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Autore: Electra_Gaunt    26/08/2011    1 recensioni
Rimaneva a fissare il cielo, incantata dalla meraviglia che le si stagliava innanzi, in tutta la sua perfezione. Si ritrovava a pazientare, sicura che prima o poi avrebbe toccato davvero le nuvole e sarebbe divenuta parte di esse.
Sarebbe divenuta perfetta, anche lei.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo della storia: A Pathos – Senza emozione
Autore: Electra_Gaunt
Rating: Verde
Genere: Drammatico
Prompt usato: Apatia
Avvertimenti: Nessuno ( a parte One – shot)
Note dell'Autore: Non ho mai avuto l’occasione di scrivere una storia così strutturata. Infatti ho cercato di intercalare parti del “passato” della protagonista con la situazione “presente” (parte in corsivo).
Breve introduzione:
[...] Rimaneva a fissare il cielo, incantata dalla meraviglia che gli si stagliava innanzi, in tutta la sua perfezione.
Si ritrovava a pazientare, sicura che prima o poi avrebbe toccato davvero le nuvole e sarebbe divenuta parte di esse.
Sarebbe divenuta perfetta, anche lei. [...]



Buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate!


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A Pathos
- Senza Emozione -
 



 

Quando era piccola soleva tendere le mani alle nuvole, senza riuscire ad afferrarle come avrebbe voluto. Allora si imbronciava tutta, il viso contratto in una smorfia di disappunto e le braccia incrociate sul petto. Si ostinava a guardare in alto, con sguardo vacuo e la bocca sigillata.
Non proferiva verbo, in quegl’attimi, troppo concentrata ad assistere al potere del vento che,proprio come lei non avrebbe mai potuto fare, sfiorava quei soffici batuffoli bianchi e li spostava verso una meta indefinita.
Dopo l’aver appreso di non essere abbastanza elevata al cielo, per quanto lei fosse alta, e di non poter esaudire il suo desiderio, s’intristiva maggiormente per poi chiudersi in un silenzio forzato. S’appoggiava al tronco dell’albero, posto proprio in mezzo all’enorme giardino, e s’abbandonava contro il fusto massiccio, portando le ginocchia al petto. La testa ricadeva mollemente su di esse, come un ramo di melo eccessivamente carico di frutti.
Non si spezzava, però. Semplicemente attendeva lì, tra l’erbaccia assolutamente non curata di quel parchetto ormai abbandonato da tutti i cittadini del piccolo paesino in cui abitava.
La zia, spesso impegnata in affari molto più importanti della salute della bambina stessa, la lasciava libera di fare ciò che voleva e di prendere decisioni sin troppo importanti per una fanciulla come lei, di soli dieci anni. Elenah non sapeva, non comprendeva pienamente la gravità della situazione. Rimaneva a fissare il cielo, incantata dalla meraviglia che le si stagliava innanzi, in tutta la sua perfezione. Si ritrovava a pazientare, sicura che prima o poi avrebbe toccato davvero le nuvole e sarebbe divenuta parte di esse.
Sarebbe divenuta perfetta, anche lei.


La stanza era bianca e candida come zucchero filato. Inconsistente nelle forme ed assolutamente perfetta nella sua fierezza. Non v’erano finestre e la luce rappresentava qualcosa d’irreale,come una visione celestiale in quel mare di anormalità. Le altre persone non vi erano più, ormai risucchiate da un vortice pericoloso ed imprevedibile. Elenah non voleva entrate in quel tornado (lo chiamavano “vita”, ma non sapeva cosa significasse realmente) né rimanerne vittima e, pertanto, si imponeva di resistere a quel forte richiamo che l’attirava verso l’ignoto. Lei odiava non sapere cosa ci fosse fuori dal suo mondo.
Qualcosa di oscuro? Qualcosa di spiacevole? Qualcosa di ingestibile?
Non sapeva, non sapeva niente. E, preda di questa convinzione innata, la ragazza rimaneva lì, immobile a fissare il vuoto. Gli arti delle braccia era appendici per la sua mente, qualcosa di superfluo ed insignificante. Pelle morta d’un corpo inaccessibile.
Ed attendeva, inviolata, di essere inghiottita da tutto quel candore divino.



Sua zia era morta, deceduta per cause assai comuni nella società evoluta in cui aveva sempre vissuto.
Elenah era cresciuta, era diventata indipendente sotto tutti i punti di vista. Responsabile solamente della sua vita e quella di nessun altro. Non che non volesse badare a qualcuno, ben inteso, ma effettivamente non aveva altri familiari a cui appoggiarsi. Niente cugini, fratelli o sorelle. Non conosceva nemmeno sua madre né, tantomeno, suo padre: erano svaniti dalla sua vita così rapidamente da non lasciarle nemmeno una loro memoria.
Era sola, unicamente sola.
Il funerale fu lento e noioso per la sua povera psiche, già danneggiata dalla prospettiva di esistere con la presenza costante della solitudine. L’unica prospettiva positiva a cui riusciva a pensare era che da quel momento in poi,quando sarebbe tornata a casa dopo essere andata a lavorare anche nei dì più bui, non avrebbe trovato sul divano le bottiglie di whisky che la sua povera tutrice soleva scolarsi in poco tempo.
Avrebbe avuto maggior controllo delle situazioni, autocrazia più totale.
Era una situazione degna di nota, no?


I medici della rinominata clinica psichiatrica “Wathcer”, la trovarono nello stesso posizione del giorno prima.
La osservarono rapiti dalla bellezza inusuale che la giovane paziente trasmetteva, oscura ed impenetrabile. I capelli, lisci e neri, assomigliavano a ragnatele dai filamenti sottilissimi mentre gli occhi (perennemente vacui) erano d’uno strano color verde militare e giallo scurissimo.
Il viso, provato dall’immobilità, era serioso quasi fosse fatto di cristallo. Le occhiaie erano presenti, ben definite, opache ed indelebili,marchiate a fuoco sulla pelle. Era impossibile non provare soggezione nel vederla.
Ma lei, così calma ed introversa, non badava loro.
Non badava a nessun altro, se non a se stessa.



Negli anni aveva imparato come aggirarsi nel mondo. Aveva appreso come sopravvivere alle ingiustizie, alle persone malvagie. La sua unica forza era l’insita generosità che, da sempre, aveva caratterizzato il suo animo. Non era affatto superficiale né irriverente e se poteva aiutava il prossimo lo faceva con piacere, proprio come i bambini dell’orfanotrofio o l’anziano vicino di casa, il signor O’Connell.
Si sentiva bene nel propagandare la buona volontà, il bene. Aveva anche trovato un giovane con cui passare le serate, gentile e dallo sguardo penetrante. Si chiamava Ian ed era il più bel ragazzo che avesse mai visto in vita sua. Le faceva una corte spietata, tra gli sguardi invidiosi della fauna femminile della scuola, rendendola più importante di quel che, effettivamente, era.
Un sogno, ecco cos’era la sua esistenza. Uno splendido sogno, fatto di dolcezza e grazia. Amore.
Quando scoprì, però, che Ian era un poco di buono, comprese come i sogni più belli hanno il potere di trasformarsi in incubi, per poi cessar d’esistere nel nulla più assoluto.
“I sogni finiscono - si ripeteva spesso - gli incubi no”.


La decadenza era stata rapida, immediata, come il vacillare d’un petalo verso il suolo.
Effettivamente si sentiva costantemente cadere, attratta da una forza sconosciuta eppure familiare, per certi versi. Aveva imparato a conviverci, inizialmente con diffidenza poi, pian piano, con maggior rassegnazione. Si era adattata alla situazione, collassando su se stessa senza poter fare nulla.
Forse non aveva mai voluto contrastare quel sentimento, quella sensazione totalizzante di abbandono dei sensi. Rimanere statici la faceva sentire libera, davvero. La forza, dentro al corpo, si scioglieva nel suo petto con una lentezza esasperante.
Elenah contava i minuti che intercorrevano tra l’inizio di quella tortura e la fine di quest’ultima.



Muoversi era diventato un gesto difficile da compiere, non più automatico come un tempo. C’era qualcosa che non andava, qualcosa che non riusciva a distinguere nella penombra della stanza. C’era un’ombra, nella sua mente non funzionante, che non la lasciava in pace. La tormentava, perseguitandola nella vita vera e in quella onirica. Credeva nei sogni, era l’unica cosa di cui si fidasse realmente, ma da quando era comparsa lei, anche quel lieve sollievo dato dall’incoscienza era svanito nel buio.
Le sere si erano trasformate in incubi e gli incubi erano rimasti tali. Ogni singola cosa, azione o pensiero, era divenuto un fardello troppo pesante da sopportare ed affrontare.
La solitudine non l’aveva aiutata a recuperare il controllo di sé, nemmeno quando vi fece appello. Elenah si accomodava puntualmente alla sedia del tavolo in cucina e rimaneva a fissare il vuoto per ore, senza che il tempo potesse acquistare valore ai suoi occhi. Le giornate si concludevano con quel gesto che, solitamente, era sempre servito per riorganizzare nella sua mente tutto ciò che aveva compiuto durante la mattinata. Ma anche quella riflessione, forse l’unico attaccamento alla realtà che le era rimasto, s’era frantumata con il passare dei giorni e dei mesi.
Regnava unicamente il silenzio, profondo ed irreale.
Le ore si susseguivano in un lieve rincorrersi mentre il ticchettare del pendolo non riusciva a farla riemergere da se stessa. La notte calava ed il sonno si posava anche sul suo viso stanco, ma non le intaccava lo sguardo: quello rimaneva allucinato, spalancato. Le pupille parevano stessero osservando un altro mondo, distante anni luce. I paesaggi, lì, erano straorinari e perfetti, candidi come neve appena scesa dal cielo. Le persone erano gentili, cordiali, come lei non aveva mai avuto il piacere di incontrare. Era tutto molto puro, limpido, nella stessa maniera in cui la sua vita non era stata. E lei desiderava quella perfezione, la agognava più di ogni altra cosa. Bramava quella semplicità, quella lealtà. Elenah era così felice, serena d’aver trovato un luogo che la rispecchiasse. Non si rese conto, però, che frattanto la mente s’allontanava verso una meta migliore, il corpo non seguiva la stessa rotta.
Improvvisamente si ritrovò divisa a metà, tra realtà e pazzia.


Il corpo tremò innaturalmente. Le infermiere la tennero ferma, trattenendo i polsi e le caviglie in una presa salda, ferrea. Da una parte della stanza vi era un medico. Egli era avvolto nel camice che,bianco, riportava alla mente il colore della tappezzeria che ricopriva le pareti della cella in cui Elenah riposava. Stringeva una siringa tra le dita mentre, intento ad osservare il liquido trasparente posto in una fiala, non prestava la minima attenzione alla sua paziente.
Avrebbe dovuto fissarla negli occhi, però, pronto a carpirne i segreti e gli orrori. Scovare le increspature di quei pozzi infiniti e, soprattutto, apprezzare i lievi mutamenti della sua anima. Perché, in fondo, Elenah era rimasta ferma sino ad allora e forse era giunto il momento di scappare da quella apatica che l’aveva contagiata, annientando una cellula dietro l’altra.
Probabilmente era giunto il momento di morire davvero.
Gli occhi si chiusero e il respiro venne smorzato da un peso invisibile che vacillava sul suo petto. Le donne che la attorniavano la fecero stendere sul lettino, provando a rianimarla come meglio potevano ma perdendo di fiducia, secondo dopo secondo. La guardarono con sguardi carichi di pianto e rammarico, riesumando i ricordi che rendevano protagonista quella giovane dai capelli ebano.
Le labbra non si mossero ed i cuori persero di un battito.

“Ora del decesso?”



Fine




Note dell'autrice:

Questa storia è nata per un contest che, purtroppo, non è andato a buon fine (l'unica partecipante che ha consegnato, sono stata io^^). Mi è piaciuto immensamente scriverla, cercare di ricreare in maniera concreta la situazione sventurata della protagonista che, effettivamente, non ha nessuno scopo nella vita né una pafimiglia su cui fare affidamento.
L'apatia le nasce dentro, sin da quando era bambina, come un morbo incurabile che indebolisce gli arti. Ma, soprattutto, che attacca la mente.

Spero vi piaccia^^
Fatemi sapere se vi è piaciuta!
Un Kisses


_Electra_

  
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