Sono le due del mattino e mio figlio non è
ancora tornato a casa.
Non riesco a prendere sonno e comincio ad
agitarmi: mi volto su un fianco, aggiusto il cuscino, mi rivolto e sospiro
lievemente per non disturbare mia moglie che finge di dormire.
Questa volta, il ritardo di mio figlio mi
preoccupa e mi spaventa più del solito.
Di sicuro, è stato esonerato dal servizio
militare e, per sfogarsi, ha ricominciato a girare per le strade e per i bar
della città.
Sì, so che mio figlio fa un uso sregolato di
alcol ma non gli ho ancora detto nulla.
Io che a ogni minimo errore lo riprendo
immediatamente con severità, su questo non riesco ad aprire bocca né con lui né
con mia moglie.
Forse perché parlarne sarebbe come
ammettere di aver fallito come padre e non voglio.
Ed ecco che in me ritorna l’antico senso
di colpa.
Mio figlio era un bambino vivace, curioso,
sempre allegro e alla ricerca di avventure. Correva, saltava e si arrampicava
dappertutto: sugli alberi del giardino e perfino sull’armadio della camera da
letto. “ La mia scimmietta ” lo chiamavo con affetto.
Forse sbagliavo a essere così transigente
con lui, forse avrei dovuto frenare il suo spirito di avventura e forse
quell’incidente non sarebbe mai accaduto.
Ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Erano circa le dieci del mattino quando
mia moglie mi telefonò in ufficio. La sua voce era rotta da singhiozzi e
riuscii a capire solo poche parole: Sono in ospedale. Kurt è caduto. L’hanno
ricoverato.
Poche parole che bastarono a farmi gelare
l’anima.
Per alcuni istanti rimasi impietrito, con
la cornetta del telefono all’orecchio, senza dire una parola.
Il cuore mi batteva forte per la paura e
la mia testa era come stordita.
Sentivo il pianto di mia moglie ma non
riuscivo a domandarle cosa fosse successo di preciso.
Ero sconvolto.
Di colpo, attaccai il telefono e, correndo
come un pazzo, uscii dall’ufficio e dalla sede del giornale, senza avvisare
nessuno.
Nella mia pazza corsa verso l’ospedale
rischiai di far cadere due persone e di finire sotto un tram.
Non vedevo niente e nessuno oltre a mio
figlio e non riuscivo a pensare ad altro che: “ Cos’è successo?
”
Arrivai all’ospedale ansimante e distrutto
come se mi avessero pestato e dovetti fermarmi un attimo all’ingresso per
riprendere fiato.
Forse quel mio fermarmi non era dovuto
alla stanchezza ma alla paura di apprendere una dolorosa verità e al voler
rimandare quel momento.
Mio figlio era caduto dal grosso albero
del giardino. Aveva battuto la testa ma non c’era stato nessun trauma cranico.
“ Per puro miracolo ” così disse il medico.
Il vederlo piangere e urlare in quel
lettino quasi mi confortò. Mio figlio era vivo ed era lucido.
Ma il mio sospiro si trattenne quando il
medico disse che avrebbero dovuto operargli d’urgenza la gamba.
Se l’operazione fosse andata bene, non
avrebbe più potuto arrampicarsi, saltare, correre né camminare come prima e
sarebbe rimasto claudicante per tutta la vita.
E l’operazione andò bene.
Continuo a rivoltarmi nel letto e
preferisco non ricordare più quel giorno.
Esattamente quattro anni dopo l’incidente,
come tutti gli altri padri, decisi d’iscrivere mio figlio alla gioventù
hitleriana. Feci domanda ma fu respinta. Con ostinazione, mi presentai alla
sede, domandai al dirigente e fui risposto con una risata sarcastica.
Odiai quell’uomo e odiai il mondo che si
apprestava a considerare mio figlio un diverso.
In un’epoca in cui, oltre la purezza del
sangue, si cominciava a richiedere la perfezione fisica, si prospettavano
momenti molto tristi e difficili per mio figlio.
Al rifiuto dell’organizzazione giovanile,
non mi persi d’animo e decisi di fare io stesso di mio figlio un “ buon
cittadino ” nonché un “ fedele e obbediente sostenitore dell’ideologia nazista
”.
E anche in questo ho fallito.
Mio figlio si ostina a considerare gli
ebrei persone come tutti noi, anche se non l’ha mai espresso esplicitamente e
mi domando in cosa ho sbagliato. Da piccolo non gli compravo forse libri
antisemiti illustrati, spiegandogli che al mondo non siamo tutti uguali e che
gli ebrei rappresentano una minaccia per l’intera umanità? Cresciuto, poi, non
lo portavo forse con me alle adunate naziste, esortandolo a urlare “ Heil ”? Ma lui si è sempre mostrato apatico e non ha
mai creduto alla nostra superiorità.
Il nostro rapporto è andato pian piano
deteriorandosi dopo l’incidente ovvero quando incominciai a mettere da parte la
comprensione, la tenerezza e quel calore che sentivo dentro di me e gli donavo
durante i primi anni. Perché ero arrabbiato. Perché sono arrabbiato.
A distanza di molti anni, non sono ancora
riuscito ad accettare l’accaduto e tuttora mi fa male vedere mio figlio in
quelle condizioni.
Ancora una volta, tornano ad assillarmi i
sensi di colpa: se solo quella mattina fossi stato presente, se solo non fossi
andato a lavoro - e pensare che quel giorno non era nemmeno necessaria la mia
presenza in ufficio! - forse non sarebbe successo nulla.
Fa male per un padre sentirsi la causa del
dolore del figlio; fa male il ricordo degli sguardi e delle domande della gente
dall’ostentata compassione; fa male assistere alle piccole, grandi rinunce di
un figlio e ai continui rifiuti. Fa male, faceva male e farà sempre male.
Volevo che mio figlio fosse forte per
affrontare la durezza del mondo e che diventasse quell’ariano, fiero di se
stesso e sprezzante, soprattutto nei confronti della razza inferiore. Ma temo
che la sua condizione lo abbia portato a identificarsi con essa e quindi a non
considerarla tale.
Mio figlio non parla ma lascia trasparire
tutto, dalla sua opposizione all’antisemitismo alla sua sfera emotiva.
Mio figlio è un ragazzo fragile e
insicuro, sensibile e buono … troppo buono. Chiunque potrebbe schiacciarlo da
un momento all’altro e non capisce che bisogna stare sempre sul chi va là, con
attenzione e intransigenza ed è inutile che gli ricordi che “ la vita è una
lotta in cui vince il più forte ”, perché mi risponderebbe con i suoi soliti
discorsi da prete. Crede di essere in paradiso e non in un campo di battaglia,
chiamato mondo e temo che un giorno tutto questo gli si torca contro.
Lancio un rapido sguardo alla sveglia che
segna le quattro e subito richiudo gli occhi.
Mia moglie finalmente dorme.
Ah, Ingrid … quante lacrime ha versato
dopo l’incidente di nostro figlio e quanto dolore cela ancora adesso nei suoi
silenzi.
Lei ha sempre rimproverato il mio voler
insegnare in ogni momento e ad ogni costo a nostro figlio l’ideologia
antisemita, dicendomi che ci pensava già la scuola e che io avrei dovuto fare
il padre e basta. Ma un padre non insegna forse al proprio figlio la vita? E un
figlio non ha forse il diritto di sapere chi è e da chi difendersi?
Il nostro rapporto è anche peggiorato da
quando sono diventato il suo capo. Da circa un anno, infatti, mio figlio
esercita come fotografo nel mio giornale, naturalmente di propaganda nazista.
Spesso, gli rinfaccio la sua lentezza nel consegnarmi le foto, minacciando di
licenziarlo e usando parole - offensive, me ne rendo conto - che mai userei nei
confronti degli altri miei dipendenti. Lui non mi risponde, mi guarda
arrabbiato e va via sbattendo la porta. Come quando a casa gli rinfaccio il suo
non essere ancora fidanzato, dicendogli che alla sua età, nonostante la guerra
e le sue enormi difficoltà, stavo già per metter su famiglia.
E mia moglie mi rimprovera anche questo.
Pensa che io gli dica queste cose per umiliarlo e non perché voglio scuoterlo
dall’apatia, vederlo attivo nel lavoro e pronto a quando dovrà prendere il mio
posto nella direzione, vederlo realizzato nella vita affettiva con una moglie e
dei figli, vederlo felice.
Mia moglie è molto contrariata anche
perché con Käthe, la nostra secondogenita, mi
comporto diversamente. Con lei, infatti, non ho perso l’indulgenza di un tempo
né ho eliminato le esternazioni d’affetto paterno. Ma di lei non devo fare un
vero uomo.
Lentamente, riapro gli occhi: dalle
persiane della finestra entrano dei fiochi raggi di sole, è mattino.
Odo i rumori provenienti dalla cucina di
mia moglie che prepara la colazione e la voce di mia figlia che domanda dov’è
Kurt.
Ancora stordito, mi alzo dal letto e
indosso la vestaglia per raggiungerle.
Scorgo sulle loro facce lo stesso sguardo
d’apprensione e, sedutomi, inizio a tamburellare con le dita sul tavolo.
Poi, di colpo, mi fermo sentendo il rumore
della chiave nella serratura e lancio un’occhiata all’orologio da muro: sono le
otto del mattino e mio figlio è finalmente tornato a casa.