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Autore: Pichichi    17/08/2011    1 recensioni
La storia di un sentimento sbocciato naturalmente che sgomita per non essere soffocato, pur consapevole di essere solo di passaggio, alla stregua di un temporale estivo.
Ecco, Marianna percepì benissimo qual era la differenza: la bocca di Virginia non era né umida né ruvida come quella di Matteo e mentre le spingeva contro le proprie labbra Marianna la sentì schiudersi in modo del tutto naturale, nella stessa maniera di come fu facile per lei farci scivolare dentro la lingua. Ora l’elettricità che l’aveva tenuta in allerta si era rilasciata per tutto il suo corpo, assuefacendolo e donandole una piacevole sensazione di tranquillità, come fossero racchiuse in una bolla di sapone; c’erano solo lei e Virginia, nessun Francesco del Mastro, nessun ragazzo.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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LA DIFFERENZA

 
Le nuvole avevano appena scagliato giù le loro ultime gocce di pioggia. Il cielo, che fino a poco prima era sembrato cupo e minaccioso, ora si distendeva lasciando un margine di azzurro al di là delle nubi scure; la grondaia di un palazzo stillava acqua convogliandola in una piccola pozza sul marciapiede, simile alle tante che tappezzavano il cortile e rendevano la strada, non del tutto asfaltata, sdrucciolevole. Erano i postumi di un temporale estivo, di quelli che non ti lasciano nemmeno il tempo di imprecare contro le nuvole che queste hanno già terminato di buttar giù la pioggia.
All’interno di un appartamento del palazzo numero tre c’era una ragazzina che se ne stava addossata alla finestra, mentre sua madre se la prendeva proprio col maltempo passeggero, colpevole di averle bagnato i panni stesi fuori ad asciugare.
A Marianna, la ragazzina, non interessava che la pioggia avesse ritardato i processi di lavaggio di sua madre: stava infatti a ridosso della finestra, col naso e le mani incollate al vetro, e fissava attentamente il balcone del palazzo che aveva davanti, il numero quattro.
Marianna era in quel momento centosessanta centimetri per cinquanta chili, accumulati in quasi tredici anni di vita, di pura malinconia. Respirava contro il vetro con impazienza, gli occhi fissi sulla finestra del numero quattro, ed ogni minuto che trascorreva in quella posizione, senza che avvenisse nulla di particolare, la trascinava ancora più giù nella tristezza.
«Questo è tempo di Marzo, non Luglio! Marzo!» sua madre spalancò la finestra che dava sul balcone della casa, uscendo per controllare lo stato del suo bucato.
«Ehi, tu!» si rivolse poi alla figlia, «devi andare a comprare il pane e i biscotti, prima che finiscono.»
«Mmm, sì» rispose Marianna, guardando ostinatamente di fronte a sé.
Lo stato contemplativo in cui si trovava mutò quando vide oltre l’altra finestra un paio di occhi e una fila di denti disposti in un sorriso, da lei presto ricambiato. Le due non ebbero bisogno di comunicare a gesti perché entrambe capissero quel che dovevano fare.
«Dammi i soldi, che vado!» fece Marianna alla madre.
Raccolse una manciata di spiccioli, si precipitò fuori dalla porta e poi giù per le scale. Ad attenderla trovò un’altra ragazzina, all’incirca della sua stessa altezza, che le si affiancò mentre percorreva il cortile.
«Mi accompagni a comprare delle cose?»
«Certo!»
La madre di Marianna non aveva avuto vita facile nello scegliere il nome della figlia: avrebbe optato per Anna, ma le resistenze del marito, che premeva per Maria, erano state convincenti al punto che, per mettersi d’accordo, erano giunti ad un compromesso. Così le era toccato chiamarsi Marianna, che era sempre meglio di Annamaria, pensava la diretta interessata, ma non meno banale; la sua amica, invece, aveva il nome più bello e originale che avesse mai potuto concepire: Virginia. A fronte di un’anonima Marianna, una Virginia risaltava molto di più. Marianna pensava sempre che quel nome calzasse a pennello sulla sua amica, le dava un qualcosa di aristocratico che la differenziava dal resto dei ragazzi.
«Non hai tasche dove mettere i soldi?» domandò Virginia, notando che l’altra si tastava i pantaloncini di stoffa verde.
«No.»
«Mettili qui.»
Le offrì uno spazio nella borsetta color blu con le cuciture rosse che portava orgogliosamente a tracolla. Marianna notò la presenza, oltre al portafoglio e ad un pacco di fazzoletti, di una scatola nera, in pelle.
«Che cos’è?» la curiosità prevalse e così la estrasse.
Virginia la aprì con uno scatto; le mostrò un paio di occhiali da sole neri, dalle lenti enormi, poi li indossò, scostandosi contemporaneamente i capelli dalle spalle. Erano tanto grandi da non lasciar quasi intravedere le sopracciglia.
«Wow» commentò Marianna.
«Regalo di compleanno» spiegò Virginia, riponendoli nella custodia.
Poi le sorrise, la prese per mano e non la lasciò fino a che non furono costrette a reggere insieme la busta della spesa per il troppo peso, non senza il disappunto di Marianna.
Vivendo nello stesso quartiere ed essendo le due uniche ragazze in un gruppetto di soli maschi, era stato quasi naturale per loro stringere amicizia. Erano cresciute andando a scuola insieme, passando i pomeriggi l’una a casa dell’altra, partecipando a partite di nascondino e palla avvelenata con tutto il circondario tanto da guadagnarsi il titolo di sorelle.
Ma le sorelle, essendo della stessa famiglia ed avendo in possesso un patrimonio genetico in parte simile, si assomigliano e Marianna di una cosa era sempre stata certa: lei e Virginia non si assomigliavano affatto.
Mentre lei aiutava la madre a preparare la salsa di pomodoro durante la prima settimana di Agosto, Virginia andava in vacanza con i suoi genitori in luoghi che lei non avrebbe saputo rintracciare se non con l’ausilio di una cartina geografica; d’inverno Marianna aspettava pazientemente dietro la finestra che Virginia terminasse la lezione di pianoforte e fosse libera di uscire con lei; Virginia aveva anche visto la comparsa del “sangue mensile” ben cinque mesi prima di lei, era diventata della sua stessa altezza e, le sembrava, ogni giorno più simile a sua sorella maggiore che si chiudeva in camera per non essere disturbata e si truccava di nascosto dalla mamma.
Marianna era anche sicura del fatto che non avrebbe mai indossato quei bei reggiseni colorati che fasciavano il seno precoce della sua amica, perché pareva che il suo corpo non volesse partorire null’altro da aggiungere a quelle due punte striminzite che si ritrovava.
Eppure Marianna non per questo la invidiava, trovava anzi naturale che Virginia la superasse in tutto quel che faceva.
Erano talmente affiatate da non poter concepire di essere separate. Marianna in particolare aveva cominciato a sviluppare una sorta d’ansia mentre aspettava che Virginia fosse pronta per uscire, un tumulto che l’agitava e che era differente dall’impazienza. Questo sentimento si placava solo nel momento in cui Virginia scendeva le scale del portone e le correva incontro e tornava a manifestarsi quando la sua amica rivolgeva un sorriso dolce ai ragazzi più grandi.
Da qualche settimana Virginia insisteva, durante il tragitto per tornare a casa, nel passare davanti al campo sportivo.
«Ma perché facciamo sempre questa strada?» domandava Marianna, mentre ansimava per la difficoltà di percorrere la salita.
Virginia era già qualche metro più su, ferma sul marciapiede, ma non guardava la sua amica: torceva il capo verso un’abitazione dalla cui finestra proveniva ancora una luce. Marianna la osservava e non capiva.
«Allora?» la incalzò, facendo passi più lunghi per raggiungerla.
Virginia non le rispondeva, intenta a fissare quell’unica luce accesa. Quando Marianna la raggiunse, notò una certa agitazione sul viso dell’amica, non fastidiosa come quella che provava lei ma entusiasta; fremeva per qualcosa che lei non capiva.
Si decise anche lei a dare un’occhiata a quella finestra, ma non notò nulla di particolare; ad un certo punto, però, vide la sagoma di un ragazzo dai capelli scuri affacciarsi con apparente noncuranza. Virginia trattenne il respiro e trasalì a quell’apparizione.
«Vieni!» gridò prendendo Marianna per un polso e tirandola via.
Presero a correre via all’improvviso, senza fermarsi finché non giunsero alla rampa che introduceva il loro quartiere; lì si arrestarono bruscamente, riprendendo fiato e poggiandosi al muretto. Marianna osservò la sagoma dell’amica, una figura esile ed aggraziata con le mani sulla pietra, i capelli impreziositi da un fermaglio e la bocca aperta per ansimare; fra una boccata e l’altra, grazie alla luce del lampione, vide comparire un accenno di sorriso e un’espressione decisamente emozionata. Allora Marianna capì perché Virginia volesse percorrere quella strada tutte le sere.
«Perché sei corsa via?»
«Così» rispose lei, senza smettere il sorriso che le stava forzatamente salendo sulle labbra.
Marianna non fece più domande e quando fu il momento di congedarsi non le riservò che un saluto molto freddo. Una volta che fu sola nell’androne, invece di dirigersi al suo appartamento imboccò le scale che conducevano al seminterrato; aveva con sé la chiave di casa, del palazzo e anche della cantina e perciò poté far scattare la serratura e spingere la vecchia porta. Questa cigolò rumorosamente e rivelò un corridoio basso e stretto ai cui lati erano presenti numerose porte; ogni stanza apparteneva ad un inquilino e quella di cui Marianna possedeva la chiave era l’ultima del lato destro.
La ragazzina rabbrividì: lì sotto faceva sempre freddo e per questo era un luogo molto appetibile durante i pomeriggi estivi. Avanzò nel buio, orientandosi grazie alla poca luce lunare che filtrava da una grata posta in alto, così da aprire la porta della cantina.
Subito un odore di chiuso le investì le narici, ma lei non vi badò, cercando piuttosto l’interruttore della luce. Una volta che la lampadina penzolante illuminò l’ambiente comparvero ai suoi occhi cianfrusaglie di ogni tipo; lo spazio era davvero esiguo: uno scaffale posto a destra fungeva da sostegno per scatoloni sigillati su cui era stato scritto “indumenti 0-3 anni” e così via, oltre che per degli pneumatici, un vecchio ed ingombrante televisore e barattoli di salsa al pomodoro; un lungo specchio incrinato ornava un’altra parete, accompagnato da una motocicletta, mentre un frigorifero era stato sistemato in un angolo. Marianna si districò fra le buste, i barattoli e i cesti impilati l’uno sull’altro per sedersi su un bancone in legno, abbracciandosi le ginocchia.
Non aveva mai avvertito tanta distanza fra lei e Virginia come quella sera e la cosa peggiore era stata ascoltarla negare ed escluderla da quei nuovi sentimenti. Nel silenzio della cantina cominciava a crescere in lei una rabbia mai provata nei confronti dell’amica, ma non sapeva spiegarsene la ragione; era un sentimento diverso dall’ansia che l’attanagliava mentre l’aspettava.
Marianna rifletté sul fatto che non aveva motivo di essere arrabbiata: Virginia non le aveva fatto nulla e si era comportata quasi normalmente, eccetto che per quello stupido sorriso che le aveva visto spuntare. Quella sera andò a dormire piena di pensieri e senza essere riuscita a scacciare quell’arrabbiatura ingiustificata.
Imparò ben presto a convivere anche con quel nuovo sentimento che si manifestava ogni qualvolta che Virginia si fermava per qualche minuto in più a parlare con Francesco, il ragazzo che abitava vicino al campo sportivo. A volte si mettevano da parte, seduti sui gradini dei palazzi, e discutevano a voce bassa; Marianna vedeva comparire sul volto dell’amica sorrisi e risate che invece di rallegrarla la incupivano; non riusciva a sostenere quella visione per molto tempo, le provocava una gran voglia di irrompere fra loro e separarli.
Marianna non era gelosa. Anzi, la sola idea di rapportarsi con Francesco le faceva schifo, ma non riusciva a capire perché Virginia trovasse così divertente stare insieme a lui, perché la preferisse a lei; cos’aveva lui di tanto speciale che lei non poteva offrirle?
La rabbia nei confronti di qualcuno prevede uno sgarbo, un’offesa che generi tale sensazione; Virginia non le aveva fatto nulla di male, continuavano a passeggiare insieme ed uscire la sera come se nulla fosse, eppure Marianna aveva perso quella spontaneità che tanto la caratterizzava nei momenti condivisi con l’amica. Non sapeva spiegarsene il motivo, ma qualcosa dentro di lei le suggeriva di non renderla partecipe della rabbia e dell’agitazione che la pervadevano quando veniva nominato Francesco.
Seguendo l’esempio della sua amica, Marianna aveva dato il suo primo bacio ad un ragazzino del quartiere ed aveva passato le ultime settimane della quinta elementare a tenersi per mano con lui e dividere il panino all’intervallo. Era stato naturale che, una volta compiuto il passaggio alle scuole medie, quella simpatia svanisse senza alcun danno da parte di entrambi. Non c’era stata ansia nel vederlo pomiciare con una sua compagna di classe, niente di quello che Marianna sperimentò un pomeriggio non molto diverso dal solito.
«Dai, sbrigati!» le aveva detto Virginia, già sparita sotto la rampa di scale.
«Arrivo.»
Marianna le aveva aperto la porta della cantina ed insieme le due ragazze si erano chiuse all’interno, trovando riparo dalla canicola ed un luogo tranquillo dove poter parlare indisturbate; Virginia le era corsa incontro, più sovreccitata del solito, e le aveva detto di volerle mostrare una cosa. Ora si era sistemata sul sellino della motocicletta e stava cercando qualcosa nella borsetta.
«Tieni qua» le porse un accendino color arancione e poi tirò fuori un pacchetto piccolo di sigarette, già consumato per metà.
Marianna non disse nulla mentre Virginia tirava la prima boccata ed espirava il fumo verso il soffitto della cantina; poiché questo era molto basso e lo spazio era minimo, la nicotina si stabilì sopra le loro teste, avvolgendole e impregnando l’aria. Percepì quell’odore intenso e sgradevole inondarla prepotentemente; non le piaceva, ma cercò di abituare pian piano le sue narici a sopportarlo, perché sapeva che dopo sarebbe toccato a lei.
Osservò Virginia; quel giorno aveva indossato un paio di orecchini lunghi, di argento, corredati da una pietra azzurra ben lavorata; spuntavano da sotto i capelli e Marianna s’incantò a fissare il modo in cui il bagliore argenteo guizzava di tanto in tanto fra il castano scuro, la sigaretta che Virginia teneva fra indice e medio e che poggiava sulle labbra, facendola scorrere sul bordo, insalivandola, chiudendoci la bocca attorno.
Virginia allungò la mano verso Marianna, porgendole la parte restante perché la terminasse. Nell’afferrare la sigaretta la ragazza avvertì un brivido sulla schiena così piacevole come non ne aveva mai provati e fu contenta che Virginia avesse scelto di dividere quell’esperienza con lei: in quel modo ciò che stava avvenendo nella cantina apparteneva solo a loro, a lei e Virginia, senza che vi fossero intromissioni indesiderate.
Quando Marianna poggiò la sigaretta sulle proprie labbra ed avvertì i residui della saliva dell’amica, scoprì che quel nuovo brivido sulla schiena era causato dalla fantasia di avere un contatto di qualsiasi tipo con lei; non smise di guardarla nemmeno quando inspirò per la prima volta dal filtro.
Virginia si era sporta in avanti, gli occhi attenti alla reazione di Marianna e il respiro quasi trattenuto; liberò una risata quando la vide tossire ripetutamente con aria disgustata. Marianna ebbe quasi voglia di vomitare al sentire quel sapore amarognolo in bocca e lasciò cadere il mozzicone per terra, alzandosi in piedi.
«Succede così a tutti, la prima volta» le spiegò Virginia,«anche a me.»
Marianna le voltò le spalle per allargare lo spazio fra la grata ed il muro e lasciar entrare aria pulita; tuttavia nel compiere quell’operazione impiegò più tempo e forza del dovuto. Così non era un’esperienza riservata solo a loro, quella; Virginia era già stata iniziata da qualcun altro e Marianna non dovette lavorare molto di fantasia per capire di chi si trattasse. Dopo qualche minuto l’aria si era fatta più respirabile, ma Marianna avvertiva ancora un peso fastidioso opprimerle i polmoni, come se d’un tratto le si fosse ristretta la gabbia toracica e non ci fosse più spazio per permettere loro di espandersi.
«Chi te l’ha dato?» domandò, alludendo al pacchetto e sentendo montare di nuovo il sentimento rabbioso.
«I ragazzi.»
Il generico plurale era una debolissima copertura per qualcosa che entrambe sapevano.
«Tu e Francesco del Mastro siete fidanzati?» domandò a bruciapelo Marianna.
Virginia trasalì e diventò rossa come l’amica non l’aveva mai vista; poi abbassò lo sguardo e rispose:
«No, che dici!»
Ma sulle labbra premeva ancora quel sorriso compiaciuto che lei voleva nascondere; la rabbia che le faceva salire quel sorriso le avrebbe dato la forza di fare qualsiasi cosa, pensò Marianna, e continuò:
«Sì che è vero. Tu gli piaci.»
Era quella la verità, lo sapevano entrambe, ma Marianna aveva forse sperato fino all’ultimo che Virginia negasse, che ridesse, che dimostrasse in qualche modo l’assurdità di tale affermazione. Lei invece non disse nulla ed evitò di guardarla, preferendo giocherellare con un orecchino; Marianna allora sentì le mura della cantina, insieme a tutte le cianfrusaglie che contenevano, crollarle addosso e dovette risedersi. Avrebbe sempre associato l’odore del fumo all’opprimente sensazione di quella delusione cocente.
Lo stato di soffocamento perdurò per qualche tempo, in cui la ragazza non ebbe la forza di rivedere l’amica per passeggiare con lei; sapeva che ogni momento negato a Virginia si trasformava in un’occasione per Francesco, ma nonostante questo la facesse star male avvertirla accanto a sé nel corpo, ma distante nella mente e nel cuore, era di gran lunga più doloroso.
Sembrava lo stato terminale di una malattia, cui era giunta attraverso le fasi dell’ansia e della rabbia, per trovare microscopici conforti in brividi piacevoli ed infine sprofondare nella delusione. Marianna non ricordava che qualcuno, riferendosi all’amicizia, le avesse mai menzionato tutti quei sentimenti passeggeri; non ricordava di essere mai stata tanto vulnerabile e soggetta a sbalzi d’umore.
A volte ripensava a quell’orribile pomeriggio passato in cantina, alle labbra sottili di Virginia, in modo quasi morboso; cercava di ricordare il sapore della saliva che aveva bagnato il filtro della sigaretta, il modo in cui le labbra le si erano chiuse attorno, le sue dita sottili che giocherellavano con gli orecchini. Così, durante il periodo in cui Virginia fu in vacanza, si nutrì di ricordi e pensieri che diventarono via via sempre più strani. La fantasia si sovrappose alla realtà, offrendole immagini di cui Marianna non riusciva ad identificare la provenienza. Da quando in qua aveva cominciato a pensare al corpo della sua amica senza vestiti?
Giunse infine l’ultimo finesettimana di Agosto.
Virginia era tornata dalle vacanze più abbronzata ed alta di prima e Marianna si era decisa a superare la delusione e lo sconforto, confidando che con l’inizio della scuola sarebbe tornato tutto come prima. I ragazzi del quartiere avevano organizzato una partita al gioco più temuto e popolare di sempre: consisteva nello scegliere una penitenza che poi sarebbe toccata a chiunque la bottiglia avesse puntato. Naturalmente quelle più gettonate riguardavano il contatto fisico, dallo stare in grembo al baciare sula bocca un altro giocatore per un dato periodo di tempo; Francesco del Mastro non era presente e perciò Marianna si sentiva più tranquilla.
Ad un certo punto del gioco un ragazzo ordinò come penitenza che il malcapitato desse un bacio al proprio vicino di sinistra. Marianna seguì con apprensione la rotazione della bottiglia, perché aveva alla propria sinistra un ragazzino di nome Matteo, famoso per i suoi denti sporgenti e l’acne che gli sfregiava il viso; per questo tirò un sospiro di sollievo quando il collo puntò verso una ragazza di nome Rachele.
«Non posso baciarla!» protestò questa, perché alla sua sinistra aveva un’altra ragazza, «è una femmina!»
«E quindi? Devi fare lo stesso la penitenza!» esclamò Pietro, che faceva un po’ da portavoce per tutti i ragazzi, curiosi ed esaltati alla prospettiva di vederle baciarsi.
Quando Rachele chiuse gli occhi e sporse le labbra alla cieca verso la sua vicina la parte maschile del cerchio fischiò ed applaudì approvando il brevissimo contatto fra le due.
«Che schifo!»
«Bleah, ora la scelgo io una bella penitenza» affermò Rachele.
Marianna perse il filo del gioco, troppo impegnata a far funzionare le sinapsi nervose. Le si era accesa come una lampadina in testa, tutto le era diventato chiaro; ecco quel che doveva fare: baciare Virginia. Era questo che voleva, questo che il suo corpo cercava di farle capire, questo che significavano le sue fantasie. Sul momento non stette troppo a riflettere su cosa implicasse il fatto che volesse baciare la sua amica, cercò solo il modo di realizzare quell’idea.
Fu sfortunata: la bottiglia non sembrava incline ad accontentarla, perché dopo averla ignorata per un bel po’ la scelse per baciare proprio quel Matteo che le stava a fianco. Vide Virginia ridere e chiuse gli occhi, immaginando che quelle labbra fossero le sue; nei dieci secondi che le toccarono non avvertì altro che una sensazione fastidiosa di umido e le labbra del ragazzo, grosse e ruvide, che premevano sulle sue, niente affatto uguali a quelle sottili, morbide e piacevoli che doveva avere Virginia.
Passò un po’ di tempo e il gioco si mantenne tranquillo fra spostamenti, penitenze disgustose e confessioni esilaranti, finché da una finestra del palazzo numero quattro non si levò un grido.
«Matteo! Matteo!»
Il ragazzo alla sinistra di Marianna si alzò per protestare: non voleva che sua madre lo costringesse a rientrare prima di tutti gli altri.
«Che c’è? È presto ancora!»
«Tanto fra un po’ rientrano tutti!» continuò la signora, sporgendosi dal davanzale.
«E dai, ma’!»
«Che vuoi, che torna tuo padre e ti trova fuori?»
Matteo sbuffò, puntellandosi a terra per alzarsi in piedi; quella era un’argomentazione a cui, sua madre lo sapeva, non poteva obiettare nulla. Allo stesso modo di Matteo, altri ragazzi del cerchio vennero richiamati in casa, chi a gran voce, chi a suon di minacce, chi a cenni e chi semplicemente dallo sguardo severo del padre. Alla fine di quella prima retata rimasero in sette: Marianna, Pietro, Rachele e Virginia più altri tre ragazzi.
«Continuiamo a giocare?» domandò uno di questi.
«No, non ha senso. E poi fra un po’ dovremmo andarcene anche noi.»
Il cuore di Marianna fece un balzo per quel noi con cui Virginia l’aveva inclusa nei suoi programmi, quasi fossero sorelle, abitassero nella stessa casa e dormissero nella stessa stanza.
«Io lo so perché vuoi andartene!» proruppe Pietro, con l’aria di uno che la sapeva lunga, «sei l’unica fra noi a cui non è toccata una penitenza decente!»
Con “decente” Pietro intendeva un tipo di penitenza “fisica”; Virginia roteò gli occhi e domandò:
«E cosa vuoi che faccia? Sentiamo, se per te è così importante.»
«Allora farai una penitenza a scelta del sorteggiato» stabilì lui.
Diede la spinta alla bottiglia, fra l’entusiasmo dei ragazzi e l’apprensione di Marianna, che si domandava cosa diamine avrebbe fatto nel caso in cui fosse stata scelta lei; non aveva dubbi su quale tipo di penitenza avrebbe voluto far compiere a Virginia, ma come poter restare coerente con le sue pulsioni interiori davanti agli altri?
Era stato un sentimento spontaneo, quello nato per Virginia, eppure nello stesso momento in cui era sbocciato, quando ancora nemmeno lei sapeva definirlo, aveva avvertito dentro di sé la reticenza a rivelarlo, qualcosa che le suggeriva di tenerlo per sé. Presa dal suo dilemma, sperando al contempo che la bottiglia puntasse e non verso di lei, trasalì quando dal portone di un palazzo, il numero cinque, una donna richiamò Pietro.
«Che palle... » si lasciò sfuggire lui, alzandosi controvoglia.
«L’avevo detto io, che non ne valeva la pena.»
Virginia stoppò la bottiglia di vetro mentre puntava proprio Marianna.
A poco a poco i ragazzi si separarono per andare ognuno a casa propria, così anche loro due s’incamminarono insieme oltre l’angolo del numero quattro, dirette ai rispettivi portoni.
Marianna giocherellava con la bottiglia di vetro che avevano raccolto, sentendosi vittima di un’agitazione crescente, un formicolio che la scuoteva tutta e le allertava i sensi. Quando vide l’amica avvicinarsi al portone del suo palazzo una scarica elettrica si sostituì all’agitazione, un impulso che voleva avvertirla, e Marianna comprese benissimo cosa significava quell’attimo: non avrebbe avuto un’altra occasione, non ci sarebbero più stati momenti intimi da condividere con lei, Virginia era già lontana e si era voltata solo per l’ultima volta.
«Ci vediamo, domani?» domandò avvicinandosi.
Virginia si voltò, ferma nell’atto di suonare il citofono, e la guardò con perplessità.
«Certo» rispose senza esitazioni, come fosse ovvio.
Marianna non riuscì a replicare se non con un sorriso sbilenco, ancora pervasa da quell’elettricità che la rendeva nervosa. Quando Virginia le si avvicinò per darle i soliti baci sulle guance, si irrigidì e più di un brivido le percorse la schiena.
Virginia si spostò, sorridendole, ma Marianna tenne la mano sulla sua spalla per farla star ferma. Nello stesso momento in cui vide balenare negli occhi dell’amica la confusione, reclinò la testa di lato per chiudere le proprie labbra sulle sue.
Ecco, Marianna percepì benissimo qual era la differenza: la bocca di Virginia non era né umida né ruvida come quella di Matteo e mentre le spingeva contro le proprie labbra Marianna la sentì schiudersi in modo del tutto naturale, nella stessa maniera di come fu facile per lei farci scivolare dentro la lingua. Ora l’elettricità che l’aveva tenuta in allerta si era rilasciata per tutto il suo corpo, assuefacendolo e donandole una piacevole sensazione di tranquillità, come fossero racchiuse in una bolla di sapone; c’erano solo lei e Virginia, nessun Francesco del Mastro, nessun ragazzo.
Si staccò con uno schiocco e nel riprendere a respirare, contemporaneamente all’assunzione dell’ossigeno le sfuggì gradualmente la sensazione d’intimità e sicurezza.
Si allontanò dall’amica senza nemmeno guardarla in viso.
«A domani, allora.»
Prese le chiavi del portone e quasi alla cieca le infilò nella serratura, con gesti rapidi e inconsulti. Una volta sola nell’androne, invece di prendere subito le scale, si fermò al muro, contro la cassetta della posta. Oltre i vetri del portone intravide una luce alla finestra del numero quattro, la stessa della camera di Virginia.
Restò lì in piedi col respiro pesante e il batticuore finché anche quell’ultima fonte luminosa non si spense.

   
 
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