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Autore: Iria    24/08/2011    7 recensioni
[...]
«Non piangere, Julia.»
[...]
«Io… non merito le tue lacrime.»
No, non era degno d’alcun dolore.
Forse, era ancora un po’ troppo inumano per costruire legami.
Forse, s’era trasformato in una caricatura d’uomo negli anni precedenti alla BEGA.
Forse, era semplicemente uno Yurij Ivanov vivente ancora immaturo e così disperato da non saper d’aver lanciato nel vento le ceneri di quello che sarebbe potuto essere un lieto futuro.
[...]
(Yurij x Julia)
Questa, lettori, è la sfida a me stessa prefissata con Nena!
Spero che possa esservi minimamente gradita!
Un grazie a chi leggerà ed uno ancor più grande a chi vorrà lasciare una recensione! ^^
Iria.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Julia Fernandez, Yuri
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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~ Soulmates Never Die

“Julia…”
La ragazza aveva adorato la maniera in cui Yurij pronunciava il suo nome.
Ci provava davvero ad aspirare quella “J” iniziale per farla suonare come una “H”, ma ciò che ne ricavava era solo uno strano ed ibrido accento fra il russo ed uno spagnolo assai stentato.
Sorrideva al mutismo che seguiva quell’osare e, nonostante l’apparente freddezza, il giovane Ivanov si ritrovava immerso in un fresco imbarazzo: le sue gote bianche si tingevano appena di rosa, segno che il sangue era affluito al volto, riscaldandolo.
“Ti diverti così tanto a storpiarmi il nome?”
Julia lo prendeva in giro, per poi abbracciarlo.
Bhé, bisognava aggiungere che Yurij proprio non riusciva a ricambiare la stretta e, quindi, rimaneva lì impalato totalmente immerso nel profumo della giovane.
Un po’ si rammaricava di non essere in grado di dimostrare tutto ciò che provava con la stessa facilità di Julia; e la invidiava.
Lei era bella ed il suo corpo sinuoso emanava calore.
Lui, invece, di certo non poteva definirsi un Adone e tanto meno credeva di trasmettere chissà quali dolci sensazioni.
Semplicemente, si riteneva un incapace e davvero non comprendeva quanto anche una sua sola, distratta carezza avesse reso gioiosa la spagnola.
Già, la giovane li ricordava tutti, tutti i pochi tocchi che Yurij le aveva concesso.

La prima volta era stata dopo il loro incontro di beyblade.
Il russo era rimasto a dir poco sorpreso dalla potenza di Thunder Pegasus e, sfruttando il suo smarrimento, Julia aveva provato ad attaccare e ad infierire su Wolborg con quanta più forza fosse stata in grado di sviluppare.
Ovviamente, Yurij aveva riacquistato ben presto la propria lucidità e, quindi, dopo aver concesso alla ragazza –decisamente un tantino troppo impulsiva, rumorosa e sicura di sé per i suoi gusti- l’illusione d’essere in vantaggio, aveva rovesciato le carte in tavola.
Alla fine dell’incontro, sotto gli occhi stupiti di tutti (era addirittura riuscito a far ammutolire DJ-Man!), Ivanov si era chinato a raccogliere Thunder Pegasus per poi porgerlo alla giovane.
«Niente male.»
Erano state le sue uniche parole che, certamente, vennero pronunciate con un tono incolore e di circostanza, ma che in qualche modo colpirono Julia.
Allora, senza esitazioni, la spagnola prese dalle mani del ragazzo il suo beyblade, sfiorandogli appena i polpastrelli liberi dai guanti senza dita.
Rabbrividì.
Erano gelidi e, soprattutto, talmente ruvidi da sembrare ricoperti di cicatrici.
Però, dopo l’iniziale perplessità dovuta a quel tocco che tanto stonava con la bella figura del russo e prima che quest’ultimo scomparisse fuori dall’arena assieme ai suoi compagni, Julia racimolò una buona dose di coraggio.
«Ehi, Yurij Ivanov! Sfidiamoci ancora!»
Il giovane a tale grido –ah, che voce stridente possedeva quella tipa!- si era voltato appena e, alzando un sopracciglio, aveva fissato il proprio sguardo sul viso dell’altra.
Gli occhi verdi della ragazza brillavano spavaldi, come a volergli dire che, ehi, quella era stata solo fortuna e che la prossima volta sarebbe riuscita a stracciarlo.
Per un istante il russo –attraversato da una punta di penetrante irritazione- fu davvero tentato di rilanciare in campo il bey e dimostrarle per una seconda volta –e se non fosse bastato, anche per una terza!- che le sue ridicole saette non avrebbero mai potuto infrangere il ghiaccio perenne di Wolborg …
Poi, però, stringendo i pugni e con un mezzo sorriso, si limitò a far scoccare la lingua contro il palato.
Self-control.
«Perché no..? Un giorno o l’altro si potrebbe fare…»
E se ne era andato, seguendo il resto della NeoBorg negli spogliatoi.
Julia era rimasta lì, entusiasta.
Oddio, non era stata una risposta che poteva essere definita positiva, eppure Yurij non le aveva negato la possibilità di incontrarsi di nuovo.
Anche se… aveva chiaramente avvertito una punta di malcelata malinconia nel tono di voce del ragazzo.

La seconda volta era avvenuta in una circostanza decisamente meno lieta.
Dopo essersi svegliato dal coma in cui era caduto in seguito allo scontro con Garland, il russo aveva commesso la pazzia d’alzarsi e scappare, letteralmente, dall’ospedale solo per raggiungere Kinomiya e potere assistere al suo match contro Brooklyn.
Julia non si sarebbe mai aspettata un comportamento tanto sconsiderato da parte del glaciale blader, e ne rimase spiazzata.
Se avesse avuto il diritto di farlo, lo avrebbe preso a schiaffi, giusto per ricordargli che di norma le persone sane di mente appena risvegliatesi da un coma di diverse settimane si lasciavano sottoporre ad infinite visite…
Però, decisamente, quelli non erano affari suoi e lei, appunto, non aveva nulla da spartire con quel giovane se non una rivincita lasciata in sospeso.
Ed allora perché mai era così arrabbiata..?
Perché mai le fasciature che coprivano le ferite di Yurij la rendevano così
infinitamente triste..?
Perché mai si ritrovò a tremare preda della paura, quando lo vide accasciarsi al suolo..?

Il suo cuore s’era fermato e per un attimo il gelo le era piombato addosso, famelico.
Inoltre, nella camera del ragazzo, quando fu portato di nuovo in ospedale, Julia divenne una presenza molto simile a quella d’un fantasma.
Appariva appena i dottori lasciavano la stanza e se ne andava poco prima che il russo ricevesse le visite dei suoi compagni di squadra.
Neanche lei sapeva dare una valida spiegazione al suo atteggiamento.
Yurij dormiva e da quando era svenuto erano passati un paio di giorni: pareva che avesse esaurito tutte le energie per rimettersi in piedi…
Julia restava alzata di fianco al letto e lo osservava silenziosa.
Memorizzava le immagini della sottile linea di quegli occhi all’insù velati, delle labbra appena schiuse coperte da una maschera per l’ossigeno e dei capelli scomposti sparsi sul cuscino.
Fissava, attenta, il torace del ragazzo scoperto dalla vestaglia ospedaliera che si abbassava ed alzava con regolarità al ritmo dei respiri.
Poi, sospirando, lasciava la camera.
Ma non quella volta.
Dopo quattro giorni che il russo si era riaddormentato, d’improvviso, pronta per andar via, la giovane aveva avvertito una presa gentile sul polso.
Lentamente, fece per voltarsi in direzione del ragazzo nel letto, ma la voce di quest’ultimo –sottile ed affaticata- la raggiunse prima dell’immagine di quegli occhi azzurri finalmente aperti.
«Certo che… sei una tipa… piuttosto… invadente
Il tono canzonatorio le fece venir voglia di prenderlo a schiaffi e stenderlo per la terza volta –bhé, non c’era due senza tre!-, ma l’espressione cordiale dei suoi occhi le fece rimangiare quell’intento violento.
«Credo che tu abbia scelto il momento meno opportuno per iniziare a fare il loquace, Yurij Ivanov.»
Probabilmente, si mostrò molto più severa di quanto avrebbe voluto, eppure la presa sul polso non si attenuò né parve vacillare.
Era leggera e scossa dalla debolezza, certo, ma sicura in quella fragilità.
«Ho… sentito dire che… quando una donna… chiama un… uomo col suo intero nome…non significa nulla di buono.»
Ivanov parlò ansimando, con il solito mezzo sorriso a fior di labbra.
Julia, divertita da quell’affermazione ironica, osservò ogni suo singolo movimento, imprimendo nei propri ricordi la sensazione della mano ruvida di Yurij sulla pelle.
«Bah, non vedo perché dovrei essere arrabbiata con te; non mi risulta che abbiamo un qualche tipo di rapporto coniugale..!»
Ribatté, provando ad imitare il tono distaccato e sarcastico del giovane, ottenendo una lieve risata in risposta.
«Bhé, a me, invece, non risulta… d’aver insinuato che… tu fossi arrabbiata.»
A quelle parole, Julia avvampò.
Il suo volto parve prendere fuoco e le sinapsi, con molte probabilità, finirono in corto circuito.
Si diede dell’idiota più e più volte, maledicendo il giovane russo in spagnolo, in inglese e in giapponese e, augurandogli le peggiori pene dell’Inferno, con uno strattone –forse un po’ più violento di quanto avrebbe desiderato- si liberò dal tocco di Yurij.
«Vado a chiamare un dottore. »
Oh, l’acidità nel tono della ragazza parve consumare le stesse pareti..!
Però, quando si fu voltata la voce di Yurij attirò ancora la sua attenzione e riuscì a bloccarla.
«Stepanovich. »
Il bisbiglio, udibile appena, era tinto di una malinconia tale da sfiorare l’amarezza ed il disprezzo.
«È il mio… patronimico. Mi chiamo… Yurij Stepanovich Ivanov. »
La fatica nel pronunciare quella frase esplicativa non era dovuta al dolore fisico che attraversava l’intero corpo del ragazzo.
No, no, era stato abituato a torture ben peggiori!
Ma la causa, più che altro, fu un certo ribrezzo nel dover dichiarare d’avere ereditato il nome di suo padre.
Julia sospirò, esasperata.
Poi, con l’ombra di un sorriso sulle labbra si allontanò.
«Vado a chiamare un dottore, Yurij Stepanovich Ivanov.»
Quando rimase solo nella stanza, il giovane osservò a lungo la propria mano.
Sul palmo, coperto da cicatrici biancastre –solo da poco aveva iniziato ad usare dei guanti di protezione-, s’era impresso un calore che mai l’aveva sfiorato.
E ne rimase segretamente contento.

La terza volta era stata piuttosto imbarazzante.
Alcuni bladers stranieri –i maggiorenni, per lo più- avevano deciso di fermarsi in Giappone e di lavorare alla sede della BBA.
Yurij Ivanov e Julia Fernandéz furono tra quelli.
Inoltre, per uno strano caso –o forse più semplicemente perché Daitenji era un segreto fan dell’eventuale coppia..!- si ritrovarono ad allenare i ragazzi sullo stesso piano del grattacielo dell’associazione sportiva.
E, bhé, il risultato non poté che essere dei peggiori.
Irripetibili epiteti in spagnolo rivolti contro la rispettabile persona di Yurij volavano da una parte all’altra dei corridoi, cortesemente ricambiati dai silenziosi borbottii del russo nella sua madre lingua.
Già, le gentilezze tra i due erano all’ordine del giorno e se Yurij dopo un buon quarto d’ora di rimproveri (“Sei troppo duro con loro! Sono bambini e non quei tre gorilla dei tuoi compagni! Cerca di essere più flessibile e prova a sorridere in maniera umana qualche volta! Ma mi stai ascoltando?!”) metteva fuori uso l’audio sostituendo gli starnazzi di Julia con un piacevolissimo sibilo, la ragazza non mancava mai di perdere improvvisamente la voce quando Yurij aveva necessariamente bisogno di lei (“Hai compilato questi moduli?” “…” “Mi accontento di un cenno del capo, sai?”).
Una volta, una discussione degenerò al punto che furono costretti a continuare coi loro discorsi fuori dalla portata delle orecchie dei bambini; e la foga di Julia nel camminare fu tale che per poco non ruzzolò giù dalle scale.
Bhé, sì, era stata un’acrobata da circo, ma certamente non eseguiva le sue esibizioni con la rabbia che le premeva in petto, pronta ad esplodere.
Però Yurij, con la sua prontezza di riflessi, le avvolse un braccio attorno alla vita e caddero insieme, lei protetta dal corpo del giovane che gli era dietro e che ritrovò sotto di sé una volta rotolati sul pavimento.
Quando il russo batté la schiena, lo sentì gemere ed imprecare qualcosa di vagamente volgare contro la propria incapacità di stuntman.
«Atterraggio comodo: sei stata fortunata, però… ora potresti spostarti? Non si direbbe, ma non sei poi così leggera come sembri.»
Aggiunse poco dopo, fissando con un sopracciglio inarcato il volto della ragazza che era ancora sopra di lui.
La gratitudine di quest’ultima nei confronti del suo improvvisato salvatore non ebbe neanche il tempo di mutarsi in imbarazzo a causa dell’ambigua posizione, che subito si trasformò in ira.
Si sollevò nella maniera meno gentile che conoscesse, mozzando un paio di volte il fiato al ragazzo premendogli sul torace, per poi provare a stampargli la suola delle scarpe sul naso.
«Tu non sai proprio come parlare ad una donna, vero?!»
Esclamò, mentre Yurij afferrandole la caviglia nuda –Julia indossava degli shorts, quel giorno- tentava di allontanare quel trentanove di piede dal proprio viso in religioso e concentrato silenzio.
Poi, però, la ragazza si bloccò di colpo, arrossendo.
Ivanov inizialmente la guardò con espressione interrogativa poi, illuminatosi, bisbigliò un sottile ‘oh’ lasciando andare la gamba della spagnola e mettendosi a sedere.
Julia allora, zittitasi per la vergogna ed ormai in tinta coi capelli del russo, decise che sarebbe stato molto più saggio levar le tende e tornare a lavoro.
Ma prima che avesse potuto mettere più di tre metri di distanza fra sé ed il dolorante Yurij, la voce di quest’ultimo la raggiunse.
«Non volevo offenderti. Ti offro il pranzo, okay?»
Le parole del russo furono dettate fondamentalmente dalle seguenti ragioni: aveva dei buoni pasto in più in quanto si era dimenticato un paio di volte di mangiare; non voleva dover continuare a lavorare col rischio che la palestra si trasformasse in un fronte e, soprattutto, essendo la sua coscienza una grande bastarda, poiché non riusciva a strappare al giovane la parolina magica (‘scusa’), cercava altri espedienti ben più umilianti per far sì che il russo esprimesse il suo pentimento.
La spagnola, udita quella frase, la analizzò come a volervi scovare all’interno un malcelato secondo fine.
Poi, avendo mentalmente appurato che non vi fosse nulla di machiavellico nell’invito del russo, si girò.
«Va bene.»
Acconsentì infine, guardando Yurij che, rimessosi in piedi, aveva atteso la risposta della giovane con l’espressione evidentemente seccata per il troppo tentennare.
Quindi, voltandosi per la seconda volta, allontanandosi, Julia iniziò già a cercare un modo per farsi perdonare il livido che da lì a qualche ora avrebbe tinto la bianca schiena del russo.

Si innamorarono molto lentamente.
E, con ogni probabilità, la vera causa fu la scarsa accondiscendenza di Yurij ai sentimenti.
Al muto pranzo che condivisero, si aggiunsero le maldestre cure mediche di Julia nei confronti della schiena del giovane.
Lui quel giorno più volte, al limite della pazienza, le aveva ripetuto che non avesse bisogno di nulla, nulla e che stava benissimo.
In realtà, si sentiva piuttosto a disagio alla prospettiva di doversi spogliare davanti ad una ragazza.
Al monastero non c’erano mai state bambine e, quindi, s’era abituato ai decisi occhi ben piantati a terra che gli uomini improvvisamente s’imponevano di silenzioso accordo quando si ritrovavano a dover fare la doccia negli spogliatoi in comune.
Però alla fine, a causa dell’assurda insistenza della ragazza che gli sventolava contro un tubetto di crema per gli ematomi, si costrinse ad accettare.
Julia era rimasta ammutolita nel vedere il torace nudo del giovane.
Si erano diretti in uno spogliatoio e lì Yurij si era sfilato la t-shirt nera con una certa riluttanza che la spagnola comprese ben presto.
Tanti bianchi e lucidi ghirigori di cicatrici gli attraversavano la linea dei fianchi, dell’addome e dei muscoli della schiena.
Certo, il fisico ben fatto del ragazzo avrebbe dovuto mettere in secondo piano quei particolari irrilevanti, ma Julia li notò subito e le si strinse il cuore.
«Dai, sbrighiamoci a piantarla con questa buffonata.»
C’era anche da dire che con la sua voce bassa e penetrante Yurij fosse in grado di rovinare ogni momento e di mutare radicalmente le intenzioni di Julia.
Difatti, poco dopo la spagnola spalmò la crema il meno delicatamente possibile, strappando al russo diversi mugugni di dolore soffocati.
Ah, le soddisfazioni della vita!

Si creò un circolo vizioso fatto di pranzi, uscite, cene e dispetti.
Piano, iniziarono a comprendere l’uno i bisogni dell’altra e mesi dopo, in seguito all’ennesimo litigio, le loro labbra si ritrovarono così vicine a sbraitarsi contro che sarebbe stato un vero peccato non concedersi un bacio.
Per Yurij quella fu la prima volta e lo trovò piuttosto… umido.
Insomma, nei film la cosa non sembrava coinvolgere così tanto l’intera bocca, ma lui era un ingenuo da questo punto di vista e l’unico intimo contatto che avesse mai avuto con una ragazza (sempre Julia!) prima di allora era somigliato più ad una scena di wrestling.
Quando si separarono, non volò una sola parola tra loro.
Sorrisero e per la prima volta Julia poté vedere le labbra di Yurij distendersi in un qualcosa che finalmente sembrasse donargli un’espressione di vaga contentezza.
La spagnola lo strinse e, in quel momento, il loro strano rapporto iniziò a mutare.

“Julia…”
La ragazza aveva sentito più e più volte quel soffio invaderle l’udito.
La riempiva e le bastava solo che Ivanov pronunciasse il suo nome in quel maniera assolutamente idiota per renderla felice.
Il giovane la fissava dritta negli occhi con un mezzo sorriso e lei, da parte sua, piangeva.
Il cielo si era rannuvolato fuori dalle grandi finestre del suo appartamentino, ingrigendo l’ambiente di quella modesta abitazione che aveva cercato di rendere colorata.
Quando Yurij saliva a prenderla sotto gli occhi scrutatori di un Raul decisamente contrariato, sbatteva un paio di volte le palpebre per abituarsi a quell’improvvisa esplosione di calde tinte.
Le riteneva eccessive e forse un po’ stravaganti, ma alla fine non aveva alcun diritto di lamentarsi, in quanto di certo non era lui a vivere in tutto quel colore…
Inoltre, col tempo la giovane aveva anche appreso che Ivanov almeno per una settimana al mese tornava in Russia.
Fin qui riteneva che non ci fosse nulla di sbagliato o malvagio, se non fosse stato che al suo ritorno Yurij si chiudeva un po’ più in se stesso, evitando di rivolgerle la parola o di uscire per il resto del mese.
Julia non comprendeva e s’infuriava con quanto più ardore potesse permettersi, calmandosi solo quando il ragazzo le rivolgeva uno sguardo totalmente immerso nella tristezza.
In quei momenti, era come se, scuotendola con forza, le avessero sfilato il pavimento da sotto i piedi lasciandola cadere nell’azzurro un po’ spento delle iridi del russo.
Ed allora si calmava, aspettando con pazienza il momento in cui Yurij le si sarebbe avvicinata chiedendole d’uscire.
No, non riusciva mai a scusarsi, ma la spagnola lo accettava ugualmente perché sapeva che, d’altra parte, Yurij fosse in grado di chiedere perdono solo con quei pacati gesti…
Però, lo spavento la catturò ben presto nelle sue velenose spire, quando un giorno di un mese che non ricordava più, Ivanov tornò da Mosca in grande ritardo con un labbro tumefatto, un occhio tendente al verdastro ed il braccio destro completamente fasciato.
In aeroporto lo fissò a lungo shockata, con una mano sulle labbra; poi, gli corse in contro in preda al panico.
«Cosa diavolo ti è successo?!»
Lui le sorrise.
Lo stesso mezzo sorriso intriso d’amarezza che l’aveva sempre contraddistinto.
«Sono scivolato sul ghiaccio e mi sono ridotto le ossa in tante piccole schegge. Forse non potrò più lavorare alla BBA.»
Yurij non era mai stato in grado di raccontare convincenti bugie.
Però Julia sembrò prendere per vere le sue parole e, muta, con le lacrime che le pizzicavano gli angoli degli occhi, accompagnò il giovane al suo monolocale.

In realtà, Ivanov aveva problemi ben più seri rispetto a quello che poteva essere un precario equilibrio sul ghiaccio…
Debiti.
I debiti di Vorcov e della Borg, i debiti di cui rispondeva in prima persona: già, si era esposto come presidente, allenatore e capitano della nuova squadra russa e s’era detto disposto a pagarne le conseguenze.
Una volta al mese, quindi, per una settimana, tornava in patria e cercava di saldare a poco a poco il conto coi creditori del vecchio monaco.
Oh, no, non era per un moto di pietà nei confronti di quello stronzo…
Ma il monastero, assieme a tutti i suoi piccoli ospiti, rischiava di incappare nella vendetta di qualche altro folle criminale e non poteva permetterlo.
Così ciò che restava del suo consistente –doveva ammetterlo- stipendio si perdeva nelle avare tasche di quelle bestie fameliche che ancora osavano definirsi uomini.
Yurij non aveva paura di affrontarli a viso aperto.
Personalmente, non possedeva nulla da perdere e se fosse morto gli sarebbe dispiaciuto unicamente per quelle poche persone che si erano legate ad un bastardo come lui… o almeno così si ripeteva, mentre il ricordo del profumo di Julia tornava ad accarezzagli le narici.
Però, le vite di tanti piccoli mocciosetti erano nelle sue mani e si definiva pronto anche a vender l’anima al Diavolo e a sottomettersi, pur d’evitare una tragedia.
E quella volta le contrattazioni non erano finite tanto bene.

«Ho bisogno di un altro mese di lavoro ed il debito sarà saldato.»
Aveva esordito con freddezza, seduto ad una sedia in una stanza in penombra.
L’unica risposta ricevuta era stato un pugno dritto sul mento che gli aveva fatto sputare sangue.
Ingoiò il liquido ematico che ancora si riversava dalle sue labbra e rimase in silenzio.
«E se perdessimo la pazienza ora..?»
Il sibilo gelido proveniva dalla parte più scura di quel quadrato buio, ma Yurij parve non essere intimorito dal tono vagamente minaccioso.
Altri colpi si aggiunsero al primo e, sempre zitto ed inamovibile, il giovane tornava a raddrizzarsi con sfrontatezza.
«Non ho paura… di chi mi minaccia… senza neanche mostrarsi.»
Ribatté.
Il sangue gli colava lungo il mento e lo zigomo sinistro pulsava.
Sapeva d’aver osato troppo, ma non se ne pentì e la sua unica consolazione fu l’essere consapevole che non l’avrebbero ucciso fin quando non avesse restituito tutti i soldi…
L’uomo che gli aveva gonfiato la faccia a quelle parole gli si avvicinò, giocherellando con una mazza da baseball.
Inquietantemente, non reagì subito, ma afferrò il volto di Yurij fissandolo con una scintilla di sana malvagità negli occhi neri iniettati di sangue.
Il russo era immobile.
Ansimando, manteneva il contatto visivo con quell’uomo di cui a stento identificava i tratti somatici.
«Ah, allora potrei spaccarti il braccio destro… così la prossima volta che verrai non sarai tanto spavaldo. Che ne dici..?»
Yurij non rispose, mordendosi l’interno della guancia.
Non voleva peggiorare la propria situazione e, tanto meno, rischiare di perdere il lavoro alla BBA.
Non poteva permetterselo, non in quel frangente.
Mancava davvero poco, dannazione.
Poi avrebbe potuto essere libero e molto più aperto nei confronti di Julia.
I criminali con cui si era ritrovato ad avere a che fare non erano di certo allo stesso livello della Organizatsya.
Fortunatamente, Vorcov a suo tempo aveva voluto concludere affari solo con pesci piccoli, di quelli vigliacchi che non avrebbero mai osato commettere illegalità fuori dalla propria patria.
Però Yurij, tornato dalla Russia, per il tempo durante il quale sapeva che sarebbe stato tenuto d’occhio si poneva a distanza da Julia.
E, provvidenzialmente, accadeva che la ragazza quelle volte si sentisse troppo offesa per rivolgergli la parola, chiedergli spiegazioni o anche solo guardarlo.
Oh, senza rendersene conto il giovane Ivanov si era trovato… una compagna perfetta.
Chiuse gli occhi, cercando di calmare il capogiro che lo colse ed evidentemente l’uomo prese quel gesto come una sfida alle sue parole perché, ringhiando iroso, abbatté la mazza da baseball sulla spalla del ragazzo.
Yurij soffocò il grido che gli bruciò in gola, colto dalla nausea del dolore e più e più volte quel pezzo di legno si infranse sulle ossa del suo braccio con violenza.
Il giovane perse i sensi in diversi momenti tra un colpo e l’altro.
Sentiva come se l’arto fosse ormai diventato un corpo a lui estraneo avvolto nella pesantezza della gomma.
La sofferenza, come una ragnatela, si dipanava appena sotto la cute del russo, traducendosi in un calore che aveva la stessa consistenza del sangue.
Ad ogni colpo un osso si frantumava e, senza che vi fossero ferite esterne, appena sotto la pelle del giovane andava a raggrumarsi il liquido ematico che colava dalle lesioni interne.
Yurij le sentiva ad una ad una.
Avvertiva esplodere il dolore così come si spezzavano i tessuti dell’arto ed ogni volta c’era un tepore ben diverso da quello profumato di Julia ad abbracciarlo…
Già, il calore che lo pervadeva era putrido e marcescente come un cadavere.
Yurij gemette nel suo essere completamente disarmato e la disperazione lo colse, accompagnata da un pensiero che lo tormentò.
Non aveva ancora dato la rivincita a Julia.
Allora, provò a sottrarsi a quella tortura, tentando di bloccare con l’altra mano i colpi, di difendersi da ciò che avrebbe potuto segnare la propria condanna.
Mai, mai come allora il beyblade avrebbe significato continuare a vivere.
O, per lo meno, donare una salvezza a chi ancora poteva ardirvi –e lui di certo non era fra questi fortunati.
Ma l’uomo lo scaraventò a terra, continuando ad infierire sul braccio che ormai iniziava ad assumere un colore violaceo.
Mentre si mordeva a sangue la lingua pur di soffocare le grida, il suo corpo volle liberarlo dalla coscienza del dolore e, preda della bile che gli infiammava l’esofago, il ragazzo svenne.
L’immagine di Julia si stagliò nell’oscurità dei suoi incubi, pallida e sconvolta; e l’unica cosa che Yurij fece nel buio del proprio oblio fu di bisbigliare al nulla una sola, accorata ed egoistica preghiera.
Rivederla, rivederla ancora una volta.
Poter trascorrere un altro mese fra le sue braccia e trovare il coraggio di dirle addio.
Oh, non era per niente bravo in quel genere di cose.

Quando si svegliò in ospedale, fu il volto funereo di Boris ad accoglierlo.
Il rimprovero nei suoi occhi si alternava allo spavento e ad un’angoscia ovattata.
Huznestov più volte aveva ripetuto che sarebbe stato meglio dichiarare alla polizia in quale situazione erano immersi, ma aveva sempre sbattuto contro il muro della dura testardaggine di Yurij.
La polizia era corrotta e da bambini ne avevano avuto sempre conferma  –i poliziotti si dimostrarono ciechi, sordi e muti di fronte alle lacrime che si levavano dal monastero Vorcov-, quindi sarebbe stato più saggio estirpare alla radice il problema, pagando per gli errori commessi da un povero pazzo.
Però Ivanov ne stava subendo l’amaro prezzo…
E solo per pura fortuna –o sfortuna, forse..?- quella volta era sopravissuto.
Dopo essersi trattenuto in Russia una settimana più del dovuto, fuggì ancora a delle cure mediche che avrebbero richiesto più tempo ed era tornato in Giappone con una vaga consapevolezza nel cuore.
Quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio di ritorno.

“Julia…”
La ragazza aveva stretto a sé il russo e, posandogli la testa sul petto, in silenzio ascoltava i suoi respiri ed il lento battito del cuore.
Sei così calda, Julia…
Yurij glie lo ripeteva spesso in un bisbiglio udibile appena.
Quando la spagnola lo avvolgeva tra le sue braccia, provando a riscaldare quel corpo sempre un po’ troppo freddo, il giovane tirava un lungo sospiro, beandosi completamente in quel tepore che lo coglieva ad ondate.
Julia sapeva che Yurij non aveva mai provato nulla di simile e che un po’ troppo spesso il gelo catturava il corpo longilineo del ragazzo…
Allora era lei, lei e solo lei che provava a trasmettergli quanto più calore potesse.
D’istinto gli si avvicinava e come il profumo forte di Ivanov le riempiva le narici, lo abbracciava, immergendovisi.
Ed il russo, che non riusciva a ricambiare la stretta con la stessa forza, le sussurrava all’orecchio con una voce così leggera che spesso le sue parole somigliavano ad un fioco canto.
“Non piangere.”
Le iridi azzurre di Yurij la studiavano attenti, scintillando svegli.
Sul volto del giovane s’era disegnata un’espressione gentile, ammorbidita appena dal sorriso che lo abbelliva.
Un lampo illuminò la stanza di Julia, preannunciando l’assordante tuono che s’abbatté poco dopo lì vicino.
Poi, con fare inevitabile, la pioggia iniziò a ticchettare contro le finestre a ritmo sempre maggiore.
Gli occhi della spagnola erano annebbiati dalle lacrime nel fissare l’immagine del russo.
Lente, le gocce d’acqua salata le solcavano il viso con sadica crudeltà, ma lei non muoveva un sol muscolo per provare ad asciugare quelle scie che le pizzicavano la pelle.
Si era allontanata di qualche passo dal corpo del ragazzo e continuava a fissarlo intrappolata nella disperazione.

Due giorni dopo che era tornato dalla Russia, Yurij si era presentato di fronte al presidente Daitenji.
Con cortese distacco, aveva chiesto il permesso di riprendere a lavorare subito nonostante il braccio rotto.
L’anziano e gentile signore inizialmente fu contrariato: non voleva che il ragazzo si sforzasse o che la cosa potesse rivelarsi dannosa per la sua salute…
Ma osservando l’occhio ancora un po’ gonfio del russo mandar lampi, con un lungo sospiro decise di accondiscendere, a patto che il giovane si fermasse alla BBA la metà delle ore che gli spettavano.
Con un inchino Yurij accettò il compresso, ed in cuor suo s’augurò che quell’ultimo mese trascorresse in fretta…
Julia in quelle settimane non fece altro che lanciargli occhiate ansiose.
Come sempre, si ritrovavano a discutere e a far pace con baci appena accennati, ma la spagnola aveva notato che dietro l’azzurro dello sguardo di Yurij s’era annidato qualcosa di nero e sporco.
Sfiorandogli le dita, avvertiva uno spasmo nei muscoli del giovane che la spaventava ed uno scatto fugace nei suoi occhi che la insospettivano.
Julia, estorcendo informazioni a quanti più bladers avesse avuto la possibilità di incontrare, era venuta a conoscenza di diversi avvenimenti della vita di Yurij.
Sapeva di star sbagliando ad indagare in quella maniera, ne era consapevole.
Ma se Ivanov non voleva parlare, lei non avrebbe mai accettato passivamente che si riducesse in pezzi innanzi ai suoi occhi.
Aveva così scoperto che il russo era stato abbandonato dalla famiglia da bambino (e qui comprese il perché Yurij fosse stato così pieno di rancore, quando le si presentò col proprio patronimico) e che Vorcov –con suo enorme disgusto- non si era potuto definire propriamente un monaco
Ma ancora non riusciva a spiegarsi il motivo del turbamento che aveva catturato Yurij dopo la sua ultima visita in Russia.
Insomma, tutto ciò che aveva tra le mani apparteneva a quello che era stato solo il passato del ragazzo che le accarezzava le labbra…
Cos’altro non conosceva..?
Aveva provato a chiedere a Kei.
Seguendo silenziosa il giapponese, si era ritrovata poco dopo con la sua espressione cupa a pochi centimetri dal viso.
Hiwatari, allora, l’aveva guardata a lungo con le labbra sigillate in un’espressione severa.
Poi, si era voltato, andando via.
«Ti sei affezionata troppo a lui. Soffrirai…»

“Julia…”
Spesso, quando erano soli in casa della spagnola, si stendevano in silenzio sul letto e Yurij poggiava il capo sul ventre della giovane.
Socchiudeva gli occhi e concedeva alla ragazza di accarezzargli i capelli in lenti ed ipnotici movimenti.
Ivanov si perdeva in quelle cure e se ne restava zitto a goderne totalmente.
Il profumo della ragazza era delicato e gli sfiorava appena le narici; non aveva nulla di innaturale, non era una eau de toilette costosa o economica acquistabile… sapeva di vita.
C’era un buon aroma di biancheria pulita e fresca che, mescolandosi al calore della pelle di Julia, assumeva la stessa fragranza che aleggiava nell’aria in una tiepida giornata primaverile.
Yurij era assuefatto a quel profumo per lui inusuale e, respirandolo curioso, ne era rimasto deliziato…
I loro corpi, così stretti, erano vicini e pieni di vita.
Il russo avvertiva i battiti del cuore della ragazza risuonare in lei cauti e ritmati e, cullato da quella ninna nanna, cadeva preda di un dormiveglia dove le fresche labbra di Julia premevano dolci sulle sue come acqua.
Yurij le carezzava il viso caldo, fissandola intensamente senza batter ciglio e la blader sorrideva allo studio silenzioso intrapreso dal russo. 
Il giovane non pronunciava una sola parola, né le sue labbra si piegavano in un’espressione rilassata; semplicemente si immergeva in Julia quanto più profondamente gli occhi potessero permettergli e per un po’ si stendeva in quei prati verdi così soleggiati.
Un pomeriggio, però, dopo che erano tornati dalla BBA, quella loro tranquillità fatta di carezze parve spezzarsi.
«Yurij…»
Il ragazzo non rispose, ma Julia sapeva che la stava ascoltando e, quindi, sfiorandogli appena la fasciatura del braccio destro, continuò.
«Vuoi dirmi la verità..?»
La richiesta della spagnola non ammetteva una risposta negativa e questo Ivanov lo capì al vibrare della sua voce seria e decisa.
Julia otteneva sempre ciò che voleva.
Con precisione, astuzia, un pizzico di inventiva e tanta, tanta testardaggine, pur di spaccarsi la testa contro il duro suolo arrivava a sfiorare se non ad afferrare il proprio obiettivo.
In un modo o nell’altro, quindi, si avvicinava sempre a ciò che era oggetto dei suoi desideri.
E quella volta voleva… no, anzi, pretendeva la verità.
«Ho visto le lastre delle ecografie. Non sono una stupida e ti ricordo che in quanto ex artista circense sono piuttosto esperta di fratture… e quella non te la procuri cadendo sul ghiaccio,Yurij Stepanovich Ivanov.» 
E il giovane cosa avrebbe dovuto risponderle..?
Inizialmente, pensò di mostrarsi indignato e furioso in quanto la spagnola era andata a frugare fra documenti che, a suo dire, non avrebbero dovuto riguardarla e che, soprattutto, sarebbero dovuti restare sotto chiave alle BBA.
Poi, si rese conto che proprio non riusciva a montar su disprezzo, rabbia o irritazione per tal gesto.
D’altra parte, anche questa intraprendenza era una pregevole caratteristica di Julia che faceva sorridere di cuore Yurij.
«Non curartene, davvero. Non è nulla di importante… nulla che debba riguardare te.»
La ragazza avrebbe voluto prenderlo a schiaffi.
Afferrare il suo bel volto tra le mani e gonfiarlo…
Però, poi, guardò negli occhi del giovane e li vide malinconici.
Fissò le cicatrici biancastre che avvolgevano come rovi il suo braccio sinistro scoperto dalla bianca canotta che indossava, e si disse che, in fondo, non aveva poi così tanto diritto di pretendere da lui delle risposte.
Yurij aveva i suoi demoni che Julia avrebbe voluto curare, certo; però sapeva anche di non poter entrare rumorosamente fra i putrescenti segreti del russo.
Ivanov doveva aprirsi e lui solo dirsi pronto a concedere anche quei pezzi marci del proprio cuore alla spagnola.
Quindi, la blader rimase in silenzio, stringendosi un po’ più al torace di Yurij.
I battiti cardiaci le parvero mostruosamente lenti.
E sprofondò nel profumo agrodolce del russo, avvertendone l’ineffabilità.

Una sera, poco prima che partisse, Ivanov era andato a trovarla, nascondendo nelle tasche dei larghi pantaloni un biglietto aereo di sola andata per Mosca.
Il braccio era ancora accuratamente fasciato e non sembrava voler guarire.
Il russo, notando l’insistenza con cui Julia fissava quel particolare –come a voler ancora pretendere silenziosamente una risposta- le si avvicinò con pacatezza e, prendendole una mano, la strinse con fare gentile.
«Ascolta…»
Iniziò deciso, invitandola a guardarlo negli occhi con un lieve bacio sulle dita.
Julia sussultò appena, non si sarebbe mai aspettata un gesto così… dolce.
«Domani parto, ma starò via per poco. Al mio ritorno, metterai quel vestito bianco che tanto mi piace ed usciremo. Ti porterò al karaoke; odio quel posto, sai..? Ma se devo iniziare a farmi perdonare… comincerò da lì.»
C’era qualcosa che rasentava il macabro nella stretta di Yurij sulla sua mano.
Era sempre ruvida, sempre in contrasto con ciò che ci si sarebbe potuti aspettare da un ragazzo affascinante come Ivanov, però ora quella presa non aveva nulla, nulla di rassicurante, fermo o deciso come tempo prima lo era stata nonostante la debolezza.
Persino la stessa voce del russo parve incrinata ed ovattata da un’oppressione che lo schiacciava fin dentro le ossa, congelandolo.
Julia a tali parole prese a piangere.
Non seppe spiegarsi il motivo, ma le lacrime scesero amare ed infinite lungo la linea delle sue gote.
E si rammaricò; e si diede della stupida per questo.
Lei non piangeva mai.
«No, no, ti prego… Asciuga gli occhi.»
Yurij a quella razione decisamente inaspettata le si era inginocchiato davanti e, avvicinando a sé la ragazza, provò a cacciar via quelle gocce d’acqua che le arrossavano il viso e le gonfiavano i begli occhi.
Si sentì come immerso in una vasca ripiena di cubi di ghiaccio e, col fiato mozzato, gli si atrofizzarono tutti i muscoli.
«Tra qualche mese, poi, sicuramente potrò tornare ad utilizzare il braccio… più o meno..! Ricordi? Ti devo ancora una rivincita.»
Avrebbe desiderato un sorriso speranzoso, uno soltanto; o, se ne fosse stato in grado, strappare lo splendore del cielo e consegnarlo ai lineamenti della giovane ora stravolti dal pianto.
Già, era proprio uno stronzo.
Porgeva solo disperazione, rose secche, sangue ed ossa.
«Non piangere, Julia.»
Le bisbigliò ancora ad un orecchio, per poi raccogliere in leggeri baci le aspre scie che sbocciavano sul viso della giovane.
Voleva saggiarle ad una ad una e andarsene col veleno di quella tristezza di cui era stato causa, al fine di debellarlo completamente.
Soffocare, soffocare nel sale di quella malinconia e lì scontare la propria pena all’Inferno.
«Io… non merito le tue lacrime.»
No, non era degno d’alcun dolore.
Forse, era ancora un po’ troppo inumano per costruire legami.
Forse, s’era trasformato in una caricatura d’ uomo negli anni precedenti alla BEGA.
Forse, era semplicemente uno Yurij Ivanov vivente ancora immaturo e così disperato da non saper d’aver lanciato nel vento le ceneri di quello che sarebbe potuto essere un lieto futuro.
Oh
, bisognerebbe anche aggiungere che, in quel preciso istante, all’olfatto di Julia l’odore del bel giovane parve rassomigliare al disturbante aroma del disinfettante ospedaliero…
La ragazza ne rimase disgustata.
La nausea l’aggredì ed il rombo del sangue tuonò con prepotenza nelle sue orecchie.
I pomeriggi trascorsi a sincronizzare i propri respiri con quelli Yurij, a fare l’amore in quella stramba maniera che nulla aveva di fisico –ah! Il russo era ancora un po’ imbranato in affari così intimi, ed anche i baci troppo elaborati sembravano un problema per lui!- scomparvero.
E dentro lei esplose il presentimento che tutto non fosse stato altro che un crudele inganno.
«Dasvidanja.»

“Julia…”
La giovane l’aveva indossato, il vestito che Yurij adorava.
Al russo non andavano a genio i troppi colori come si era già sottolineato, però credeva che il bianco –in contrasto con la pelle appena abbronzata di Julia- fosse perfetto per la ragazza e che la rendesse ancora più bella.
La prima volta che aveva messo quell’abitino, era stato durante una cena organizzata dalla BBA per sponsorizzare i nuovi beyblade.
Yurij, re dell’informale, se ne stava in un angolo a bere, fasciato dai suoi jeans strappati e da una camicia bianca spiegazzata lasciata aperta sui pettorali.
Bhé, si moriva di caldo.
La spagnola, dopo avergli lanciato un’occhiata fugace, aveva girato per tutta la serata al largo dal russo che scrutava la sala con espressione annoiata.
Da parte sua, Ivanov aveva appena deciso di darsela a gambe e mollare lì la cerimonia, quando si scontrò –bicchiere di aperitivo alcolico alla ciliegia in una mano- con Julia che evidentemente aveva avuto la stessa identica idea.
«Mi hai sporcato il vestito!»
I timpani di Yurij furono investiti dal grido indignato della giovane la quale, shockata, fissava la macchia rossa che le si stava allargando sul bustino del candido abito dopo l’impatto.
Per un attimo, il ragazzo rimase disorientato e leggermente intontito a causa del bel contrasto fra la cute scura di Julia ed il delicato bianco che le accarezzava il seno piccolo e sodo ed i fianchi stretti.
Poi, scuotendosi da quello stato di tipica idiozia maschile, riacquistò la propria acidità.
«E tu mi hai appena assordato, come la mettiamo?»
Rispose a tono e, prima ancora che Julia avesse avuto la possibilità di ribattere, senza neanche pensare a cosa diavolo stesse facendo, zittì la ragazza mettendole un dito sulle labbra; poi, guardandosi intorno per assicurarsi che Daitenji non fosse da quelle parti, la trascinò via con sé.
Fernandéz, incuriosita, seguì il giovane a grandi falcate lungo tutto il corridoio del pian terreno della sede, per poi uscire nell’aria fresca della notte.
Qui, Ivanov la condusse ad una motocicletta che aveva tutta l’aria d’essere particolarmente costosa.
«È di Kei, ma so guidarla.»
Rispose subito il ragazzo allo sguardo dapprima interrogativo e poi indignato di Julia.
Quindi, in silenzio e troncando sul nascere con un’occhiata seccata tutte le sue eventuali domande, le porse l’unico casco di cui il veicolo era munito e tirò fuori dai pantaloni la copia tintinnante –gentilmente concessa dal padrone tempo prima- delle chiavi di quel gioiellino.
«Pur essendo giapponese, Hiwatari va matto per le moto italiane. Una Ducati Monster! Il solito buffone…»
Aggiunse poi, ponendosi a cavalcioni della moto con disinvoltura.
Allora, Julia notò che i jeans indossati da Yurij erano di quelli che, strappati appena sotto il sedere, lasciavano intravedere la linea del fondoschiena del giovane stretto nei boxer…
A quella vista, la spagnola d’improvviso sentì davvero caldo nella frescura della sera; e, più rossa del colore della moto e dei capelli di Yurij messi insieme, se ne rimase lì impalata a rigirarsi il pesante casco integrale fra le mani.
«Avanti Fernandéz, indossa quel coso. Ti accompagno a casa, poi devo riportare questa al parcheggio prima di filare.»
La spronò quindi con tono scocciato il russo, fissandola con un sopracciglio alzato: da quando Julia era talmente silenziosa? Così rischiava di passare lui per il logorroico della situazione!
Però la giovane infine, in seguito a qualche altro momento di tentennamento, si infilò il casco non senza difficoltà; poi, dopo che Yurij si fu assicurato che l’avesse indossato bene –battendo diversi colpi con le nocche sulla dura superficie, giusto per divertirsi un po’ ad ascoltare le offese in spagnolo di Julia..!-, sentì il potente motore del veicolo rombare.
«Aggrappati a me e non lasciarmi.»
Ed aveva obbedito.
Sfrecciando in strada, più volte la ragazza fu costretta ad ingoiare dei gemiti spaventati a causa dell’alta velocità.
Yurij, sicuro, svoltava ora a destra, ora a sinistra senza rallentare o prendere una sbandata pericolosa.
Poi, dopo quelli che le parvero i dieci minuti più lunghi della sua vita, Julia rimise i piedi sull’asfalto sana e salva.
Se fosse stata meno lucida, si sarebbe sicuramente chinata a baciare e ad abbracciare la cara, vecchia e sicura terra, però aveva ancora una dignità da mantenere alta e fiera di fronte ai luminosi occhi azzurri di Yurij.
Con una certa rigidità nei movimenti si sfilò il casco e, a labbra serrate –seriamente, temeva di vomitare da un momento all’altro!- porse l’oggetto ad Ivanov che la fissava senza batter ciglio.
Oddio, non che gli fosse andato in pappa il cervello solo perché Julia s’era tolta il casco con un gesto che aveva coinvolto tutto il suo corpo sinuoso; no, no, affatto –negare l’evidenza, però, non era certo il suo forte..!- la questione fu che rimase davvero esterrefatto dalla semplicità coi cui appariva così bella.
Il vestito bianco, un po’ gonfio, non aveva nulla di appariscente e metteva in risalto il meglio del corpo della ragazza, senza sembrare volgare.
Yurij le sorrise –anche un po’ inebetito, a voler essere onesti!-, mettendo il casco.
«Ti sta davvero bene.»
Si limitò a dire, guardando a lungo –e poté farlo poiché le sue iridi erano state nascoste dal vetro nero della protezione- la giovane rimasta di stucco a quel… cavalleresco complimento.  
Con un rombo accese la motocicletta, per poi voltarsi ed andar via non prima di aver lanciato un’ultima occhiata alla ragazza che, imbambolata sotto i raggi della luna, veniva accarezzata dalla dolce brezza della notte.
L’interno del casco s’era impregnato d’un sottile aroma che lo rilassò completamente.

“Julia…”
La giovane avrebbe voluto strapparsi le orecchie, pur di non sentire più quel richiamo tanto familiare.
Era davvero delusa ed un po’ la tempesta che inondava il firmamento di fuori parve essere una degna rappresentazione del suo stato d’animo amareggiato.
Sì, sembrava proprio che Ivanov non avesse la minima intenzione di portarla al karaoke…
Se ne stava lì, fermo di fronte a lei e, sorridendo senza mutare espressione, non faceva altro che soffiare il suo nome in una lenta litania.
“Mi hai mentito.”
Rotta dai singhiozzi, la voce di Julia suonò chiara al di sopra del frastuono della pioggia scrosciante.
“Il tuo era stato un arrivederci…”
Un lampo brillò ancora nel cielo, rilucendo negli occhi verdi della ragazza.
Yurij, allora, le prese il volto fra le mani che, gelide e ruvide, erano ricoperte dal sangue raggrumatosi.
Le sue lacrime si unirono a quelle delle compagna, in un pianto senza singhiozzi e denso solo di un dolore fisico così profondo da spaccare l’anima.
“Mi dispiace. Non volevo deluderti… avrei desiderato più tempo. Mi dispiace.”

Julia Fernandéz indossava un abito bianco quando Raul, forzando la porta, riuscì finalmente ad entrare nell’appartamento della giovane.
Lui vestiva di nero e fissava con un groppo alla gola la figura totalmente stravolta della sorella.
Quest’ultima, in ginocchio, osservava con insistenza lo specchio che le stava di fronte e che restituiva un riflesso il quale difficilmente si sarebbe detto appartenere alla bella spagnola.
Gli occhi gonfi, le guance coperte di graffi, i capelli sconvolti ed il trucco sbavato.
Julia non aveva emesso alcun suono nell’udire la notizia della morte di Yurij.
La spagnola si era preparata per accoglierlo, ed era davvero intenzionata a divertirsi al karaoke!
Ma quella serata trascorse con lei che, ricevuta una balbettante telefonata dal fratello e sedutasi davanti allo specchio nella camera da letto, aveva iniziato ad affondare le unghie nelle proprie guance come a volerle strappar via, come a voler estirpare l’ombra dei baci di Yurij che ancora le bruciavano la pelle.
Raul, nonostante fosse pronto di tutto punto, non sarebbe andato al funerale, no.
Il cadavere gonfio e livido pronto a marcire di quello stronzo di Ivanov non necessitava affatto dello stesso bisogno che la sorella –o almeno lui così egoisticamente riteneva- aveva della sua presenza.
Restò lì e, sedendosi di fianco alla gemella, le avvolse un braccio attorno alle spalle lasciate scoperte dal vestito.
“Ti sta davvero bene.” Bisbigliò allora, riavviandole una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Julia sorrise a quelle parole così familiari.
Si lasciò andare ad un lungo sospiro e, gattonando verso lo specchio, carezzò con la punta della dita quelle che erano le labbra di Yurij distese in un caldo sorriso.
Ah, le bastava solo quello! Avrebbe potuto vivere per quello..!
“Anche lui mi aveva detto lo stesso…”

La cute del ragazzo era stata stuprata dagli ematomi.
Il volto tempestato dal sangue.
Ma il sapore del suo bacio fu lo stesso e, amaro come il più caldo dei liquori, si impresse nella stessa essenza di Julia.
«Prima o poi… ti concederò la rivincita. »
Non aveva bisogno di un diverso addio: c’era il profumo di Yurij ad alleggerirle il cuore e ad asciugarle gli occhi.
Ora lo riconosceva, assuefante come solo i suoi tocchi potevano essere.

*Owari*

Questo è quanto di più terribile io abbia mai scritto ò.o’.
Well, questa era una sfida a me stessa, una fic nata anche da una proposta fatta alla Nena v_v!
Riuscirai a scrivere qualcosa di het decentemente..?
Evidentemente, no. ._.
Bhé, spero comunque che la storia possa essere stata minimamente apprezzata da voi, lettori ç_ç’.
Donc, vado a rinchiudermi in un bunker o qualcosa di simile, è indecente come riesca a stravolgere sempre tutto.
Ah, sì! Però, prima un paio di appunti! °O°
Yurij e Julia si sfidano davvero nel torneo della G-Rev (e Yuyu vince), ma la loro sfida non appare nell’anime °O°.
L’Organizatsya è la mafia russa °-°.
Dasvidanja significa anche “arrivederci” oltre che “addio”, per questo Julia ad un certo punto dice “Il tuo era stato un arrivederci…”
Bhé, non credo d’avere altro da aggiungere…
Io volevo creare qualcosa che avesse una sfumatura onirica nel rapporto tra Yurij e Julia, però, forse, ho fallito miseramente.
Vabbhé, carissimi lettori, ci si vedrà alla prossima. Ù.U
Grazie per aver letto ed un grazie ancora più grande se vorrete lasciarmi una recensione!
Iria.

   
 
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