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Autore: Black_Star    25/08/2011    3 recensioni
Sperando di attenuare la fobia per i mezzi di trasporto che affligge Cristina, i suoi genitori la costringono a raggiungere la sua scuola in autobus. Su quell’odiato pullman Cristina si guarderà attorno, prima sperando di trovare distrazione, poi semplicemente incuriosita dai passeggeri, tra assurdi tentativi di ricostruire una loro possibile storia e riflessioni su ciò che normalmente si giudica scontato…
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autobus


Non so per quale motivo, ma i mezzi di trasporto non mi hanno mai fatto simpatia: l’aereo vola troppo in alto, la nave viaggia troppo lontano dalla terra ferma, il treno va troppo veloce, auto e compagnia bella sono rumorosi e traballanti, e non riesco a stare tranquilla se sento qualcosa muoversi sotto i miei piedi!
 Ho bisogno del contatto con un terreno fermo e stabile, e nonostante abbia quasi sedici anni non ho mai voluto imparare ad andare in bicicletta, né ho mai pensato alla possibilità di un motorino.
Solo dopo molti tentativi i miei genitori mi hanno convinta a salire in macchina con loro, seppur per percorrere brevi distanze.  Se resto per più di quaranta minuti in quella scatola di latta malefica, comincio a delirare. Letteralmente.
Non so da cosa dipenda, e la cosa simpatica è che la mia paura non ha nemmeno un nome, dunque io sono semplicemente “la ragazza con la fobia dei mezzi di trasporto in forma media.”
Sì, ci sono casi peggiori del mio che raggiungono le forme “acuta” e “grave”.  Fantastico, no?
Ad ogni modo, come terapia accordata dai miei genitori e dal medico, sono stata costretta a prendere tutti i giorni, da sola, questo…coso: un enorme, maledettissimo autobus blu.
Eppure ho provato di tutto per evitare questo supplizio: attaccarmi ad un palo della luce, cercare di convincere mio padre facendo gli occhi dolci, persino scappare con lo zaino ancora in spalla.
Peccato che a piedi percorsi a malapena qualche metro prima che mi raggiungessero.
 
La prima volta che salii su quel catorcio cigolante ero a dir poco terrorizzata: mi guardai attorno con la disperazione di un condannato a morte, accertandomi delle condizioni del mezzo e della gente al suo interno, troppa per i miei gusti.
Ero così distratta che, tanto per cominciare bene la giornata, inciampai in uno degli scalini stramazzandomi quasi a terra. Reggendo il passamano sfoggiai un sorriso sgargiante all’autista, un uomo sulla cinquantina che mi guardava come se fossi una stupida, arricciando le labbra sotto due grandi baffi neri.
Recuperai quel che rimaneva della mia autostima e subito andai a sedermi nel primo posto libero, cercando di stare tranquilla.
Operazione fallita: quando il veicolo partì, facendo rombare il motore, il mio cuore balzò in gola e con la mani afferrai il sedile di fronte a me tenendolo come uno scudo.
“E’ solo un autobus. E’ come una macchina, solo con qualche ruota in più.”
Continuavo a dire tra me e me, improntando un trattato fisico-filosofico sul fatto che un pullman doveva sicuramente essere più stabile di una macchina, cercando dei lati positivi che non trovavo.
Perché la mia scuola aveva trasferito proprio la mia sezione alla sua sede associata?
Perché i miei genitori preferivano pagare 45€ al mese piuttosto che accompagnarmi?
Perché le uniche compagne di classe con cui andavo d’accordo vivevano in quel paesino che sarebbe stata la culla della mia nuova scuola, precludendomi così comodi passaggi in auto?
Lasciai perdere le mie riflessioni quando una mano mi toccò delicatamente la spalla, ed una voce anonima mi chiese: “Posso sedermi?”
Inutile dire che saltai in aria presa alla sprovvista, e spaesata guardai il ragazzo che aveva parlato, come in cerca di una spiegazione valida alla sua domanda.
Rapidamente mi guardai attorno, scoprendo con orrore che in ogni coppia di sedili c’era già seduta almeno una persona, ed io ero la passeggera-con-posto-libero più vicina all’entrata. Restare da soli sarebbe stato impossibile.
“Sì, prego.” Formulai velocemente, spostando in mezzo alle gambe lo zaino che era sul sedile, constatando con piacere che mi conferiva un po’ di stabilità in più.
Lanciai un’occhiata furtiva al mio vicino di posto, che nel frattempo si era seduto, e non potei fare a meno di notare che stava sistemando uno zaino sopra le ginocchia: chissà, magari frequentavamo la stessa scuola! Non c’erano poi tanti istituti superiori a Pace del Mela, e non mi sembrava affatto un ragazzo delle medie…
Avrei voluto chiederglielo, ma era già tanto se la mia voce mi aveva concesso di rispondergli, tanto ero agitata.
Così, trovandolo una buona distrazione da quell’inferno di metallo in cui ero rinchiusa, decisi di decifrare ogni suo particolare: adoravo entrare nella mente di chi mi stava accanto, o semplicemente provarci. Volevo intraprendere gli studi di psicologia, anche se tutti continuavano a dirmi che uno psicologo con una fobia assurda come la mia non sarebbe mai esistito, perché sarebbe come un veterinario allergico al pelo dei cani.
Oh, ma io l’avrei fatto esistere eccome!
Anche se, intanto, mi limitavo ad essere una silenziosa impicciona con assurde ipotesi.
Cominciai a studiare il ragazzo dall’aspetto fisico: aveva dei corti capelli neri, un viso pallido e smunto, due occhi nocciola dalle ciglia lunghe.
Aveva un abbigliamento che avrei definito “normale”, un giubbotto moncler –ma di quelli taroccati che si comprano al mercato, quelli che costano 20€ e come differenza hanno una h in più nella scritta-  e un paio di jeans blu scuro.
Da quello che riuscivo ad intravedere portava un maglioncino rosso, e mi dovetti accontentare di quell’ultima parte di manica ben in vista oltre il giubbotto.
D’un tratto, con lo sguardo sempre ben attento a non incrociarmi, aprì la tasca superiore del suo zaino Seven e prese un mp4 nero intrappolato da un groviglio di cuffiette dello stesso colore, ma non fu difficile per lui districarle e posizionarle alle orecchie, permettendogli così di ascoltare i magici suoni dell’apparecchietto.
Curiosa, con discrezione mi sporsi un po’ cercando di leggere i titoli nello schermo dell’mp4, ma la luce del sole nemico me lo impediva.
Sbuffai, tornando a guardare il sedile di fronte a me, lanciando rapide occhiate al ragazzo senza nome.
Chissà cosa stava ascoltando…Forse qualche canzone che conoscevo?
Dal suono soffocato che sentivo a malapena dalle cuffiette doveva essere rock o qualcosa del genere; tuttavia, la mia attenzione si spostò sul suo viso: la mascella era visibilmente contratta, sembrava stesse digrignando i denti: un modo silenzioso per gridare al mondo la propria rabbia.
Era per il ritardo del pullman che era arrabbiato?
O forse sua madre l’aveva buttato giù dal letto senza troppi complimenti, intimandogli di studiare a suon di minacce, perché il buongiorno si vede dal mattino?
In verità lui odiava studiare, e per quel giorno aveva svolto solo un quinto dei suoi esercizi di matematica. Sapeva già che avrebbe preso un brutto voto, il rock lo aiutava a formulare possibili scuse credibili da somministrare alla madre una volta tornato a casa con un quattro nell’odiata materia.
 “Abbonato” Pronunciò d’un tratto l’oggetto della mia distrazione, e fui costretta ad abbandonare le mie congetture per alzare lo sguardo sul suo interlocutore, alias il bigliettaio.
Era un ragazzo giovane, che dimostrava appena vent’anni, dai capelli biondi lasciati in disordine ed una barbetta di due-tre giorni, a giudicare dalla lunghezza.
La sua voce era per me un mistero: non chiedeva niente, lui, come l’uomo della Denim. Si voltava verso i passeggeri e, non appena questi incrociavano il suo sguardo, subito si mettevano in regola con biglietti e abbonamenti, come rispondendo ad una sua ipotetica domanda.
Solo che io, ancora, non lo sapevo.
E quando i suoi occhi verdastri incrociarono i miei, di un marrone monotono, restammo in silenzio a fissarci per qualche secondo.
Lui si schiarì la voce, e titubante sussurrai:  “Ehm…devo andare a Pace del Mela…e tornare a casa, ovviamente…”
Il bigliettaio annuì, e sicuro di sé afferrò la tracolla di pelle nera tirando fuori un blocchetto di biglietti prestampati ed una bucatrice, cominciando a segnare con maestria i quadrati giusti.
Restai a bocca aperta a guardarlo, perché se fossi stata al posto suo avrei impiegato il doppio del tempo solo per accertarmi di fare un buco giusto.
Anzi, se fossi stata al suo posto sarei già in preda ad un attacco di panico: in piedi su un pullman con entrambe le mani impegnate? Mai!
Cortesemente, lo vidi allungarmi il biglietto ed annunciarmi il prezzo, così presi 5€ -che avevo appositamente messo nella tasca del mio giubbotto marrone-  e nel passarglieli vidi che aveva già il resto pronto.
Come se non bastasse, solo quando se ne andò mi accorsi che nel biglietto v’era segnato anche il paese di partenza, Spadafora, anche se io non ne avevo accennato.
Impallidii quando mi ricordai di avere anche il suo sguardo addosso quando avevo rischiato la caduta dalle scale, e pensai che doveva essersi ricordato della mia faccia per quello.
Altrimenti, non sapevo spiegarmi come potrebbe fare a ricordarsi tutti i volti e associarli alle fermate…Per noi è facile, un viso è semplice da memorizzare. Per una persona sola, ricordarsi di una moltitudine è un’impresa impossibile…
Dopo ciò presi a considerare il fattore età: aveva una maestria invidiabile, nonostante il suo mestiere possa sembrare una stupidaggine, ma era ancora così giovane…
Cosa poteva averlo spinto a diventare un bigliettaio? Non mi sembrava uno di quei mestieri per cui possa nascere una passione, nè avrei visto un ragazzo andare dai genitori a dire “voglio fare il bigliettaio!”
Forse, semplicemente, era un lavoretto per mantenersi gli studi…ma i pullman viaggiano anche di mattina, non è un lavoro che è possibile fare frequentando l’università.
Doveva essere qualcuno che non ha ben chiari i suoi progetti o che non ha voglia di studiare.  Optai per la prima, o sarebbe sembrato che avessimo tutti poca voglia di studiare!
Allungai il collo e lanciai al ragazzo un’occhiata furtiva, osservandolo meglio: pareva annoiato, forse a causa della routine che si ripeteva giorno dopo giorno.
Non aveva certamente lo sguardo da “sono felice del mio lavoro”, questo è certo!
Forse voleva diventare autista. Sembra che i ragazzi adorino guidare, e l’autista dovrebbe essere un buon mestiere.
Credo ancora che chi guida un autobus o un camion debba avere poteri supernaturali, perché io non riesco a guidare nemmeno un carrello della spesa, ma questa è un’altra storia.
Il nostro giovane bigliettaio non vedeva l’ora che quell’antipatico autista coi baffi andasse in pensione, prendendo finalmente il suo posto dopo anni sudati a fare noiosissimi biglietti.
Poteva anche essere un motivo familiare! L’autista in realtà era suo padre, ed era riuscito ad ottenere un lavoretto per il caro figlio indeciso.
Non si guadagna molto, ma non era un lavoro troppo impegnativo ed era un posto sicuro, servono solo pazienza, esercizio, buona memoria ed anche la capacità di camminare e stare in piedi su un veicolo in movimento. 
Serve qualcuno totalmente diverso da me, insomma.
Lo vidi sedersi in uno dei posti vuoti e mi voltai in avanti, ma non appena la mente si liberò dai pensieri tornò l’ansia: fissavo il sedile di fronte a me che sembrava tremare, ascoltavo ogni minimo rumore del pullman che sembrava rompersi da un momento all’altro: e se fosse scoppiata la marmitta?
Non sapevo neanche bene cosa fosse, la marmitta, ma se fosse scoppiata sarebbe stato un vero guaio!
E se avessimo investito per un’idiota che non avesse rispettato lo stop? Sono cose che succedono!
Mia madre ripeteva che accadono anche quando si è piedi, ma di certo il rischio è minore sul marciapiede che in mezzo alla strada su di un inaffidabile mezzo di trasporto.
Fortunatamente, il pullman si fermò  per una piccola tregua. Il fatto che il motore fosse sempre acceso non era una consolazione, ma perlomeno eravamo fermi.
Allungai lo sguardo oltre il mio compagno di viaggio per rivolgerlo ai sedili di fronte a noi, dove stava seduta una bionda adolescente che si controllava il trucco in uno specchietto da borsa tondo, rigorosamente rosa. Dietro di lei, una brunetta della sua stessa età controllava i passeggeri che stavano salendo, e agitando un braccio pieno di braccialetti fece cenno a due ragazze di raggiungerla.
Disse una parola alla ragazza davanti, ed entrambe tolsero le tracolle dai sedili accanto a loro per far sedere le loro amiche. Il quartetto si salutò con due amorevoli baci sulla guancia al sapore di lucidalabbra alla fragola, poi cominciarono a discutere animatamente.
Erano tutte ben truccate, senza eccessi: solo un lieve filo di fondotinta, una linea di matita nera per far risaltare gli occhi, un ombretto azzurro e quella roba brillantinosa e appiccicaticcia che avevano sulle labbra.
Non curandosi del fatto che, nonostante fosse Settembre, l’aria mattutina fosse abbastanza fresca, non si erano curate di mettere neppure una giacca, e se ne stavano beatamente avvolte nella loro magliettina di cotone colorato a maniche lunghe.
Il “beatamanete” è da rivolgersi ai primi cinque minuti, perché subito dopo cominciarono a lamentarsi ad alta voce di quanto facesse freddo e di come avrebbero dovuto dar rette alle loro madri.
E fu allora che me ne accorsi: la brunetta aveva una voce bassa e roca, una risata isterica…e la s moscia.
Il tutto aggiunto ad un volume vocale così alto che doveva superare persino la canzone rock del mio vicino di posto, perché lo vidi alzare il volume di due tacche.
Evidentemente, la ragazza in questione non conosceva la parola “privacy” e disturbo della quiete pubblica.
“E io ho detto: ScuSa ma Sono SicuriSSima!” Cominciò a dire gesticolando, mentre le altre tre ridevano come pazze a qualche battuta che, onestamente, non capivo.
La vidi alzarsi e poggiare i gomiti sul sedile, per guardare meglio le due ragazze di fronte, e riprese a parlare assicurandosi di avere l’attenzione del trio.
Ed io mi chiesi se fosse peggio sentirla parlare o ascoltare i rumori del pullman.
Tuttavia, dopo una manciata di secondi mi abituai a sentire quella fastidiosa voce, e dato che la signorina non si preoccupava di far sapere al mondo intero la sua vita privata, decisi di origliare le loro discussioni.
Parlavano di vestiti da comprare, feste a cui andare, litigi con i propri ragazzi e, cosa peggiore di tutte, Grande Fratello.
Sbuffai, roteando gli occhi e spostandoli dal quartetto, annoiata.
Non c’era niente di più interessante? Non che il ragazzo accanto a me o il bigliettaio avessero chissà quale particolarità, ma di certo erano più intriganti di un gruppetto di ragazzine urlanti che parlottava sul programma più stupido della televisione.
Non che l’avessi mai visto, ma le pubblicità bastavano e avanzavano!
Pregiudizio? Credetemi, certe cose si capiscono SUBITO!
Mi concentrai sulla timida radio del pullman che trasmetteva “Isabel” dei Pooh, e fu amore a primo ascolto: prima che la canzone finisse avevo già deciso che avrei avuto una figlia femmina solo per chiamarla “Isabella”.
Mentre mi deliziavo all’ascolto di quella musica soffocata dai parlottii e dalle risatine, il mio sguardo si concentrò sull’ormai mio carissimo amico, il sedile di fronte a me.
Mi soffermai con disappunto sulla tappezzeria strappata, con qualche nome o data scritto con pennarelli indelebili o correttori, faccine felici e insulti vari, perché più si dicono parolacce e ingiurie più si è “fighi”, almeno secondo loro.

 

Come se non bastasse, lo sportello del posacenere era assente, e nello scompartimento v’erano cinque o sei chewing-gum masticate di cui avrei preferito non scoprire l’esistenza.

Ma che divertimento c’era in tutto questo? Cosa provavano a sfasciare posaceneri e sedili? Si sentivano realizzati scrivendo sugli schienali una firma che sarà probabilmente presa in giro o criticata da tutti coloro che si siederanno lì dietro?

Lanciai un’occhiata verso destra, chiedendomi se il ragazzo accanto a me si fosse accorto di niente o se fosse troppo impegnato a trovare un modo per saltare l’interrogazione.

Poi, vedendo il suo sguardo perso nel contemplare la scritta del suo zaino, sbuffai: nessuno si accorgeva mai di niente.

Sarei rimasta a fare la moralista per un'altra intera ora, ma proprio nel clue dei miei ragionamenti l’autobus si fermo per l’ennesima volta, e vidi l’80% dei passeggeri –di età compresa tra i 14 e i 18 anni- alzarsi e prepararsi a scendere, compreso il ragazzo con le cuffie rock. Mi voltai verso il finestrino, ritrovandomi di fronte la mia scuola: i venti minuti di tragitto erano già passati!  
Con un sorriso smagliante scesi rapidamente dallo scatolone di latta, e una volta poggiati i piedi sulla mia amata terraferma tirai una boccata d’aria fresca, finalmente rilassata.
Tutto sommato, non era andata poi così male: tralasciando le possibili morti che mi avevano attraversato il cervello, sorvolando sul fatto che fossi praticamente ancorata al sedile per la paura e dimenticando la quasi caduta dalle scale, era stato meglio di come immaginassi.
L’idea di pensare ad altro aveva funzionato: mi ero distratta e avevo trovato un nuovo interesse, perché adesso ero incuriosita dalla “popolazione dei pendolari”.
Quante altre persone avevano una possibile storia da nascondere? Tutte, direi!
Fatta eccezione per il quartetto: di quello non mi sarei interessata, nossignore.
Anche perché non ce n’era bisogno: con il loro urlare rendevano il lavoro di un detective completamente inutile!
 
Passai l’intera giornata scolastica –o quasi- a pensare al ragazzo dell’autobus, chiedendomi se aveva già preso quel quattro o se si era miracolosamente salvato, battendo il cinque ai suoi inseparabili amici e compagni di classe.
Immaginai il bigliettaio seduto su uno dei sedili dell’ormai deserto pullman, a rilassarsi godendosi la tranquillità priva degli schiamazzi studenteschi.
Sperai che il quartetto –sì, tutte e quattro- subisse qualche interrogazione a tradimento,  così, perché la prossima volta penseranno a fare qualcosa di più utile che guardare Grande Fratello.
Sì, sono sadica. Sì, non le conoscevo ma già le odiavo.
Avrei avuto modo di redimermi, se proprio, ma momentaneamente restavo un ottuso essere umano con i suoi pregiudizi senza senso.
 
Il ronzio della campanella segnò la fine delle fatidiche cinque ore di lezione, dichiarando gli studenti finalmente liberi di tornare alla propria vita.
Con una rapidità inaudita sistemai i libri in cartella e corsi via dalla classe, tant’è che le mie migliori amiche dovettero corrermi dietro per raggiungermi.
“No, dico! Potresti anche aspettarci!” Mi disse Lorena, la mia compagna di banco, mentre cercava le chiavi del suo motorino nella tasca del giubbotto.
“Scusate, ma se ritardo perderò l’autobus!” Risposi rilassata, e le vidi fermarsi in mezzo al corridoio e guardarmi scioccate, come se avessi detto di essermi lanciata dal terzo piano.
Cominciarono a bombardarmi di domande, chiedendomi se stavo bene, se ero riuscita a sopravvivere e roba di questo genere: erano convinte che io arrivassi in auto, non avevo ancora dato loro la notizia.
Titubante mi limitai a dire che era tutto ok, ma loro sembravano meno convinte di me.
Dare sostegno morale: obiettivo fallito.
“Cris, se vuoi un passaggio, basta chiedere…” Lorena mi guardò con occhi dolci, porgendomi il casco nero che aveva tra le mani, ma io inorridii.
“Sopra un veicolo a due ruote che ha la stabilità e la sicurezza di un tavolino di carta a cui mancano due piedi?! No, grazie!”
E lasciandomi dietro le loro risatine divertite per il mio “reclinare in modo originale”, come dicevano loro, mi diressi verso la fermata che mi aveva salvato da un traumatico viaggio in motorino.
Dopo appena qualche minuto vidi il catorcio blu avvicinarsi a noi, poco rassicurante come sempre, e vidi un ragazzo fermarlo alzando un braccio.
Memorizzai quel gesto, in caso mi fosse servito in futuro, poi cercai di farmi spazio tra la folla di ragazzi che si spingeva per aggiudicarsi i posti migliori.
Fu esattamente in quel momento che me ne resi conto: il ritorno era decisamente più complicato. Mentre all’andata la mia era una delle prime fermate –il che significa posto assicurato-, al ritorno c’era l’affluenza di tutti i pendolari scolastici di Pace del Mela.
Respirando a fondo camminai alla svelta in cerca di un posto libero, sperando che l’autobus non partisse prima che io l’avessi trovato, ma fortunatamente non eravamo così tanti da riempirlo.
Mentre il mio sguardo vagava tra la gente ed i sedili la mia attenzione venne catturata da un gruppo di ragazzi che aveva occupato gli ultimi posti, senza sedersi vicini l’un l’altro nonostante fosse palese la loro amicizia: sembravano nati da un copia incolla, con i capelli a spina e i jeans bassi, uno zaino quasi vuoto e cellulari di ultima generazione che suonavano musica house di basso livello, resa roca dalle casse mai perfette dei cellulari.
Stavano seduti scomposti, a gambe larghe, guardandoti con strafottenza e squadrandoti come per farti un identikit.
Uno di loro accettò di buon grado la richiesta di una biondina piuttosto attraente che gli chiese di sedersi accanto a lui, e lanciò uno sguardo compiaciuto ad uno del loro gruppo, che invece abbandonò la sua postazione quando era in procinto di sedersi al suo fianco un’altra ragazza, dalla bellezza non proprio esplicita.
Preferì sedersi accanto ad un suo “compare”, cominciando a parlottare in un dialetto così stretto che neanch’io riuscivo a comprendere bene.
Io scelsi di sedermi vicino ad una ragazza nei posti più centrali, perché stare dietro peggiorava le cose e i posti davanti erano ormai tutti occupati.
Mi avvicinai a lei, che era intenta a masticare una gomma e a scrivere un messaggio sul suo touch screen, e con gentilezza le porsi la fatidica domanda: “Scusa, è occupato?”
Quella mi rispose con un cenno e io presi posto, posizionando lo zaino sotto le gambe e passando al mio passatempo preferito, il metodo per distrarmi che avevo sperimentato quella mattina: mi voltai con discrezione, studiandola.
Aveva dei capelli biondo scuro, quasi sicuramente tinti dati i riflessi artificiosi, tenuti da una grande fascia fucsia. Alcuni ciuffi erano delle treccine con perline invece dei codini, mente altri erano gellati a ciocche, un po’ come le acconciature strane dei cartoni animati.
Portava una kefiah nera e bianca al collo, un giubbotto bianco leggero, un jeans stretto di un azzurro cielo. Non riuscivo a vederle la maglietta, ma ciò che attirò la mia attenzione fu invece la cartelletta che portava con sé: era un semplice foglio di cartoncino azzurro piegato in due, ma era finemente decorato con matita e carboncino. Recava disegni stilizzati e scritte di vari stili, tra cui una più grande di tutte:  Ester.
Ripetei quel nome nella mia mente più volte, e poi accordai che suonava decisamente bene. Era un nome particolare e per questo mi piaceva, non era troppo lungo ed aveva un non so che di esotico.
Tornai a fissare la cartelletta di Ester focalizzandomi sul contenuto: senza ombra di dubbio erano disegni, ma…a Pace del Mela non c’era nessun liceo artistico, solo un professionale e la mia sezione di scientifico sperimentale.
Riguardai disegni e scritte sulla cartella e mi resi conto di quanto fosse brava. Perché una ragazza così dotata aveva scelto un professionale e non un istituto d’arte?
Forse era stata costretta dai genitori, che volevano per lei un futuro più sicuro. O forse era stata lei stessa a dubitare, pensando che forse le sue qualità di disegnatrice non erano abbastanza.
Eppure, all’apparenza sembrava una ragazza fuori dagli schemi, di quelle che non hanno paura di mostrarsi per ciò che sono. La sola acconciatura ne era una prova.
Un tipo ribelle a cui accosterei un carattere sicuro di sé, ma poteva essere tutto l’opposto.
Poteva essere un modo per nascondere la sua timidezza, e quei disegni potevano essere una passione recente, un passatempo oltre che un futuro mancato.
“Scusa, dovrei scendere…” mi disse con sicurezza, e con lieve imbarazzo spostai lo sguardo dalla sua cartelletta ai suoi occhi azzurri, sperando che non si fosse accorta del mio spionaggio.
Si alzò e con la mano libera si infilò lo zaino su una spalla, fissandomi silenziosa. Capii che mi stava chiedendo di alzarmi per farla passare, e sbiancai: l’autobus era ancora in movimento.
“Ehm…” Borbottai, cercando di prendere tempo. “Puoi aspettare che l’autobus si fermi?”
Al mio sussurro Ester mi guardò torva, come se fossi fuori di testa, e io improvvisai una scusa: “Sai, ho il mal d’auto…così passi?” E presi lo zaino tirandolo su, mettendolo sul sedile libero, e la sentii sbuffare. Girai le gambe per renderle il meno ingombranti possibili, e agilmente Ester, il suo zaino e la sua cartelletta superarono l’ostacolo.
Mi salutò con un cenno della mano e sistemò lo zaino in entrambe le spalle, dirigendosi verso l’uscita del pullman chiamando la propria fermata all’autista.
Ok, fantastico. Seconda cattiva figura fatta, ce ne sarebbero state altre?
Mi voltai verso la fila di sedili opposta, sperando che qualcuno ancora in piedi venisse ad occupare il posto vuoto accanto a me, ma tutti sembravano essersi seduti.
Così, curiosa e in cerca di altre distrazioni, mi guardai attorno: vidi il quartetto di ragazze che avevo incrociato all’andata, acquattato qualche sedile più dietro del mio, a ridere freneticamente sparlando di chissà quale loro compagna di classe; vidi i ragazzi dai capelli gellati che dovevano aver fallito i loro propositi di adescamento, perché stavano seduti tutti vicini all’ultima fila di posti, cambiando ogni tanto la musica da quei cellulari sfruttati.
Arricciai le labbra insoddisfatta, poi cercai con lo sguardo il bigliettaio che era ancora seduto in uno dei sedili davanti, ma riuscivo a vedergli solo i capelli e la tracolla che pendeva fuori dal sedile.
Sbuffai maledicendo il fatto di poter vedere solo la fila di fronte a me, ma decisi di cercare tra quei posti qualche soggetto interessante: c’era un ragazzino con gli occhiali e corti ricci neri che spiegava un indovinello ad un suo coetaneo, più grassottello, che cercava di concentrarsi e di assimilare ogni dato importante.
Dietro c’era una donna di circa trent’anni, con una sciarpetta blu al collo e un paio di occhiali rotondi incorniciati da ciuffi marroncini e sfibrati. Gli attenti occhi nocciola divoravano le pagine di un libriccino che teneva delicatamente con entrambe le mani, che sfogliava solo dopo aver portato l’indice destro alle labbra per inumidirlo.
Accanto a lei il posto era occupato da una grande borsa marrone chiaro, stesso colore del cappottino leggero che indossava, avvolgendola fino al ginocchio.
Osservai ancora lungo la fila, soffermandomi su una donna di colore che intimava al figlioletto di circa sei anni di restare seduto, mentre dietro di lei due ragazzine la spiavano con lo sguardo, parlottando sulla paffutaggine delle guance del bimbo e di quant’era carino.
Le riconobbi come due studentesse della mia scuola, precisamente del primo anno, sezione B. Anche loro, come me, si erano spostate alla succursale a causa di alcuni lavori di manutenzione, ma sembravano rilassate e tranquille, e non avevano accennato una sola volta alla nuova scuola.
Notai dietro di loro un sessantenne dai pochi capelli grigi, che con aria burbera leggeva La Stampa con l’ausilio di due minuscoli e spessi occhialetti. Non riuscivo a vedere che articolo stava leggendo a causa della visuale, ma riuscivo a vederlo bene in faccia: la sua espressione si contraeva di disappunto, di velata rabbia, di disgusto.
Il ragazzo seduto accanto a lui, anch’esso uno studente data l’età apparente e lo zaino che teneva sulle ginocchia, lo osservava silenzioso, cercando di non dare nell’occhio, spiando un po’ il giornale e un po’ l’espressione dell’uomo, muovendo solamente gli occhi.
Anche lui stava cercando di distrarsi, come me?
Dal modo in cui guardava quel signore, non sembrava conoscerlo: eppure era incuriosito da lui, sembrava studiarlo. Proprio come io avevo fatto con tutti coloro che il mio sguardo aveva incontrato.
Chissà se anche lui si era guardato attorno, chissà se aveva guardato anche me: se si fosse accorto di qualche mia stranezza, se avesse fatto congetture sul mio modo di vivere, sul mio silenzioso osservare…
Pensare che stesse solo leggendo il giornale gratis era fuori discussione; la prospettiva di un indagatore come la sottoscritta era molto più intrigante.
Senza nulla togliere alla Stampa, ma la vita reale è molto più divertente: ognuno su questo pullman ha qualcosa da dire.
Anche se ognuno pensa ai fatti suoi, tutti vedono questo autobus come un semplice mezzo di trasporto.
Io, invece, lo vedo come una trappola mortale.
Ma il punto del discorso non era questo; come perdersi nei propri pensieri, parte I!
Ho semplicemente fatto un viaggio di andata e uno di ritorno, ma quando sarò a casa mi convincerò a studiare almeno un po’, per non trovare scuse all’ultimo minuto.
Il fatto che chiuderò il libro dopo la prima mezz’ora è irrilevante.
Quando mi chiederanno cosa voglio fare del mio futuro (cosa che i miei genitori mi domandano in continuazione dalla prima media), io non avrò paura di dire che voglio fare la psicologa, qualunque cosa accada.
Mi ricorderò del bigliettaio quando lo vedrò ogni giorno, della ragazza dalla s moscia che cercherò di evitare, del vecchietto col giornale e dell’indovinello che non ho sentito, ma a cui non avrei saputo comunque trovare una soluzione.
E’ come leggere un libro, ma senza dialoghi; come guardare un film, ma un film muto.
Ci siamo solo io e gli sguardi pieni di parole della gente attorno a me, i vetri opachi e la tappezzeria rovinata del pullman, che sembrano pregarmi “abbiamo qualcosa da insegnare, ascoltaci!”
E così, quando le mie esterrefatte compagne mi scortarono alla fermata, qualche settimana dopo, io mostrai loro un grande sorriso.
“Hai almeno l’mp4?” “Sei pazza? Se ascoltassi musica non mi accorgerei di nulla! NULLA!” Urlai a Lorena, cancellando dalla mia testa l’immagine dell’autobus che si schiantava contro un’improbabile muro mentre io beatamente sorridevo ignara di tutto, persa nel suono delle mie cuffiette.
Nossignore, preferivo l’inferno di quel rumoraccio! Per tenerlo sotto controllo, s’intende.
“Ma scusa, e cosa fai?” Mi chiese, ma io allungai rilassata il braccio facendo cenno all’autobus di fermarsi, e mi voltai verso di lei un’ultima volta prima di salire.
“Semplice: mi guardo attorno!”


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Note dell’Autrice: Salve a tutti, grazie di aver letto fino in fondo!!! ^_^
Avevo pubblicato questa storia mesi fa, ma poi l’ho iscritta ad un concorso di scrittura e l’ho dovuta togliere…Adesso che il concorso è finito, ho pensato di rimetterla, così, perché non pubblicavo da troppo tempo e ancora non trovo il tempo di scrivere qualcosa di decente xD
Spero vi sia piaciuta, e ringrazio ancora infinitamente tutti coloro che hanno letto, ma soprattutto quelli che recensiranno ;)
 
Un bacione!
 
Black_Star
   
 
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