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Autore: lalla    27/08/2011    5 recensioni
Un grazie di cuore a Bruce, per quello che mi ha dato in tutti questi anni. E alla sua Grande Ombra Nera, Clarence Clemmons, la promessa che non sarà dimenticato.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BIG MAN

 

A Clarence e a Bruce, con riconoscenza, amore e rispetto.

 

Part One  SPIRIT IN THE NIGHT

Asbury Park, New Jersey, First Seventies

  dentro non li sentivi, la puzza del salmastro mischiato al fumo delle ciminiere e non vedevi il cielo senza luna, senza stelle e senza nuvole. Il ragazzo, diciannove, vent’anni, non di più, scappato via da un college di provincia o, più probabilmente, da una fabbrica, magari alla ricerca disperata di una qualsiasi scusa, fingersi matto, fingersi finocchio, per non essere arruolato  in quella maledetta guerra lontana*, incrociò lo sguardo con il suo. Bassino, magro, jeans e tshirt bianca che dovevano aver conosciuto tempi migliori. Una selva arruffata di fulvi capelli irlandesi. Un’ ossuta faccia italiana dal mento aguzzo sporco di barba, il naso aquilino, gli occhi scuri  proprio come i suoi. Occhi piegati all’ingiù, vagamente tristi. E perfino un po’  arrabbiati, com’è giusto che siano quando hai vent’anni.

Lo sorprese a carezzare con tenerezza l’acustica ( era scaramanzia o amore?), prima di salire su quel palco che regalava sogni e illusioni all’ingenuità di tanti come lui, assestandosi  sulle spalle ossute  il supporto dell’armonica. Uno di quelli che sognavano di diventare il nuovo Dylan, si ritrovò a pensare. Proprio come lui aveva sognato di diventare il nuovo John Coltrane. Prima che la vita lo costringesse a svegliarsi. Perché ormai, a ventinove anni e con una famiglia da mantenere, l’avvenire se lo era dovuto lasciare alle spalle.

Cazzo. Se solo  quella voce  avesse potuto dar vita ai  sogni  del  piccolo bastardo con la barba lunga e i jeans stracciati, invece di regalargli le solite illusioni.  Se ci fosse stato, lì dentro, uno di quei signor sottutto che scrivevano sui giornali, avrebbe potuto dire di aver visto nascere una stella, sopra il palcoscenico scalcagnato di un locale di terz’ordine, in quel  New Jersey fottuto che era soltanto fabbriche, e ciminiere, e inquinamento e grandi sbronze di birra il sabato sera; ma i critici musicali, lì, non ci  andavano manco per sbaglio. Cazzo, però. Che voce. E che carisma. Peccato che fosse nato nel posto sbagliato.

Anche lui era nato nel posto sbagliato,  ma quelli del college avevano avuto l’occhio lungo. Nero, grande e grosso. I numeri per diventare una stella del football c’erano tutti. Non fosse stato per quel maledetto ginocchio, forse…Sfumato il football, gli era rimasto il sassofono. Un vecchio sax tenore che aveva comprato di tredicesima mano nemmeno lui ricordava dove, e che aveva strofinato disperatamente per tirarlo a lucido e dar fiato a quel che restava dei suoi sogni. Ammesso che non fosse indecente averne ancora,  con una moglie da mantenere e un figlio in arrivo. Basta. Basta con le fantasticherie senza costrutto, in fin dei conti poteva reputarsi fortunato, l’impiego presso la scuola per ragazzi disadattati di Jamesbourg , Newark gli consentiva di tirare avanti con dignità  e ascoltare i problemi degli altri  lo faceva sentire utile. E quell’altro, il nuovo Dylan, come mandava avanti la baracca?  Suonando la sua chitarra e la sua armonica a un angolo di strada? Però…non gli sarebbe dispiaciuto improvvisare un assolo sulle note di  qualcuna delle sue canzoni che parlavano di vagabondi nati per correre e spiriti della notte.

Di solito chiudeva gli occhi come farebbe un grosso gatto sazio, quando  cavava la magia della musica da quel vecchio arnese scuro di ossido acquistato chissà dove per quattro soldi. Ehi, amico,  ho una band che cambia nome ogni settimana e…E la testa piena di sogni, e una madre troppo tenera, e un padre troppo severo che quando tornava dai colloqui con i professori te l’avrebbe spaccata volentieri sulla testa, quella maledetta chitarra. E un vecchio televisore in bianco e nero dal quale Elvis ancheggiava ammiccando, e tu, bambino, a stringere una chitarra troppo grande per le tue manine, e a sognare che saresti diventato come lui, un giorno, e le storie che sapevi inventare le avresti messe in musica…Ehi, amico, ho una band che cambia nome ogni settimana, e avrei bisogno…Del tuo jazz, del tuo blues, della tua pelle, di quel tuo largo sorriso buono, delle manacce con le quali  mi batterai   sulla spalla per dirmi coraggio, quando tutto quanto andrà a puttane  e mi verrà voglia di buttare a mare la chitarra e tutto  il resto. Dimmi di sì, Big Man. Trova il coraggio di lasciarti indietro le tue piccole certezze, molla tutto quanto e insieme…Insieme spaccheremo il culo al mondo.

La testa mi dice di mandarti al diavolo, ragazzino, ma il cuore…Il cuore galoppa e lo stomaco brucia, come se avessi buttato giù una bottiglia intera di bourbon cattivo. Perché ci credo, non con la testa ma con le budella.  Come ci credi tu.

-Viaggeremo. Ci sbatteremo come dannati finché ci crederemo, e alla fine…

-E alla fine avremo il mondo ai piedi. E tu diventerai bellissimo, ranocchio.

Lo guardò stringere gli occhi e ridere di gusto, mostrando grossi denti storti.

-Big man. Ma vaffanculo.

 

Part two  GLORY DAYS

Around in the world, 1980-2009

Lo avevano spaccato per davvero, il culo al vecchio mondo fottuto, lui e i compagni di viaggio,  e non l’avevano cambiato più, il nome alla band che adesso tutti quanti conoscevano, non solo nel New Jersey puzzolente di fumo, di birra e d’inquinamento, ma dappertutto. Dappertutto.

Ci avevano creduto. Si erano sbattuti come dannati, e alla fine…Alla fine quel mondo tanto bello da sapere di finto, il mondo tragico che avevano inseguito e che a tanti era  costato la vita, Bruce l’aveva stretto forte tra le mani. Non si sarebbe lasciato sopraffare, come Jimi, Janis, Jim.Come Elvis, che era diventato la pachidermica e triste caricatura di se stesso, quando la morte lo aveva colto, gonfio di farmaci e di dolore, a poco più di quarant’anni. Non si sarebbe lasciato sopraffare, perché era fragile e forte, ormai aveva imparato a conoscere bene ogni dettaglio della sua anima. Una lamina indistruttibile d’acciaio, il padrone di un gioco dal quale non si sarebbe lasciato fagocitare, lo avrebbe domato e cavalcato nel vento senza lasciarsi disarcionare e calpestare. Lo avrebbe piegato alla sua volontà, senza permettere che gli bevesse il sangue e gli portasse via l’anima. Finché lui e i suoi compagni di viaggio avessero avuto abbastanza energia, abbastanza sudore, abbastanza entusiasmo, abbastanza storie da raccontare per far ridere, piangere, riflettere. E abbastanza umanità da non lasciarsi imbrogliare. Da niente e da nessuno.

Diventerai bellissimo, ranocchio.

Difficile crederci, eppure ci aveva azzeccato, ancora una volta. Il mondo non si era inchinato a un ragazzo gracile e sciatto, ma a un guerriero dalle braccia forti, il volto duro e plebeo  illuminato da sprazzi intensi di dolcezza, la voce che graffiava l’anima. E che non era cambiata, quella no, dai tempi delle notti di fumo, illusioni e sogni, ad Asbury Park, New Jersey.

Un uomo che sembrava un uomo, in un mondo di pagliacci tristi, di feticci rutilanti e truccati. Un uomo che non aveva bisogno di maschere dietro le quali nascondersi, di paradisi fasulli  dove  rifugiarsi, di ebbrezze chimiche e aveva imparato a conviverci, con la solitudine che, anche in mezzo  a migliaia di persone che sanno tutto di te e ti adorano come un dio, sembra voglia maledire chi ha troppo di  tutto.

Quanto tempo era passato, quanti amori, quante canzoni, quante strade, quante rughe in più sulla faccia, scavate dal dolore e dalla gioia. Highways che portavano chissà dove e il fantasma rabbioso e dolente di Tom Joad, Cadillac rosa e sogni che svanivano all’alba, la serenata a New York e il lamento funebre urlato sulle  sue rovine.

“Troppo vecchio per il rock and roll, troppo giovane per morire”. Chi aveva sparato quella cazzata? Jim Morrison, o qualcun altro di quegli idioti baciati dalla fortuna e ammazzati dalla droga a poco più di vent’anni?  Big Man ricacciò indietro con una manata i lunghi dreadlock che gli ruscellavano giù per la schiena, afferrò il sassofono e si affacciò sul palco. Erano tanti, come al solito. Li sentiva urlare, immaginò di vederli ridere, piangere, applaudire da spellarsi le mani.  Applaudire Bruce, che correva avanti e indietro come un indemoniato, brandendo la vecchia Fender come un’arma che sparava vita e non morte, e parlava, e si sgolava, e cantava storie di quotidianità banale e straordinaria con la sua voce che graffiava l’anima e lui, la Grande Ombra Nera di cui vedevano baluginare solo il bianco dei denti e delle cornee, il lampo dorato del sax e delle unghie laccate e minacciose come quelle di uno stregone vodoo. Parecchi di quei ragazzi avevano meno d’un terzo dei loro anni. Ma nessuno, ne era sicuro, avrebbe osato rinfacciargli, con la candida crudeltà che è dei giovani, un’età che ormai ammetteva giochi con i nipotini e passeggiate nel parco col cane  ma non bandane, capelli lunghi, orecchini, laceranti assolo di chitarre elettriche. Perché, grazie alla musica, Bruce, e  lui, e Steven, e Patty, e Nils,e Roy, e Max…e Dannny  avevano spaccato il culo anche al tempo che passava.

 

Part Three  NO SURRENDER

Palm Beach, June 18 -2011

 

Bruce socchiuse gli occhi, si sfregò sul mento gli spuntoni della barbetta brizzolata. Avevano visto tanto, si ritrovò  a pensare, inalando l’odore acido del creosoto, ascoltando , nel silenzio, il debole ronzio delle macchine che consentivano all’amico di sempre un barlume di vita che non era vita.

Avrebbe voluto piangere. Avrebbe pianto ancora. Ma, mentre lo guardava aldilà del vetro giacere incosciente, come una grande balena spiaggiata giunta all’ultimo approdo, fu sopraffatto da una sensazione di vuoto. Ancora una volta.

Il primo ad andarsene era stato Danny, stroncato dal cancro. Ne uccideva tanti, il maledetto , infischiandosene dell’età di chi colpiva a casaccio. Clarence, invece…Era stato un ictus a ridurlo in quelle condizioni. Un male da vecchi. Al tempo che passava non avevano spaccato un bel niente, lui, e Steven, e Patty…e Clarence, che se ne stava andando in silenzio, arrendendosi a un fottuto male da vecchi.

“Quando ero piccolo, mi hanno insegnato che ci sei. Non lo so, forse erano favole anche quelle, ma…In certe situazioni ti aggrappi a qualsiasi speranza, fosse pure la più irragionevole. Ho solo sette anni in meno di  lui, ma per me è stato più di un amico. E’ stato un padre, ecco…Signore, se ci sei…”

Se ci sei, già. Se ci sei e puoi tutto, come mi hanno insegnato…Sentì  le lacrime scorrergli lungo le guance, perdersi tra gli spuntoni brizzolati della barba. Un miracolo. Avevano sentenziato i medici. Se ci credete, pregate. Era giocoforza, crederci e pregare. E piangere, anche se c’era il rischio che qualcuno, un dottore, un infermiere, un inserviente, uno di quei fottuti paparazzi che non rispettano niente e nessuno, lì dentro, potesse vederlo. Già, perfino il grande Bruce Springsteen piange.

Chissenefrega. E si strofinò via le lacrime col dorso della mano.

Il silenzio di vetro, ovatta e creosoto era punteggiato dal sibilo dei macchinari, quasi impercettibile. Un miracolo. Un miracolo che non avrebbe portato l’amico di sempre dall’altra parte della strada, ma che avrebbe potuto tenerlo inchiodato, lui che era stato un vulcano, un’esplosione inarrestabile di energia, a una vita che non era vita. Cieco, sordo, paralizzato. Forse muto. Forse demente. Non era giusto implorare un miracolo che si sarebbe potuto trasformare come niente in una condanna. Anche se era dura, lasciarlo andare. Anche se era dura sapere che non ci sarebbero stati più giorni insieme, e risate, e fatica, e grandi strade da percorrere, e musica, e parole…

Non poteva che intuirla, la fame d’aria che si spegneva in un rantolo, attraverso lo spesso vetro che isolava l’amico di sempre dalla sporcizia e dai germi del mondo. Intanto, sul monitor, il tracciato andava appiattendosi lentamente in una retta infinita di luce al fosforo verde. Presto, le catene si sarebbero spezzate. E sarebbero  cadute, senza fare rumore.

“Rest in peace, Big Man”

Blood brothers in the stormy night with a vow to defend
No retreat, believe me, no surrender*

 

 

*Si allude alla guerra del Vietnam, che nei primi anni ‘70 consumava i suoi ultimi bagliori.

**”No surrender” in “Born in the USA (1984)

   
 
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