~ Soulmates
Never Die
“Julia…”
La
ragazza aveva adorato la maniera
in cui Yurij pronunciava il suo nome.
Ci provava davvero ad aspirare
quella
“J” iniziale per farla suonare come una “H”, ma ciò che ne ricavava era
solo
uno strano ed ibrido accento fra il russo ed uno spagnolo assai
stentato.
Sorrideva al mutismo che seguiva quell’osare e, nonostante l’apparente
freddezza,
il giovane Ivanov si ritrovava immerso in un fresco imbarazzo: le sue
gote
bianche si tingevano appena di
rosa,
segno che il sangue era affluito al volto, riscaldandolo.
“Ti diverti così tanto a storpiarmi il nome?”
Julia lo prendeva in giro, per poi abbracciarlo.
Bhé, bisognava aggiungere che Yurij proprio
non riusciva a ricambiare la stretta e, quindi, rimaneva lì impalato
totalmente
immerso nel profumo della giovane.
Un po’ si rammaricava di non essere in grado di dimostrare tutto ciò che
provava con la
stessa facilità di Julia; e la invidiava.
Lei era bella ed il suo corpo sinuoso emanava calore.
Lui, invece, di certo non poteva definirsi un Adone e tanto meno
credeva di
trasmettere chissà quali dolci sensazioni.
Semplicemente, si riteneva un incapace e davvero
non comprendeva quanto anche una sua sola, distratta carezza avesse
reso gioiosa
la spagnola.
Già, la giovane li ricordava tutti, tutti
i pochi tocchi che Yurij le aveva concesso.
La prima volta era stata dopo il loro incontro di beyblade.
Il russo era rimasto a dir poco sorpreso dalla potenza di Thunder
Pegasus e,
sfruttando il suo smarrimento, Julia aveva provato ad attaccare e ad
infierire su
Wolborg con quanta più forza fosse stata in grado di sviluppare.
Ovviamente, Yurij aveva riacquistato ben presto la propria lucidità e,
quindi,
dopo aver concesso alla ragazza –decisamente un tantino troppo
impulsiva,
rumorosa e sicura di sé per i suoi gusti- l’illusione d’essere in
vantaggio,
aveva rovesciato le carte in tavola.
Alla fine dell’incontro, sotto gli occhi stupiti di tutti (era
addirittura
riuscito a far ammutolire DJ-Man!), Ivanov si era chinato a raccogliere
Thunder
Pegasus per poi porgerlo alla giovane.
«Niente male.»
Erano state le sue uniche parole che, certamente, vennero
pronunciate con
un tono incolore e di circostanza, ma che in qualche modo colpirono
Julia.
Allora, senza esitazioni, la spagnola prese dalle mani del ragazzo il
suo
beyblade, sfiorandogli appena i polpastrelli liberi dai guanti senza
dita.
Rabbrividì.
Erano
gelidi e, soprattutto, talmente
ruvidi da sembrare ricoperti di cicatrici.
Però, dopo l’iniziale perplessità dovuta a quel tocco che tanto stonava
con la
bella figura del russo e prima che quest’ultimo scomparisse fuori
dall’arena
assieme ai suoi compagni, Julia racimolò una buona dose di coraggio.
«Ehi, Yurij Ivanov! Sfidiamoci ancora!»
Il giovane a tale grido –ah, che voce stridente possedeva
quella tipa!- si
era voltato appena e, alzando un sopracciglio, aveva fissato il proprio
sguardo
sul viso dell’altra.
Gli occhi verdi della ragazza brillavano spavaldi, come a volergli dire
che, ehi, quella era stata solo
fortuna e che
la prossima volta sarebbe riuscita a stracciarlo.
Per un istante il russo –attraversato da una punta di penetrante
irritazione- fu davvero tentato di rilanciare in campo
il bey e dimostrarle per una seconda volta –e se non fosse bastato,
anche per
una terza!- che le sue ridicole saette non avrebbero mai potuto
infrangere il
ghiaccio perenne di Wolborg …
Poi, però, stringendo i pugni e con un mezzo sorriso, si limitò a far
scoccare
la lingua contro il palato.
Self-control.
«Perché no..? Un giorno o l’altro si
potrebbe fare…»
E se ne era andato, seguendo il resto
della NeoBorg negli spogliatoi.
Julia era rimasta lì, entusiasta.
Oddio, non era stata una risposta che poteva essere definita positiva,
eppure
Yurij non le aveva negato la possibilità di incontrarsi di nuovo.
Anche se… aveva chiaramente
avvertito
una punta di malcelata malinconia nel tono di voce del ragazzo.
La seconda volta era avvenuta in una circostanza decisamente meno lieta.
Dopo essersi svegliato dal coma in cui era caduto in seguito allo
scontro con
Garland, il russo aveva commesso la pazzia d’alzarsi e scappare,
letteralmente, dall’ospedale solo per raggiungere
Kinomiya e potere assistere al suo match contro Brooklyn.
Julia non si sarebbe mai aspettata un comportamento tanto sconsiderato
da parte
del glaciale blader, e ne rimase spiazzata.
Se avesse avuto il diritto di
farlo,
lo avrebbe preso a schiaffi, giusto per ricordargli che di norma le persone sane di mente appena
risvegliatesi da un coma di
diverse settimane si lasciavano sottoporre ad infinite visite…
Però, decisamente, quelli non erano affari suoi e lei, appunto, non
aveva nulla
da spartire con quel giovane se non una rivincita lasciata in sospeso.
Ed allora perché mai era così
arrabbiata..?
Perché mai le fasciature che coprivano le ferite di Yurij la rendevano
così infinitamente triste..?
Perché mai si ritrovò a tremare preda della paura, quando lo vide
accasciarsi
al suolo..?
Il suo cuore s’era fermato e per un attimo il gelo le era piombato
addosso,
famelico.
Inoltre, nella camera del ragazzo, quando fu portato di nuovo in
ospedale, Julia
divenne una presenza molto simile a quella d’un fantasma.
Appariva appena i dottori lasciavano la stanza e se ne andava poco
prima che il
russo ricevesse le visite dei suoi compagni di squadra.
Neanche lei sapeva dare una valida spiegazione al suo atteggiamento.
Yurij dormiva e da quando era svenuto erano passati un paio di giorni:
pareva
che avesse esaurito tutte le energie per rimettersi in piedi…
Julia restava alzata di fianco al letto e lo osservava silenziosa.
Memorizzava le immagini della sottile linea di quegli occhi all’insù
velati,
delle labbra appena schiuse coperte da una maschera per l’ossigeno e
dei
capelli scomposti sparsi sul cuscino.
Fissava, attenta, il torace del ragazzo scoperto dalla vestaglia
ospedaliera
che si abbassava ed alzava con regolarità al ritmo dei respiri.
Poi, sospirando, lasciava la camera.
Ma non quella volta.
Dopo quattro giorni che il russo si era riaddormentato,
d’improvviso,
pronta per andar via, la giovane aveva avvertito una presa gentile sul
polso.
Lentamente, fece per voltarsi in direzione del ragazzo nel letto, ma la
voce di
quest’ultimo –sottile ed affaticata- la raggiunse prima dell’immagine
di quegli
occhi azzurri finalmente aperti.
«Certo che… sei una tipa… piuttosto… invadente.»
Il tono canzonatorio le fece venir voglia di prenderlo a
schiaffi e
stenderlo per la terza volta –bhé, non c’era due senza tre!-, ma
l’espressione
cordiale dei suoi occhi le fece rimangiare quell’intento violento.
«Credo che tu abbia scelto il momento meno opportuno per iniziare a
fare il
loquace, Yurij Ivanov.»
Probabilmente, si mostrò molto più severa di quanto avrebbe
voluto, eppure
la presa sul polso non si attenuò né parve vacillare.
Era leggera e scossa dalla debolezza, certo, ma sicura in quella
fragilità.
«Ho… sentito dire che… quando una donna…
chiama un… uomo col suo intero nome…non significa nulla di buono.»
Ivanov parlò ansimando, con il solito mezzo sorriso a fior di labbra.
Julia, divertita da quell’affermazione ironica, osservò ogni suo
singolo
movimento, imprimendo nei propri ricordi la sensazione della mano
ruvida di
Yurij sulla pelle.
«Bah, non vedo perché dovrei essere
arrabbiata con te; non mi risulta che abbiamo un qualche tipo di
rapporto
coniugale..!»
Ribatté, provando ad imitare il tono distaccato e sarcastico
del giovane,
ottenendo una lieve risata in risposta.
«Bhé, a me, invece, non risulta… d’aver
insinuato che… tu fossi arrabbiata.»
A
quelle parole, Julia avvampò.
Il suo volto parve prendere fuoco e
le sinapsi, con molte probabilità, finirono in corto circuito.
Si diede dell’idiota più e più volte, maledicendo il giovane russo in
spagnolo,
in inglese e in giapponese e, augurandogli le peggiori pene
dell’Inferno, con
uno strattone –forse un po’ più violento
di quanto avrebbe desiderato- si liberò dal tocco di Yurij.
«Vado a chiamare un dottore. »
Oh, l’acidità nel tono della ragazza parve consumare le
stesse pareti..!
Però, quando si fu voltata la voce di Yurij attirò ancora la sua
attenzione e
riuscì a bloccarla.
«Stepanovich. »
Il bisbiglio, udibile appena, era tinto di una malinconia
tale da sfiorare
l’amarezza ed il disprezzo.
«È il mio… patronimico. Mi
chiamo… Yurij Stepanovich Ivanov. »
La fatica nel
pronunciare quella frase
esplicativa non era dovuta al dolore fisico che attraversava l’intero
corpo
No, no, era
stato abituato a torture ben peggiori!
Ma la causa,
più che altro, fu un certo ribrezzo nel dover dichiarare d’avere
ereditato il nome di suo padre.
Julia sospirò,
esasperata.
Poi, con
l’ombra di un sorriso sulle labbra si allontanò.
«Vado a chiamare
un dottore, Yurij
Stepanovich Ivanov.»
Quando
rimase solo nella stanza, il giovane osservò a lungo la propria
mano.
Sul palmo,
coperto da cicatrici biancastre –solo da poco aveva iniziato ad
usare dei guanti di protezione-, s’era impresso un calore che mai
l’aveva
sfiorato.
E ne rimase
segretamente contento.
La terza volta
era stata piuttosto imbarazzante.
Alcuni bladers
stranieri –i maggiorenni, per lo più- avevano deciso di fermarsi
in Giappone e di lavorare alla sede della BBA.
Yurij Ivanov e
Julia Fernandéz furono tra quelli.
Inoltre, per
uno strano caso –o forse più semplicemente perché Daitenji era un segreto fan
dell’eventuale coppia..!-
si ritrovarono ad allenare i ragazzi sullo stesso piano del grattacielo
dell’associazione sportiva.
E, bhé, il
risultato non poté che essere dei peggiori.
Irripetibili epiteti in spagnolo
rivolti contro la rispettabile
persona di Yurij volavano da una parte all’altra dei corridoi,
cortesemente
ricambiati dai silenziosi borbottii del russo nella sua madre lingua.
Già, le gentilezze tra i due erano
all’ordine del giorno e se Yurij dopo un buon quarto d’ora di
rimproveri (“Sei
troppo duro con loro! Sono bambini e
non quei tre gorilla dei tuoi compagni! Cerca di essere più flessibile
e prova a
sorridere in maniera umana qualche
volta! Ma
mi stai ascoltando?!”) metteva
fuori uso l’audio sostituendo gli starnazzi di Julia con un piacevolissimo sibilo, la ragazza
non
mancava mai di perdere improvvisamente la voce quando Yurij aveva necessariamente bisogno di lei (“Hai compilato questi
moduli?” “…” “Mi
accontento di un cenno del capo, sai?”).
Una volta, una
discussione degenerò al punto che furono costretti a continuare
coi loro discorsi fuori dalla portata delle orecchie dei bambini; e la
foga di Julia
nel camminare fu tale che per poco non ruzzolò giù dalle scale.
Bhé, sì, era
stata un’acrobata da circo, ma certamente non eseguiva le sue
esibizioni con la rabbia che le premeva in petto, pronta ad esplodere.
Però Yurij,
con la sua prontezza di riflessi, le avvolse un braccio attorno
alla vita e caddero insieme, lei protetta dal corpo del giovane che gli
era
dietro e che ritrovò sotto di sé una volta rotolati sul pavimento.
Quando il russo batté la schiena, lo sentì gemere ed imprecare qualcosa di vagamente volgare contro la propria
incapacità di stuntman.
«Atterraggio
comodo: sei stata fortunata,
però… ora potresti spostarti? Non si direbbe, ma non sei poi così
leggera come
sembri.»
Aggiunse poco
dopo, fissando con un sopracciglio inarcato il volto della
ragazza che era ancora sopra di lui.
La gratitudine
di quest’ultima nei confronti del suo improvvisato salvatore non
ebbe neanche il tempo di mutarsi in imbarazzo a causa dell’ambigua
posizione,
che subito si trasformò in ira.
Si sollevò
nella maniera meno gentile che conoscesse, mozzando un paio di volte
il fiato al ragazzo premendogli sul torace, per poi provare a
stampargli la
suola delle scarpe sul naso.
«Tu non sai
proprio come parlare ad una
donna, vero?!»
Esclamò,
mentre Yurij afferrandole la caviglia nuda –Julia indossava degli
shorts, quel giorno- tentava di allontanare quel trentanove di piede
dal
proprio viso in religioso e concentrato
silenzio.
Poi, però, la
ragazza si bloccò di colpo, arrossendo.
Ivanov
inizialmente la guardò con espressione interrogativa poi, illuminatosi,
bisbigliò un sottile ‘oh’ lasciando
andare la gamba della spagnola e mettendosi a sedere.
Julia allora,
zittitasi per la vergogna ed ormai in tinta coi capelli del
russo, decise che sarebbe stato molto più saggio levar le tende e
tornare a
lavoro.
Ma prima che
avesse potuto mettere più di tre metri di distanza fra sé ed il
dolorante Yurij, la voce di quest’ultimo la raggiunse.
«Non volevo
offenderti. Ti offro il
pranzo, okay?»
Le parole del
russo furono dettate fondamentalmente dalle seguenti ragioni:
aveva dei buoni pasto in più in quanto si era dimenticato un paio di volte di
mangiare; non voleva dover
continuare a lavorare col rischio che la palestra si trasformasse in un
fronte
e, soprattutto, essendo la sua coscienza una grande bastarda, poiché
non
riusciva a strappare al giovane la parolina magica (‘scusa’), cercava altri
espedienti ben più umilianti per far sì
che il russo esprimesse il suo pentimento.
La spagnola,
udita quella frase, la analizzò come a volervi scovare all’interno
un malcelato secondo fine.
Poi, avendo
mentalmente appurato che non vi fosse nulla di machiavellico
nell’invito del russo, si girò.
«Va bene.»
Acconsentì
infine, guardando Yurij che, rimessosi in piedi, aveva atteso la
risposta della giovane con l’espressione evidentemente seccata per il
troppo
tentennare.
Quindi,
voltandosi per la seconda volta, allontanandosi, Julia iniziò già a
cercare un modo per farsi perdonare il livido che da lì a qualche ora
avrebbe
tinto la bianca schiena del russo.
Si
innamorarono molto lentamente.
E, con ogni probabilità, la vera causa fu la scarsa accondiscendenza di
Yurij
ai sentimenti.
Al muto pranzo che condivisero, si aggiunsero le maldestre cure mediche
di
Julia nei confronti della schiena del giovane.
Lui quel giorno più volte, al limite della pazienza, le aveva ripetuto
che non
avesse bisogno di nulla, nulla e
che
stava benissimo.
In realtà, si sentiva piuttosto a disagio alla prospettiva di doversi
spogliare
davanti ad una ragazza.
Al monastero non c’erano mai state bambine e, quindi, s’era abituato ai
decisi
occhi ben piantati a terra che gli uomini improvvisamente s’imponevano
di silenzioso
accordo quando si ritrovavano a dover fare la doccia negli spogliatoi
in
comune.
Però alla fine, a causa dell’assurda insistenza della ragazza che gli
sventolava contro un tubetto di crema per gli ematomi, si costrinse ad
accettare.
Julia era rimasta ammutolita nel vedere il torace nudo del giovane.
Si erano diretti in uno spogliatoio e lì Yurij si era sfilato la
t-shirt nera
con una certa riluttanza che la spagnola comprese ben presto.
Tanti bianchi e lucidi ghirigori di cicatrici gli attraversavano la
linea dei
fianchi, dell’addome e dei muscoli della schiena.
Certo, il fisico ben fatto del ragazzo avrebbe dovuto mettere in
secondo piano
quei particolari irrilevanti, ma
Julia li notò subito e le si strinse il cuore.
«Dai,
sbrighiamoci a piantarla con
questa buffonata.»
C’era anche da dire che con la sua voce bassa e penetrante Yurij
fosse in grado di rovinare ogni momento e di mutare radicalmente le
intenzioni
di Julia.
Difatti, poco
dopo la spagnola spalmò la crema il meno delicatamente
possibile, strappando al russo diversi mugugni
di dolore soffocati.
Ah, le
soddisfazioni della vita!
Si creò un
circolo vizioso fatto di pranzi, uscite, cene e dispetti.
Piano,
iniziarono a comprendere l’uno i bisogni dell’altra e mesi dopo, in
seguito all’ennesimo litigio, le loro labbra si ritrovarono così vicine
a
sbraitarsi contro che sarebbe stato un vero peccato non concedersi un
bacio.
Per Yurij
quella fu la prima volta e lo trovò piuttosto… umido.
Insomma, nei
film la cosa non sembrava coinvolgere così tanto l’intera bocca,
ma lui era un ingenuo da questo punto
di vista e l’unico intimo contatto che avesse mai avuto con una ragazza
(sempre
Julia!) prima di allora era
somigliato più ad una scena di wrestling.
Quando si
separarono, non volò una sola parola tra loro.
Sorrisero e
per la prima volta Julia poté vedere le labbra di Yurij distendersi
in un qualcosa che finalmente sembrasse donargli un’espressione di vaga
contentezza.
La spagnola lo
strinse e, in quel momento, il loro strano rapporto iniziò a
mutare.
“Julia…”
La
ragazza aveva sentito più e più volte quel soffio invaderle
l’udito.
La riempiva e
le bastava solo che Ivanov pronunciasse il suo nome in quel
maniera assolutamente idiota per renderla felice.
Il giovane la
fissava dritta negli occhi con un mezzo sorriso e lei, da parte
sua, piangeva.
Il cielo si
era rannuvolato fuori dalle grandi finestre del suo appartamentino,
ingrigendo l’ambiente di quella modesta abitazione che aveva cercato di
rendere
colorata.
Quando Yurij
saliva a prenderla sotto gli occhi scrutatori di un Raul
decisamente contrariato, sbatteva un paio di volte le palpebre per
abituarsi a
quell’improvvisa esplosione di calde tinte.
Le riteneva
eccessive e forse un po’ stravaganti, ma alla fine non aveva alcun
diritto di lamentarsi, in quanto di certo non era lui a vivere in tutto
quel
colore…
Inoltre, col
tempo la giovane aveva anche appreso che Ivanov almeno per una
settimana al mese tornava in Russia.
Fin qui
riteneva che non ci fosse nulla di sbagliato o malvagio, se non fosse
stato che al suo ritorno Yurij si chiudeva un po’ più in se stesso,
evitando di
rivolgerle la parola o di uscire per il resto del mese.
Julia non
comprendeva e s’infuriava con quanto più ardore potesse permettersi,
calmandosi solo quando il ragazzo le rivolgeva uno sguardo totalmente immerso nella
tristezza.
In quei
momenti, era come se, scuotendola con forza, le avessero sfilato il
pavimento da sotto i piedi lasciandola cadere nell’azzurro un po’
spento delle
iridi del russo.
Ed allora si
calmava, aspettando con pazienza il momento in cui Yurij le si
sarebbe avvicinata chiedendole d’uscire.
No, non
riusciva mai a scusarsi, ma la spagnola lo accettava ugualmente perché
sapeva che, d’altra parte, Yurij fosse in grado di chiedere perdono
solo con
quei pacati gesti…
Però, lo
spavento la catturò ben presto nelle sue velenose spire, quando un
giorno di un mese che non ricordava più, Ivanov tornò da Mosca in
grande
ritardo con un labbro tumefatto, un occhio tendente al verdastro ed il
braccio
destro completamente fasciato.
In aeroporto
lo fissò a lungo shockata, con una mano sulle labbra; poi, gli
corse in contro in preda al panico.
«Cosa diavolo ti
è successo?!»
Lui
le sorrise.
Lo stesso
mezzo sorriso intriso d’amarezza che l’aveva sempre contraddistinto.
«Sono scivolato
sul ghiaccio e mi sono
ridotto le ossa in tante piccole schegge. Forse non potrò più lavorare
alla
BBA.»
Yurij
non era mai stato in grado di raccontare convincenti bugie.
Però Julia
sembrò prendere per vere le sue parole e, muta, con le lacrime che
le pizzicavano gli angoli degli occhi, accompagnò il giovane al suo
monolocale.
In
realtà, Ivanov aveva problemi ben più seri rispetto
a quello che poteva essere un precario equilibrio sul ghiaccio…
Debiti.
I debiti di Vorcov e della Borg, i debiti di cui rispondeva
in prima
persona: già, si era esposto come presidente, allenatore e capitano
della nuova
squadra russa e s’era detto disposto a pagarne le conseguenze.
Una volta al mese, quindi, per una settimana, tornava in patria e
cercava di
saldare a poco a poco il conto coi creditori del vecchio monaco.
Oh, no, non era per un moto di pietà nei confronti di quello stronzo…
Ma il monastero, assieme a tutti i suoi piccoli ospiti, rischiava di
incappare
nella vendetta di qualche altro folle criminale e non poteva
permetterlo.
Così ciò che restava del suo consistente –doveva ammetterlo- stipendio
si perdeva
nelle avare tasche di quelle bestie fameliche che ancora osavano
definirsi
uomini.
Yurij non aveva paura di affrontarli a viso aperto.
Personalmente, non possedeva nulla da perdere e se fosse morto gli
sarebbe
dispiaciuto unicamente per quelle poche persone che si erano legate ad
un
bastardo come lui… o almeno
così si ripeteva, mentre il
ricordo del profumo di Julia tornava ad accarezzagli le narici.
Però, le vite di tanti piccoli mocciosetti
erano nelle sue mani e si definiva pronto anche a vender l’anima al
Diavolo e a
sottomettersi, pur d’evitare una tragedia.
E quella volta le contrattazioni non erano finite tanto bene.
«Ho
bisogno di un altro mese di
lavoro ed il debito sarà saldato.»
Aveva
esordito con freddezza, seduto ad una sedia in una stanza in
penombra.
L’unica
risposta ricevuta era stato un pugno dritto sul mento che gli aveva
fatto sputare sangue.
Ingoiò il
liquido ematico che ancora si riversava dalle sue labbra e rimase in
silenzio.
«E se perdessimo
la pazienza ora..?»
Il
sibilo gelido proveniva dalla parte più scura di quel quadrato buio, ma
Yurij parve non essere intimorito dal tono vagamente minaccioso.
Altri colpi si
aggiunsero al primo e, sempre zitto ed inamovibile, il giovane
tornava a raddrizzarsi con sfrontatezza.
«Non ho paura… di
chi mi minaccia… senza
neanche mostrarsi.»
Ribatté.
Il sangue gli
colava lungo il mento e lo zigomo sinistro pulsava.
Sapeva d’aver
osato troppo, ma non se ne pentì e la sua unica consolazione fu
l’essere consapevole che non l’avrebbero ucciso fin quando non avesse
restituito tutti i soldi…
L’uomo che gli
aveva gonfiato la faccia a quelle parole gli si avvicinò,
giocherellando con una mazza da baseball.
Inquietantemente,
non reagì subito, ma afferrò il volto di Yurij fissandolo con
una scintilla di sana malvagità negli occhi neri iniettati di sangue.
Il russo era
immobile.
Ansimando,
manteneva il contatto visivo con quell’uomo di cui a stento
identificava i tratti somatici.
«Ah, allora potrei
spaccarti il braccio
destro… così la prossima volta che verrai non sarai tanto spavaldo. Che
ne dici..?»
Yurij
non rispose, mordendosi l’interno della guancia.
Non voleva
peggiorare la propria situazione e, tanto meno, rischiare di perdere
il lavoro alla BBA.
Non poteva
permetterselo, non in quel frangente.
Mancava davvero
poco, dannazione.
Poi avrebbe potuto essere libero e molto più aperto nei confronti di
Julia.
I
criminali con cui si era ritrovato ad avere a che fare non erano di
certo
allo stesso livello della Organizatsya.
Fortunatamente,
Vorcov a suo tempo aveva voluto concludere affari solo con
pesci piccoli, di quelli vigliacchi che non avrebbero mai osato commettere
illegalità fuori dalla propria patria.
Però Yurij,
tornato dalla Russia, per il tempo durante il quale sapeva che
sarebbe stato tenuto d’occhio si poneva a distanza da Julia.
E,
provvidenzialmente, accadeva che la ragazza quelle volte si sentisse
troppo
offesa per rivolgergli la parola, chiedergli spiegazioni o anche solo
guardarlo.
Oh, senza
rendersene conto il giovane Ivanov si era trovato… una compagna
perfetta.
Chiuse gli
occhi, cercando di calmare il capogiro che lo colse ed evidentemente
l’uomo prese quel gesto come una sfida alle sue parole perché,
ringhiando
iroso, abbatté la mazza da baseball sulla spalla del ragazzo.
Yurij soffocò
il grido che gli bruciò in gola, colto dalla nausea del dolore e
più e più volte quel pezzo di legno si infranse sulle ossa del suo
braccio con
violenza.
Il giovane
perse i sensi in diversi momenti tra un colpo e l’altro.
Sentiva come
se l’arto fosse ormai diventato un corpo a lui estraneo avvolto nella
pesantezza della gomma.
La sofferenza,
come una ragnatela, si dipanava appena sotto la cute del russo,
traducendosi in un calore che aveva la stessa consistenza del sangue.
Ad ogni colpo
un osso si frantumava e, senza che vi fossero ferite esterne, appena
sotto la pelle del giovane andava a raggrumarsi il liquido ematico che
colava
dalle lesioni interne.
Yurij le
sentiva ad una ad una.
Avvertiva
esplodere il dolore così come si spezzavano i tessuti dell’arto ed
ogni volta c’era un tepore ben diverso da quello profumato di Julia ad
abbracciarlo…
Già, il calore
che lo pervadeva era putrido e marcescente come un cadavere.
Yurij gemette
nel suo essere completamente disarmato e la disperazione lo
colse, accompagnata da un pensiero che lo tormentò.
Non aveva ancora
dato la rivincita a
Julia.
Allora, provò
a sottrarsi a quella tortura, tentando di bloccare con l’altra
mano i colpi, di difendersi da ciò che avrebbe potuto segnare la
propria
condanna.
Mai, mai come allora il
beyblade
avrebbe significato continuare a vivere.
O, per lo meno,
donare una salvezza a chi
ancora poteva ardirvi –e lui di certo non
era fra questi fortunati.
Ma
l’uomo lo scaraventò a terra, continuando ad infierire sul braccio che
ormai iniziava ad assumere un colore violaceo.
Mentre si
mordeva a sangue la lingua pur di soffocare le grida, il suo corpo
volle liberarlo dalla coscienza del dolore e, preda della bile che gli
infiammava l’esofago, il ragazzo svenne.
L’immagine di
Julia si stagliò nell’oscurità dei suoi incubi, pallida e
sconvolta; e l’unica cosa che Yurij fece nel buio del proprio oblio fu
di
bisbigliare al nulla una sola, accorata ed egoistica
preghiera.
Rivederla,
rivederla ancora una volta.
Poter
trascorrere un altro mese fra le sue braccia e trovare il coraggio di
dirle addio.
Oh, non era per niente
bravo in quel
genere di cose.
Quando si
svegliò in ospedale, fu il volto funereo di Boris ad accoglierlo.
Il rimprovero
nei suoi occhi si alternava allo spavento e ad un’angoscia
ovattata.
Huznestov più
volte aveva ripetuto che sarebbe stato meglio dichiarare alla
polizia in quale situazione erano immersi, ma aveva sempre sbattuto
contro il
muro della dura testardaggine di Yurij.
La polizia era
corrotta e da bambini ne avevano avuto sempre conferma –i
poliziotti si dimostrarono ciechi, sordi e muti di fronte alle lacrime
che si
levavano dal monastero Vorcov-, quindi sarebbe stato più saggio
estirpare alla
radice il problema, pagando per gli errori commessi da un povero pazzo.
Però Ivanov ne
stava subendo l’amaro prezzo…
E solo per
pura fortuna –o
sfortuna,
forse..?-
quella volta era sopravissuto.
Dopo essersi
trattenuto in Russia una settimana più del dovuto, fuggì ancora a
delle cure mediche che avrebbero richiesto più tempo ed era tornato in
Giappone
con una vaga consapevolezza nel cuore.
Quello sarebbe
stato il suo ultimo
viaggio di ritorno.
“Julia…”
La
ragazza aveva stretto a sé il russo e,
posandogli la testa sul petto, in silenzio ascoltava i suoi respiri ed
il lento
battito del cuore.
“Sei
così calda, Julia…”
Yurij
glie lo ripeteva spesso in un
bisbiglio udibile appena.
Quando la spagnola lo avvolgeva tra le sue braccia, provando a
riscaldare quel
corpo sempre un po’ troppo freddo, il giovane tirava un lungo sospiro,
beandosi
completamente in quel tepore che lo coglieva ad ondate.
Julia sapeva che Yurij non aveva mai provato nulla di simile e che un
po’
troppo spesso il gelo catturava il corpo longilineo del ragazzo…
Allora era lei, lei e solo lei che provava a trasmettergli quanto più
calore
potesse.
D’istinto gli si avvicinava e come il profumo forte di Ivanov le
riempiva le
narici, lo abbracciava, immergendovisi.
Ed il russo, che non riusciva a ricambiare la stretta con la stessa
forza, le
sussurrava all’orecchio con una voce così leggera che spesso le sue
parole
somigliavano ad un fioco canto.
“Non
piangere.”
Le
iridi azzurre di Yurij la studiavano attenti, scintillando svegli.
Sul volto del
giovane s’era disegnata un’espressione gentile, ammorbidita
appena dal sorriso che lo abbelliva.
Un lampo
illuminò la stanza di Julia, preannunciando l’assordante tuono che
s’abbatté
poco dopo lì vicino.
Poi, con fare
inevitabile, la pioggia iniziò a ticchettare contro le finestre a
ritmo sempre maggiore.
Gli occhi
della spagnola erano annebbiati dalle lacrime nel fissare l’immagine
del russo.
Lente, le
gocce d’acqua salata le solcavano il viso con sadica crudeltà, ma lei
non muoveva un sol muscolo per provare ad asciugare quelle scie che le
pizzicavano la pelle.
Si era
allontanata di qualche passo dal corpo del ragazzo e continuava a
fissarlo
intrappolata nella disperazione.
Due giorni
dopo che era tornato dalla Russia, Yurij si era presentato di fronte
al presidente Daitenji.
Con cortese
distacco, aveva chiesto il permesso di riprendere a lavorare subito
nonostante il braccio rotto.
L’anziano e
gentile signore inizialmente fu contrariato: non voleva che il
ragazzo si sforzasse o che la cosa potesse rivelarsi dannosa per la sua
salute…
Ma osservando
l’occhio ancora un po’ gonfio del russo mandar lampi, con un
lungo sospiro decise di accondiscendere, a patto che il giovane si
fermasse
alla BBA la metà delle ore che gli spettavano.
Con un inchino
Yurij accettò il compresso, ed in cuor suo s’augurò che
quell’ultimo mese trascorresse in fretta…
Julia in
quelle settimane non fece altro che lanciargli occhiate ansiose.
Come sempre,
si ritrovavano a discutere e a far pace con baci appena accennati,
ma la spagnola aveva notato che dietro l’azzurro dello sguardo di Yurij
s’era
annidato qualcosa di nero e sporco.
Sfiorandogli
le dita, avvertiva uno spasmo nei muscoli del giovane che la
spaventava ed uno scatto fugace nei suoi occhi che la insospettivano.
Julia,
estorcendo informazioni a quanti più bladers avesse avuto la
possibilità
di incontrare, era venuta a conoscenza di diversi avvenimenti della
vita di
Yurij.
Sapeva di star
sbagliando ad indagare in
quella maniera, ne era consapevole.
Ma
se Ivanov non voleva parlare, lei non avrebbe mai
accettato passivamente che si riducesse in pezzi innanzi ai suoi occhi.
Aveva così scoperto che il russo era stato abbandonato dalla famiglia
da
bambino (e qui comprese il perché Yurij fosse stato così pieno di
rancore,
quando le si presentò col proprio patronimico) e che Vorcov –con suo
enorme disgusto- non si era potuto
definire
propriamente un monaco…
Ma ancora non riusciva a spiegarsi il motivo del turbamento che aveva
catturato
Yurij dopo la sua ultima visita in Russia.
Insomma, tutto ciò che aveva tra le mani apparteneva a quello che era
stato
solo il passato del ragazzo che le accarezzava le labbra…
Cos’altro non conosceva..?
Aveva provato a chiedere a Kei.
Seguendo silenziosa il giapponese, si era ritrovata poco dopo con la
sua
espressione cupa a pochi centimetri dal viso.
Hiwatari, allora, l’aveva guardata a lungo con le labbra sigillate in
un’espressione severa.
Poi, si era voltato, andando via.
«Ti
sei affezionata troppo a lui.
Soffrirai…»
“Julia…”
Spesso,
quando erano soli in casa della spagnola, si stendevano in silenzio
sul letto e Yurij poggiava il capo sul ventre della giovane.
Socchiudeva
gli occhi e concedeva alla ragazza di accarezzargli i capelli in
lenti ed ipnotici movimenti.
Ivanov si
perdeva in quelle cure e se ne restava zitto a goderne totalmente.
Il profumo
della ragazza era delicato e gli sfiorava appena le narici; non
aveva nulla di innaturale, non era una eau
de toilette
costosa o economica acquistabile… sapeva di vita.
C’era un buon
aroma di biancheria pulita e fresca che, mescolandosi al calore
della pelle di Julia, assumeva la stessa fragranza che aleggiava
nell’aria in
una tiepida giornata primaverile.
Yurij era
assuefatto a quel profumo per lui inusuale e, respirandolo curioso,
ne era rimasto deliziato…
I loro corpi,
così stretti, erano vicini e pieni di vita.
Il russo
avvertiva i battiti del cuore della ragazza risuonare in lei cauti e
ritmati e, cullato da quella ninna nanna,
cadeva preda di un dormiveglia dove le fresche labbra di Julia
premevano dolci
sulle sue come acqua.
Yurij le
carezzava il viso caldo, fissandola intensamente senza batter ciglio e
la blader sorrideva allo studio silenzioso intrapreso dal russo.
Il giovane non
pronunciava una sola parola, né le sue labbra si piegavano in
un’espressione rilassata; semplicemente si immergeva in Julia quanto
più
profondamente gli occhi potessero permettergli e per un po’ si stendeva
in quei
prati
verdi
così soleggiati.
Un pomeriggio,
però, dopo che erano tornati dalla BBA, quella loro tranquillità
fatta di carezze parve spezzarsi.
«Yurij…»
Il ragazzo non
rispose, ma Julia sapeva che la stava ascoltando e, quindi,
sfiorandogli
appena la fasciatura del braccio destro, continuò.
«Vuoi dirmi la
verità..?»
La richiesta
della spagnola non ammetteva una risposta negativa e questo Ivanov
lo capì al vibrare della sua voce seria e decisa.
Julia otteneva
sempre ciò che voleva.
Con
precisione, astuzia, un pizzico di inventiva e tanta, tanta testardaggine, pur di
spaccarsi la testa contro il duro suolo
arrivava a sfiorare se non ad afferrare il proprio obiettivo.
In un modo o
nell’altro, quindi, si avvicinava sempre a ciò che era oggetto dei
suoi desideri.
E quella volta
voleva… no, anzi, pretendeva
la verità.
«Ho visto le
lastre delle ecografie. Non
sono una stupida e ti ricordo che in quanto ex artista circense sono
piuttosto
esperta di fratture… e quella non te
la procuri cadendo sul ghiaccio,Yurij Stepanovich Ivanov.»
E il giovane
cosa avrebbe dovuto risponderle..?
Inizialmente,
pensò di mostrarsi indignato e furioso in quanto la spagnola era
andata a frugare fra documenti che, a suo dire, non avrebbero dovuto
riguardarla e che, soprattutto, sarebbero dovuti restare sotto chiave
alle BBA.
Poi, si rese
conto che proprio non riusciva a montar su disprezzo, rabbia o
irritazione per tal gesto.
D’altra parte,
anche questa intraprendenza era una pregevole caratteristica di
Julia che faceva sorridere di cuore Yurij.
«Non curartene,
davvero. Non è nulla di
importante… nulla che debba riguardare te.»
La
ragazza avrebbe voluto prenderlo a schiaffi.
Afferrare il
suo bel volto tra le mani e gonfiarlo…
Però, poi,
guardò negli occhi del giovane e li vide malinconici.
Fissò le
cicatrici biancastre che avvolgevano come rovi il suo braccio sinistro
scoperto dalla bianca canotta che indossava, e si disse che, in fondo,
non
aveva poi così tanto diritto di pretendere da lui delle risposte.
Yurij aveva i
suoi demoni che Julia avrebbe voluto curare, certo; però sapeva
anche di non poter entrare rumorosamente fra i putrescenti segreti del
russo.
Ivanov doveva
aprirsi e lui solo dirsi pronto a concedere anche quei pezzi marci del
proprio cuore alla spagnola.
Quindi, la
blader rimase in silenzio, stringendosi un po’ più al torace di
Yurij.
I battiti
cardiaci le parvero
mostruosamente lenti.
E sprofondò
nel profumo agrodolce del russo, avvertendone l’ineffabilità.
Una sera, poco
prima che partisse, Ivanov era andato a trovarla, nascondendo
nelle tasche dei larghi pantaloni un biglietto aereo di sola andata per
Mosca.
Il braccio era
ancora accuratamente fasciato e non sembrava voler guarire.
Il russo,
notando l’insistenza con cui Julia fissava quel particolare –come a
voler ancora pretendere silenziosamente una risposta- le si avvicinò
con
pacatezza e, prendendole una mano, la strinse con fare gentile.
«Ascolta…»
Iniziò
deciso, invitandola a guardarlo negli occhi con un lieve bacio sulle
dita.
Julia sussultò
appena, non si sarebbe mai aspettata un gesto così… dolce.
«Domani parto, ma
starò via per poco. Al
mio ritorno, metterai quel vestito bianco che tanto mi piace ed
usciremo. Ti
porterò al karaoke; odio quel posto, sai..? Ma se devo iniziare a farmi
perdonare… comincerò da lì.»
C’era
qualcosa che rasentava il macabro nella stretta di Yurij sulla sua
mano.
Era sempre
ruvida, sempre in contrasto con ciò che ci si sarebbe potuti
aspettare da un ragazzo affascinante come Ivanov, però ora quella presa
non
aveva nulla, nulla di rassicurante,
fermo o deciso come tempo prima lo era stata nonostante la debolezza.
Persino la
stessa voce del russo parve incrinata ed ovattata da un’oppressione
che lo schiacciava fin dentro le ossa, congelandolo.
Julia a tali
parole prese a piangere.
Non seppe
spiegarsi il motivo, ma le lacrime scesero amare ed infinite lungo la
linea delle sue gote.
E si
rammaricò; e si diede della stupida per questo.
Lei non piangeva
mai.
«No, no, ti
prego… Asciuga gli occhi.»
Yurij
a quella razione decisamente inaspettata le si era inginocchiato
davanti e, avvicinando a sé la ragazza, provò a cacciar via quelle
gocce
d’acqua che le arrossavano il viso e le gonfiavano i begli occhi.
Si sentì come
immerso in una vasca ripiena di cubi di ghiaccio e, col fiato
mozzato, gli si atrofizzarono tutti i muscoli.
«Tra qualche
mese, poi, sicuramente potrò
tornare ad utilizzare il braccio… più o meno..! Ricordi? Ti devo
ancora una rivincita.»
Avrebbe
desiderato un sorriso speranzoso, uno soltanto; o, se ne fosse stato in
grado, strappare lo splendore del cielo e consegnarlo ai lineamenti
della giovane
ora stravolti dal pianto.
Già, era proprio
uno stronzo.
Porgeva solo
disperazione, rose secche, sangue ed ossa.
«Non piangere,
Julia.»
Le
bisbigliò ancora ad un orecchio, per poi raccogliere in leggeri baci le
aspre scie che sbocciavano sul viso della giovane.
Voleva
saggiarle ad una ad una e andarsene col veleno di quella tristezza di
cui era stato causa, al fine di debellarlo completamente.
Soffocare,
soffocare nel sale di quella malinconia e lì scontare la propria
pena all’Inferno.
«Io… non merito le tue lacrime.»
No,
non era degno d’alcun dolore.
Forse, era
ancora un po’ troppo inumano per costruire legami.
Forse, s’era
trasformato in una caricatura d’ uomo negli anni precedenti alla
BEGA.
Forse, era
semplicemente uno Yurij Ivanov vivente
ancora immaturo e così disperato da non saper d’aver lanciato nel vento
le
ceneri di quello che sarebbe potuto essere un lieto futuro.
Oh,
bisognerebbe anche aggiungere che, in quel preciso istante, all’olfatto
di Julia l’odore del bel giovane parve rassomigliare al disturbante
aroma del disinfettante ospedaliero…
La ragazza ne
rimase disgustata.
La nausea
l’aggredì ed il rombo del sangue tuonò con prepotenza nelle sue
orecchie.
I pomeriggi
trascorsi a sincronizzare i propri respiri con quelli Yurij, a fare l’amore in quella stramba
maniera
che nulla aveva di fisico –ah! Il russo era ancora un po’ imbranato in
affari così intimi, ed anche i
baci troppo elaborati sembravano un
problema per lui!-
scomparvero.
E dentro lei
esplose il presentimento che tutto non fosse stato altro che un
crudele inganno.
«Dasvidanja.»
“Julia…”
La giovane
l’aveva indossato, il vestito che Yurij adorava.
Al russo non
andavano a genio i troppi colori come si era già sottolineato, però
credeva che il bianco –in contrasto con la pelle appena abbronzata di
Julia-
fosse perfetto per la ragazza e che la rendesse ancora più bella.
La prima volta
che aveva messo quell’abitino, era stato durante una cena
organizzata dalla BBA per sponsorizzare i nuovi beyblade.
Yurij, re dell’informale, se ne stava
in un angolo a bere, fasciato dai suoi jeans strappati e da una camicia
bianca
spiegazzata lasciata aperta sui pettorali.
Bhé, si moriva di
caldo.
La
spagnola, dopo avergli lanciato un’occhiata fugace, aveva girato per
tutta la serata al largo dal russo che scrutava la sala con espressione
annoiata.
Da parte sua,
Ivanov aveva appena deciso di darsela a gambe e mollare lì la
cerimonia,
quando si scontrò –bicchiere di aperitivo alcolico alla ciliegia in una
mano-
con Julia che evidentemente aveva avuto la stessa identica idea.
«Mi hai sporcato
il vestito!»
I
timpani di Yurij furono investiti dal grido indignato della giovane la
quale, shockata, fissava la macchia rossa che le si stava allargando
sul
bustino del candido abito dopo l’impatto.
Per un attimo,
il ragazzo rimase disorientato e leggermente intontito a causa del
bel contrasto fra la cute scura di Julia ed il delicato bianco che le
accarezzava il seno piccolo e sodo ed i fianchi stretti.
Poi,
scuotendosi da quello stato di tipica idiozia maschile, riacquistò la
propria acidità.
«E tu mi hai
appena assordato, come la
mettiamo?»
Rispose
a tono e, prima ancora che Julia avesse avuto la possibilità di
ribattere, senza neanche pensare a cosa diavolo stesse facendo, zittì
la
ragazza mettendole un dito sulle labbra; poi, guardandosi intorno per
assicurarsi che Daitenji non fosse da quelle parti, la trascinò via con
sé.
Fernandéz,
incuriosita, seguì il giovane a grandi falcate lungo tutto il
corridoio del pian terreno della sede, per poi uscire nell’aria fresca
della
notte.
Qui, Ivanov la
condusse ad una motocicletta che aveva tutta l’aria d’essere
particolarmente costosa.
«È di Kei, ma so
guidarla.»
Rispose
subito il ragazzo allo sguardo dapprima interrogativo e poi
indignato di Julia.
Quindi, in
silenzio e troncando sul nascere con un’occhiata seccata tutte le
sue eventuali domande, le porse l’unico casco di cui il veicolo era
munito e
tirò fuori dai pantaloni la copia tintinnante –gentilmente concessa
dal padrone tempo prima- delle chiavi di quel
gioiellino.
«Pur essendo
giapponese, Hiwatari va
matto per le moto italiane. Una Ducati Monster! Il solito buffone…»
Aggiunse poi,
ponendosi a cavalcioni della moto con disinvoltura.
Allora, Julia
notò che i jeans indossati da Yurij erano di quelli che,
strappati appena sotto il sedere, lasciavano intravedere la linea del
fondoschiena del giovane stretto nei boxer…
A quella
vista, la spagnola d’improvviso sentì davvero caldo nella frescura
della sera; e, più rossa del colore della moto e dei capelli di Yurij
messi
insieme, se ne rimase lì impalata a rigirarsi il pesante casco
integrale fra le
mani.
«Avanti
Fernandéz, indossa quel coso. Ti
accompagno a casa, poi devo riportare questa al parcheggio prima di
filare.»
La
spronò quindi con tono scocciato il russo, fissandola con un
sopracciglio alzato: da quando Julia era talmente silenziosa? Così
rischiava di
passare lui per il logorroico della situazione!
Però la
giovane infine, in seguito a qualche altro momento di tentennamento, si
infilò il casco non senza difficoltà; poi, dopo che Yurij si fu
assicurato che
l’avesse indossato bene –battendo diversi
colpi con le nocche sulla dura superficie, giusto per divertirsi un po’
ad
ascoltare le offese in spagnolo di Julia..!-, sentì il potente
motore del
veicolo rombare.
«Aggrappati a me
e non lasciarmi.»
Ed aveva
obbedito.
Sfrecciando in
strada, più volte la ragazza fu costretta ad ingoiare dei gemiti
spaventati a causa dell’alta velocità.
Yurij, sicuro,
svoltava ora a destra, ora a sinistra senza rallentare o
prendere una sbandata pericolosa.
Poi, dopo
quelli che le parvero i dieci minuti più lunghi della sua vita, Julia
rimise i piedi sull’asfalto sana e salva.
Se fosse stata
meno lucida, si sarebbe sicuramente chinata a baciare e ad
abbracciare la cara, vecchia e sicura terra, però aveva ancora una
dignità da
mantenere alta e fiera di fronte ai luminosi occhi azzurri di Yurij.
Con una certa
rigidità nei movimenti si sfilò il casco e, a labbra serrate
–seriamente, temeva di vomitare da un momento all’altro!- porse
l’oggetto ad
Ivanov che la fissava senza batter ciglio.
Oddio, non che
gli fosse andato in pappa il cervello solo perché Julia s’era
tolta il casco con un gesto che aveva coinvolto tutto il suo corpo
sinuoso; no,
no, affatto –negare
l’evidenza, però, non
era certo il suo forte..!- la questione fu che
rimase davvero esterrefatto
dalla semplicità coi cui appariva così bella.
Il vestito
bianco, un po’ gonfio, non aveva nulla di appariscente e metteva in
risalto il meglio del corpo della ragazza, senza sembrare volgare.
Yurij le
sorrise –anche un po’ inebetito, a voler essere onesti!-, mettendo il
casco.
«Ti sta davvero
bene.»
Si limitò a
dire, guardando a lungo –e poté farlo poiché le sue iridi erano
state nascoste dal vetro nero della protezione- la giovane rimasta di
stucco a
quel… cavalleresco complimento.
Con un rombo
accese la motocicletta, per poi voltarsi ed andar via non prima di
aver lanciato un’ultima occhiata alla ragazza che, imbambolata sotto i
raggi
della luna, veniva accarezzata dalla dolce brezza della notte.
L’interno del
casco s’era impregnato d’un
sottile aroma che lo rilassò completamente.
“Julia…”
La
giovane avrebbe voluto strapparsi le orecchie, pur di non sentire più
quel richiamo tanto familiare.
Era davvero
delusa ed un po’ la tempesta che inondava il firmamento di fuori
parve essere una degna rappresentazione del suo stato d’animo
amareggiato.
Sì,
sembrava proprio che Ivanov non avesse la minima intenzione di portarla
al karaoke…
Se ne stava
lì, fermo di fronte a lei e, sorridendo senza mutare espressione,
non faceva altro che soffiare il suo nome in una lenta litania.
“Mi hai
mentito.”
Rotta dai
singhiozzi, la voce di Julia suonò chiara al di sopra del frastuono
della pioggia scrosciante.
“Il tuo era stato
un arrivederci…”
Un
lampo brillò ancora nel cielo, rilucendo negli occhi verdi della
ragazza.
Yurij, allora,
le prese il volto fra le mani che, gelide e ruvide, erano
ricoperte dal sangue raggrumatosi.
Le sue lacrime
si unirono a quelle delle compagna, in un pianto senza
singhiozzi e denso solo di un dolore fisico così profondo da spaccare
l’anima.
“Mi dispiace. Non
volevo deluderti… avrei
desiderato più tempo. Mi dispiace.”
Julia
Fernandéz indossava un abito bianco quando Raul, forzando la porta,
riuscì finalmente ad entrare nell’appartamento della giovane.
Lui vestiva di
nero e fissava con un groppo alla gola la figura totalmente
stravolta della sorella.
Quest’ultima,
in ginocchio, osservava con insistenza lo specchio che le stava
di fronte e che restituiva un riflesso il quale difficilmente si
sarebbe detto
appartenere alla bella spagnola.
Gli occhi gonfi,
le guance coperte di
graffi, i capelli sconvolti ed il trucco sbavato.
Julia
non aveva emesso alcun suono nell’udire la notizia della morte di
Yurij.
La spagnola si
era preparata per accoglierlo, ed era davvero intenzionata a
divertirsi al karaoke!
Ma quella
serata trascorse con lei che, ricevuta una balbettante telefonata dal
fratello e sedutasi davanti allo specchio nella camera da letto, aveva
iniziato
ad affondare le unghie nelle proprie guance come a volerle strappar
via, come a
voler estirpare l’ombra dei baci di Yurij che ancora le bruciavano la
pelle.
Raul,
nonostante fosse pronto di tutto punto, non sarebbe andato al funerale,
no.
Il cadavere gonfio e livido pronto a marcire di
quello
stronzo di Ivanov non necessitava affatto dello stesso bisogno che la
sorella
–o almeno lui così egoisticamente riteneva- aveva della sua presenza.
Restò lì e,
sedendosi di fianco alla gemella, le avvolse un braccio attorno
alle spalle lasciate scoperte dal vestito.
“Ti sta
davvero bene.” Bisbigliò allora, riavviandole una ciocca di capelli
dietro un orecchio.
Julia sorrise
a quelle parole così familiari.
Si lasciò
andare ad un lungo sospiro e, gattonando verso lo specchio, carezzò
con la punta della dita quelle che erano
le labbra di Yurij distese in un caldo
sorriso.
Ah, le bastava
solo quello! Avrebbe potuto vivere
per quello..!
“Anche lui mi aveva detto lo stesso…”
La cute del
ragazzo era stata stuprata dagli ematomi.
Il volto
tempestato dal sangue.
Ma il sapore
del suo bacio fu lo stesso e, amaro come il più caldo dei liquori,
si impresse nella stessa essenza di Julia.
«Prima o poi… ti
concederò la rivincita. »
Non aveva
bisogno di un diverso addio: c’era il profumo di Yurij ad
alleggerirle il cuore e ad asciugarle gli occhi.
Ora lo riconosceva, assuefante come
solo i suoi tocchi potevano essere.
*Owari*
Questo
è quanto di più terribile io abbia mai scritto ò.o’.
Well, questa
era una sfida a me stessa, una fic nata anche da una proposta
fatta alla Nena v_v!
Riuscirai a
scrivere qualcosa di het
decentemente..?
Evidentemente,
no. ._.
Bhé, spero
comunque che la storia possa essere stata minimamente apprezzata da
voi, lettori ç_ç’.
Donc, vado a
rinchiudermi in un bunker o qualcosa di simile, è indecente come
riesca a stravolgere sempre tutto.
Ah, sì! Però,
prima un paio di appunti! °O°
Yurij e Julia
si sfidano davvero nel torneo della G-Rev (e Yuyu vince), ma la
loro sfida non appare nell’anime °O°.
L’Organizatsya
è la mafia russa °-°.
Dasvidanja
significa anche “arrivederci” oltre che “addio”, per questo Julia ad
un certo punto dice “Il tuo era stato un arrivederci…”
Bhé, non credo
d’avere altro da aggiungere…
Io volevo
creare qualcosa che avesse una sfumatura onirica nel rapporto tra
Yurij e Julia, però, forse, ho
fallito miseramente.
Vabbhé,
carissimi lettori, ci si vedrà alla prossima. Ù.U
Grazie per aver letto ed un grazie ancora più grande se
vorrete
lasciarmi una recensione!
Iria.