta della cantina ed insieme le due ragazze si erano
chiuse
all’interno, trovando riparo dalla canicola ed un luogo
tranquillo dove poter
parlare indisturbate; Virginia le era corsa incontro, più
sovreccitata del
solito, e le aveva detto di volerle mostrare una cosa. Ora si era
sistemata sul
sellino della motocicletta e stava cercando qualcosa nella borsetta.
«Tieni qua» le
porse un accendino color arancione e poi tirò fuori un
pacchetto piccolo di
sigarette, già consumato per metà.
Marianna non
disse nulla mentre Virginia tirava la prima boccata ed espirava il fumo
verso
il soffitto della cantina; poiché questo era molto basso e
lo spazio era
minimo, la nicotina si stabilì sopra le loro teste,
avvolgendole e impregnando
l’aria. Percepì quell’odore intenso e
sgradevole inondarla prepotentemente; non
le piaceva, ma cercò di abituare pian piano le sue narici a
sopportarlo, perché
sapeva che dopo sarebbe toccato a lei.
Osservò
Virginia; quel giorno aveva indossato un paio di orecchini lunghi, di
argento,
corredati da una pietra azzurra ben lavorata; spuntavano da sotto i
capelli e
Marianna s’incantò a fissare il modo in cui il
bagliore argenteo guizzava di
tanto in tanto fra il castano scuro, la sigaretta che Virginia teneva
fra
indice e medio e che poggiava sulle labbra, facendola scorrere sul
bordo,
insalivandola, chiudendoci la bocca attorno.
Virginia allungò
la mano verso Marianna, porgendole la parte restante perché
la terminasse.
Nell’afferrare la sigaretta la ragazza avvertì un
brivido sulla schiena così
piacevole come non ne aveva mai provati e fu contenta che Virginia
avesse
scelto di dividere quell’esperienza con lei: in quel modo
ciò che stava
avvenendo nella cantina apparteneva solo a loro, a lei e Virginia,
senza che vi
fossero intromissioni indesiderate.
Quando Marianna
poggiò la sigaretta sulle proprie labbra ed
avvertì i residui della saliva
dell’amica, scoprì che quel nuovo brivido sulla
schiena era causato dalla
fantasia di avere un contatto di qualsiasi tipo con lei; non smise di
guardarla
nemmeno quando inspirò per la prima volta dal filtro.
Virginia si era
sporta in avanti, gli occhi attenti alla reazione di Marianna e il
respiro quasi
trattenuto; liberò una risata quando la vide tossire
ripetutamente con aria
disgustata. Marianna ebbe quasi voglia di vomitare al sentire quel
sapore
amarognolo in bocca e lasciò cadere il mozzicone per terra,
alzandosi in piedi.
«Succede così
a
tutti, la prima volta» le spiegò
Virginia,«anche a me.»
Marianna le
voltò le spalle per allargare lo spazio fra la grata ed il
muro e lasciar
entrare aria pulita; tuttavia nel compiere quell’operazione
impiegò più tempo e
forza del dovuto. Così non era un’esperienza
riservata solo a loro, quella;
Virginia era già stata iniziata da qualcun altro e Marianna
non dovette
lavorare molto di fantasia per capire di chi si trattasse. Dopo qualche
minuto
l’aria si era fatta più respirabile, ma Marianna
avvertiva ancora un peso
fastidioso opprimerle i polmoni, come se d’un tratto le si
fosse ristretta la
gabbia toracica e non ci fosse più spazio per permettere
loro di espandersi.
«Chi te l’ha
dato?» domandò, alludendo al pacchetto e sentendo
montare di nuovo il
sentimento rabbioso.
«I ragazzi.»
Il generico
plurale era una debolissima copertura per qualcosa che entrambe
sapevano.
«Tu e Francesco
del Mastro siete fidanzati?» domandò a bruciapelo
Marianna.
Virginia trasalì
e diventò rossa come l’amica non l’aveva
mai vista; poi abbassò lo sguardo e
rispose:
«No, che dici!»
Ma sulle labbra
premeva ancora quel sorriso compiaciuto che lei voleva nascondere; la
rabbia
che le faceva salire quel sorriso le avrebbe dato la forza di fare
qualsiasi
cosa, pensò Marianna, e continuò:
«Sì che
è vero.
Tu gli piaci.»
Era quella la
verità, lo sapevano entrambe, ma Marianna aveva forse
sperato fino all’ultimo
che Virginia negasse, che ridesse, che dimostrasse in qualche modo
l’assurdità
di tale affermazione. Lei invece non disse nulla ed evitò di
guardarla,
preferendo giocherellare con un orecchino; Marianna allora
sentì le mura della
cantina, insieme a tutte le cianfrusaglie che contenevano, crollarle
addosso e
dovette risedersi. Avrebbe sempre associato l’odore del fumo
all’opprimente
sensazione di quella delusione cocente.
Lo stato di
soffocamento perdurò per qualche tempo, in cui la ragazza
non ebbe la forza di
rivedere l’amica per passeggiare con lei; sapeva che ogni
momento negato a
Virginia si trasformava in un’occasione per Francesco, ma
nonostante questo la
facesse star male avvertirla accanto a sé nel corpo, ma
distante nella mente e
nel cuore, era di gran lunga più doloroso.
Sembrava lo stato
terminale di una malattia, cui era giunta attraverso le fasi
dell’ansia e della
rabbia, per trovare microscopici conforti in brividi piacevoli ed
infine
sprofondare nella delusione. Marianna non ricordava che qualcuno,
riferendosi
all’amicizia, le avesse mai menzionato tutti quei sentimenti
passeggeri; non
ricordava di essere mai stata tanto vulnerabile e soggetta a sbalzi
d’umore.
A volte ripensava
a quell’orribile pomeriggio passato in cantina, alle labbra
sottili di
Virginia, in modo quasi morboso; cercava di ricordare il sapore della
saliva
che aveva bagnato il filtro della sigaretta, il modo in cui le labbra
le si
erano chiuse attorno, le sue dita sottili che giocherellavano con gli
orecchini. Così, durante il periodo in cui Virginia fu in
vacanza, si nutrì di
ricordi e pensieri che diventarono via via sempre più
strani. La fantasia si
sovrappose alla realtà, offrendole immagini di cui Marianna
non riusciva ad
identificare la provenienza. Da quando in qua aveva cominciato a
pensare al
corpo della sua amica senza vestiti?
Giunse infine
l’ultimo finesettimana di Agosto.
Virginia era
tornata dalle vacanze più abbronzata ed alta di prima e
Marianna si era decisa
a superare la delusione e lo sconforto, confidando che con
l’inizio della
scuola sarebbe tornato tutto come prima. I ragazzi del quartiere
avevano
organizzato una partita al gioco più temuto e popolare di
sempre: consisteva
nello scegliere una penitenza che poi sarebbe toccata a chiunque la
bottiglia
avesse puntato. Naturalmente quelle più gettonate
riguardavano il contatto
fisico, dallo stare in grembo al baciare sula bocca un altro giocatore
per un
dato periodo di tempo; Francesco del Mastro non era presente e
perciò Marianna
si sentiva più tranquilla.
Ad un certo
punto del gioco un ragazzo ordinò come penitenza che il
malcapitato desse un
bacio al proprio vicino di sinistra. Marianna seguì con
apprensione la
rotazione della bottiglia, perché aveva alla propria
sinistra un ragazzino di
nome Matteo, famoso per i suoi denti sporgenti e l’acne che
gli sfregiava il
viso; per questo tirò un sospiro di sollievo quando il collo
puntò verso una
ragazza di nome Rachele.
«Non posso
baciarla!» protestò questa, perché alla
sua sinistra aveva un’altra ragazza, «è
una femmina!»
«E quindi? Devi
fare lo stesso la penitenza!» esclamò Pietro, che
faceva un po’ da portavoce
per tutti i ragazzi, curiosi ed esaltati alla prospettiva di vederle
baciarsi.
Quando Rachele
chiuse gli occhi e sporse le labbra alla cieca verso la sua vicina la
parte
maschile del cerchio fischiò ed applaudì
approvando il brevissimo contatto fra
le due.
«Che schifo!»
«Bleah, ora la
scelgo io una bella penitenza» affermò Rachele.
Marianna perse
il filo del gioco, troppo impegnata a far funzionare le sinapsi
nervose. Le si
era accesa come una lampadina in testa, tutto le era diventato chiaro;
ecco
quel che doveva fare: baciare Virginia. Era questo che voleva, questo
che il
suo corpo cercava di farle capire, questo che significavano le sue
fantasie.
Sul momento non stette troppo a riflettere su cosa implicasse il fatto
che
volesse baciare la sua amica, cercò solo il modo di
realizzare quell’idea.
Fu sfortunata:
la bottiglia non sembrava incline ad accontentarla, perché
dopo averla ignorata
per un bel po’ la scelse per baciare proprio quel Matteo che
le stava a fianco.
Vide Virginia ridere e chiuse gli occhi, immaginando che quelle labbra
fossero
le sue; nei dieci secondi che le toccarono non avvertì altro
che una sensazione
fastidiosa di umido e le labbra del ragazzo, grosse e ruvide, che
premevano
sulle sue, niente affatto uguali a quelle sottili, morbide e piacevoli
che
doveva avere Virginia.
Passò un po’
di
tempo e il gioco si mantenne tranquillo fra spostamenti, penitenze
disgustose e
confessioni esilaranti, finché da una finestra del palazzo
numero quattro non
si levò un grido.
«Matteo!
Matteo!»
Il ragazzo alla
sinistra di Marianna si alzò per protestare: non voleva che
sua madre lo
costringesse a rientrare prima di tutti gli altri.
«Che
c’è? È
presto ancora!»
«Tanto fra un
po’ rientrano tutti!» continuò la
signora, sporgendosi dal davanzale.
«E dai,
ma’!»
«Che vuoi, che
torna tuo padre e ti trova fuori?»
Matteo sbuffò,
puntellandosi a terra per alzarsi in piedi; quella era
un’argomentazione a cui,
sua madre lo sapeva, non poteva obiettare nulla. Allo stesso modo di
Matteo,
altri ragazzi del cerchio vennero richiamati in casa, chi a gran voce,
chi a
suon di minacce, chi a cenni e chi semplicemente dallo sguardo severo
del
padre. Alla fine di quella prima retata rimasero in sette: Marianna,
Pietro,
Rachele e Virginia più altri tre ragazzi.
«Continuiamo a
giocare?» domandò uno di questi.
«No, non ha
senso. E poi fra un po’ dovremmo andarcene anche
noi.»
Il cuore di
Marianna fece un balzo per quel noi con cui Virginia l’aveva
inclusa nei suoi
programmi, quasi fossero sorelle, abitassero nella stessa casa e
dormissero
nella stessa stanza.
«Io lo so
perché
vuoi andartene!» proruppe Pietro, con l’aria di uno
che la sapeva lunga, «sei
l’unica fra noi a cui non è toccata una penitenza
decente!»
Con “decente”
Pietro intendeva un tipo di penitenza “fisica”;
Virginia roteò gli occhi e
domandò:
«E cosa vuoi che
faccia? Sentiamo, se per te è così
importante.»
«Allora farai
una penitenza a scelta del sorteggiato» stabilì
lui.
Diede la spinta
alla bottiglia, fra l’entusiasmo dei ragazzi e
l’apprensione di Marianna, che
si domandava cosa diamine avrebbe fatto nel caso in cui fosse stata
scelta lei;
non aveva dubbi su quale tipo di penitenza avrebbe voluto far compiere
a
Virginia, ma come poter restare coerente con le sue pulsioni interiori
davanti
agli altri?
Era stato un
sentimento spontaneo, quello nato per Virginia, eppure nello stesso
momento in
cui era sbocciato, quando ancora nemmeno lei sapeva definirlo, aveva
avvertito
dentro di sé la reticenza a rivelarlo, qualcosa che le
suggeriva di tenerlo per
sé. Presa dal suo dilemma, sperando al contempo che la
bottiglia puntasse e non
verso di lei, trasalì quando dal portone di un palazzo, il
numero cinque, una
donna richiamò Pietro.
«Che palle... »
si lasciò sfuggire lui, alzandosi controvoglia.
«L’avevo detto
io, che non ne valeva la pena.»
Virginia stoppò
la bottiglia di vetro mentre puntava proprio Marianna.
A poco a poco i
ragazzi si separarono per andare ognuno a casa propria, così
anche loro due s’incamminarono
insieme oltre l’angolo del numero quattro, dirette ai
rispettivi portoni.
Marianna
giocherellava con la bottiglia di vetro che avevano raccolto,
sentendosi
vittima di un’agitazione crescente, un formicolio che la
scuoteva tutta e le
allertava i sensi. Quando vide l’amica avvicinarsi al portone
del suo palazzo
una scarica elettrica si sostituì all’agitazione,
un impulso che voleva
avvertirla, e Marianna comprese benissimo cosa significava
quell’attimo: non
avrebbe avuto un’altra occasione, non ci sarebbero
più stati momenti intimi da
condividere con lei, Virginia era già lontana e si era
voltata solo per
l’ultima volta.
«Ci vediamo,
domani?» domandò avvicinandosi.
Virginia si
voltò, ferma nell’atto di suonare il citofono, e
la guardò con perplessità.
«Certo» rispose
senza esitazioni, come fosse ovvio.
Marianna non
riuscì a replicare se non con un sorriso sbilenco, ancora
pervasa da
quell’elettricità che la rendeva nervosa. Quando
Virginia le si avvicinò per
darle i soliti baci sulle guance, si irrigidì e
più di un brivido le percorse
la schiena.
Virginia si
spostò, sorridendole, ma Marianna tenne la mano sulla sua
spalla per farla star
ferma. Nello stesso momento in cui vide balenare negli occhi
dell’amica la
confusione, reclinò la testa di lato per chiudere le proprie
labbra sulle sue.
Ecco, Marianna
percepì benissimo qual era la differenza: la bocca di
Virginia non era né umida
né ruvida come quella di Matteo e mentre le spingeva contro
le proprie labbra
Marianna la sentì schiudersi in modo del tutto naturale,
nella stessa maniera
di come fu facile per lei farci scivolare dentro la lingua. Ora
l’elettricità
che l’aveva tenuta in allerta si era rilasciata per tutto il
suo corpo,
assuefacendolo e donandole una piacevole sensazione di
tranquillità, come
fossero racchiuse in una bolla di sapone; c’erano solo lei e
Virginia, nessun
Francesco del Mastro, nessun ragazzo.
Si staccò con
uno schiocco e nel riprendere a respirare, contemporaneamente
all’assunzione
dell’ossigeno le sfuggì gradualmente la sensazione
d’intimità e sicurezza.
Si allontanò
dall’amica senza nemmeno guardarla in viso.
«A domani,
allora.»
Prese le chiavi
del portone e quasi alla cieca le infilò nella serratura,
con gesti rapidi e
inconsulti. Una volta sola nell’androne, invece di prendere
subito le scale, si
fermò al muro, contro la cassetta della posta. Oltre i vetri
del portone
intravide una luce alla finestra del numero quattro, la stessa della
camera di
Virginia.
Restò lì in
piedi col respiro pesante e il batticuore finché anche
quell’ultima fonte
luminosa non si spense.