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Autore: Iolyna92    30/08/2011    6 recensioni
I capelli biondi profumavano ai fiori di lavanda e stavano ancora bagnati e scompigliati sulla testa.
Il viso dai lineamenti eleganti era leggermente più roseo per l’ambiente caldo che aveva abbandonato e gli occhi leggermente lucidi e arrossati.
Le larghe spalle, nude e umide, insieme alle braccia possenti e il petto, dove scolpiti c’erano muscoli sviluppati dai frequenti allenamenti, brillavano invitanti sotto le luci del pomeriggio.
Sulla pelle calda e profumata, una brillante goccia d’acqua attirò il suo sguardo.
Questa era partita dalla giuntura dei capelli sopra la tempia e pian piano scivolava sul bel fisico di lui, seguendo i contorni perfetti fino all’addome, dove fu assorbita dalla tovaglia che copriva il resto del corpo fin sopra le ginocchia.
Dorothy non si fermava spesso ad osservare la fisicità dei ragazzi e mai ad osservare quella di Seifer, almeno non fino ad adesso.
°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
Spero di avervi incuriosito con questo pezzo tratto dalla mia storia^^
Vi sarei davvero grata se deste un occhiata e, anche se poi decideste di non leggerla, lasciare comunque una recensione. Accetto ben volentieri sia critiche che apprezzamenti xP grazie in anticipo^^
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*

Salve!!! Sono Iolanda ed ho 18 anni ma ho in mente questa storia da quando ne avevo 13(Na marmocchia và -.-“)! E’ ancora la mia prima storia a più capitoli, che non rispecchi qualcosa che sento dentro sottoforma di metafore (i racconti depressivi che scrive quando è depressa? O.o è questo che intende?), bensì racconta una vera e propria storia, frutto della mia fervida fantasia (u.u fervida, ma che ha mangiato un vocabolario oggi a pranzo?) . Quindi per favore, siate clementi!!! Spero che vi abbia incuriosito, e che iniziate a leggere con entusiasmo questa mia storia… (Ma chi vuoi che la legga, scimunita! -.-“).  Ringrazio in anticipo i lettori (a cui avrai fatto pena e che hanno letto per compassione… u.u) e i critici (gente veramente caritatevole u.u), di cui accetto i consigli e adoro ascoltare le loro opinioni, perche credo che mi aiutino a crescere (vi dice bugie, vuole solo sapere se è una fallita e deve smettere di scrivere XD). Dopo di ciò credo che aggiornerò o lunedì o martedì della prossima settimana con il primo capitolo!!! (Yuppy -.-“…)

 

 

Prologo

Oltre al mio elemento

 

La luna splendeva, brillante e pallida, in alto nel cielo sereno insieme alle amiche stelle che, numerose, squarciavano il nero di quella notte autunnale.

I loro candidi raggi illuminavano appena le chiome folte degli alberi fitti.

Insieme formavano un gigantesco bosco ai piedi dell’alta collina.

L’unica cosa a dividere la miriade di alberi, danzatori a ritmo del soffio lento e silenzioso della brezza fredda del nord, era un piccolo e sinuoso sentiero.

Quest’ultimo, serpeggiando, conduceva al grande cancello principale in resistente ferro battuto, impreziosito con pietre colorate.

Rialzando appena lo sguardo, l’orizzonte si mostrava vasto, quasi immenso e fin troppo quieto.

Miglia di valli e qualche catena montuosa lo rappresentavano assopite nella culla tranquilla dell’ultima notte calda di quella stagione.

Ma, alla torre sud, la più alta della roccaforte di Tulemont, posta immobile e indisturbata sulla cima della collina, vigile sulle valli enormi che si espandevano ai suoi piedi; l’imperatore non era così calmo come la natura che lo circondava.

Nella stanza completamente vuota, composta di grigie e fredde pietre, un uomo sui sessant’anni, camminava avanti e indietro percorrendo tutta la lunghezza della finestra che gli stava di fronte.

La vestaglia lunga, verde e oro, strisciando a terra seguiva il passo frenetico e nervoso dell’uomo.

Robusto e con la schiena un po’ curva, l’uomo alternava il suo sguardo color ghiaccio tra il rivolgerlo fuori, a scrutare ansiosamente l’orizzonte quieto, per poi riportarlo per terra, fissando le pietre consumate del pavimento.

Giocherellava freneticamente con le dita passando ogni tanto la rugosa mano, dalla pelle ambrata e un po’ ceduta, tra i pochi capelli bianchi-argento del capo.

-          Come fa? – disse ad alta voce a se stesso. - Come fa la gazzella a vivere la sua vita così quietamente quando sa che il giorno dopo il leone la potrebbe mangiare?-

Dirlo ad alta voce era uno sfogo.

Avrebbe voluto urlare, rompere qualcosa, picchiare qualcuno… ma non poteva disturbare il tranquillo scorrere della notte solo perchè le sue ansie e i suoi tormenti lo continuavano ad attanagliare durante il sonno.

Era uscito dalla sua camera in preda all’insonnia, provocata dai suoi mille pensieri, solo per salire fin lassù e assicurarsi che non ci fosse nulla pronto ad aggredirlo nel buio della notte.

Ma non si fidava più neanche dei suoi occhi.

Trovava un inganno la tranquillità dei suoi guerrieri, come quella di sua moglie e delle sue figlie, ormai lontane e al sicuro del disastro imminente.

Era un inganno anche la tranquillità di quella serena notte.

Portò ancora una volta la mano alla fronte e incominciò a massaggiarsi le tempie lentamente; mentre scese velocemente le scale deserte avviandosi alla sala del trono avvolto nei suoi pensieri.

Il grande castello era vuoto e silenzioso.

I passi del vecchio rimbombavano nella tromba della scala e nei lunghi e assopiti corridoi.

Ogni stanza, come quella in cima alla torre sud, era formata dalle umili e fredde pietre grigie anche se qualche quadro e qualche candelabro qui e lì ravvivava l’ambiente cupo.

I tempi della ricchezza e di tranquillità di quel maestoso monumento erano finiti da un pezzo.

La profezia si stava avverando lettera per lettera.

Ma la sua ansia lo portava a non far caso a ciò che lo circondava, bensì ad allontanare quei pensieri e ad arrivare il più velocemente possibile al suo trono.

Aveva bisogno di sedersi sopra, di sentire il suo potere e la sua forza sostenerlo, di stringerlo fino a farsi male nello sfogo della sua disperazione.

 

Erano passate due ore, se non addirittura tre.

Era ancora seduto sul trono e l’ansia finalmente lo abbandonava pian piano: il sonno stava iniziando a tornare.

Con gli occhi semi aperti continuava a scrutare la vasta sala spostando il suo sguardo lentamente.

Il tetto rettangolare era sostenuto da travi in legno pregiato di alberi secolari che avevano vissuto nel bosco.

Di fronte a sé stava socchiuso il grande portone da cui entravano giornalmente i suoi sudditi con relativi omaggi o lamentele.

Era stato costruito con lo stesso legno prezioso delle travi ma in oltre vi erano incastonati, creando magnifici motivi floreali, delle pietre colorate che lo impreziosivano e lo bellivano ulteriormente.

Nelle mura c’erano tantissimi quadri, di varie grandezze, messi sparpagliati in tutta la stanza.

Rappresentavano grandi occasioni, episodi di vita quotidiana o semplicemente vecchi antenati dell’imperatore.

Ognuno possedeva una cornice in oro con ripetitivi motivi floreali, sotto di cui vi era attaccata una lampada a olio con il compito di illuminarlo.

Ora che ci faceva caso, con quelle lampade, la sala in piena notte aveva un aspetto spettrale.

Per terra c’era il solito pavimento di pietre grigie molto consumate, e su di un’altura, sempre in pietra, se ne stava il trono su cui era seduto.

Questo era tutto in finissimo oro che riportava gli stessi motivi floreali della porta e delle cornici e anche qui c’erano incastonate le pietre colorate che lo rendevano più sobrio, forse esageratamente.

I cuscini su cui era seduto e quello dello schienale, erano di un rosso acceso, quasi porpora, in prezioso velluto.

Anche le tende che adornavano le due grandi finestre alle sue spalle erano in pesante ma elegante velluto rosso, il cui compito era di rappresentare il potere e la nobiltà di quella sala.

Si poggiò pesantemente sullo schienale del trono.

Quanto gli piaceva quella sala: gli ricordava tutti gli anni passati a governare nella buona e nella cattiva sorte.

Gli ricordava la sua incoronazione.

Il matrimonio con sua moglie, celebrato all’interno.

Il battesimo delle sue amatissime figlie.

Sempre più stanco e più rilassato, inebriato da quei piacevoli ricordi, l’imperatore chiuse le palpebre e cadde in un sonno leggero.

 

- Mio Sire, Mia Maestà!- urlava correndo un giovane ragazzo, entrando velocemente dal grande portone.

Anagor si svegliò di soprassalto e sgranò appena gli occhi appena lo vide.

Stava succedendo: i suoi incubi, le profezie e le visioni si stavano avverando.

- Ci stanno attaccando!- continuava a urlare il ragazzo.

- Chi ci sta attaccando?- chiese preso dall’ansia il sovrano.

Chissà perché ma ancora una scintilla di speranza brillava in sè.

Sperava che non fosse lui, di poter salvare ancora qualcosa del suo regno, di poter sopravvivere al massacro che ci sarebbe stato.

- Hojo, mio Sire, e le sue maestose truppe.- rispose ansioso.

Uno sguardo preoccupato apparve nel volto del giovane.

La scintilla che era rimasta accesa nel suo cuore si spense in un bicchiere d’acqua in meno di un millesimo di secondo.

- Raccogli tutte le truppe e fermate l’attacco anche se sembrerà impossibile. Non moriremo senza combattere…- disse Anagor, alzandosi lentamente.

- Ma Sire…- chiese con voce pietosa.

- Non voglio sentire ma!- lo interruppe. - So che provocherà tantissimi morti, so anche che probabilmente riuscirà a insinuarsi nel castello. Ma io, IO non permetterò che tutto ciò accada!- disse rabbioso voltando le spalle al ragazzo.

Poteva avere circa vent’anni.

Era normale che avesse qualcosa da ridire, perché si sentiva troppo giovane per morire per la sua patria, troppo giovane per abbandonare la sua vita, la fidanzata, gli amici, la famiglia.

Ma non voleva sentire la discussione di un ragazzino, aveva altri pensieri la testa.

-Agli ordini Sire…- aggiunse avviandosi all’uscita con una leggera corsa.

Anagor si massaggiò le tempie, passò la mano tra i capelli e si avviò a una delle grandi finestre.

Da lì si vedeva l’assalto.

Come non se n’era accorto prima: erano tantissimi, una marea di uomini che cercavano uno spiraglio d’entrata nelle possenti mura che circondavano il castello e la sua piccola cittadina.

Ogni secondo che passava li vedeva più rabbiosi e più frenetici passare le sue mura e buttarsi nella mischia della battaglia appena incominciata.

Le sue truppe arrivarono in soccorso qualche minuto dopo la loro invasione.

Dall’armatura scintillante li affrontavano con coraggio e grinta.

Come non era riuscito ad accorgersi, nel sonno, di ciò che stava accadendo?

Si sentivano urla di battaglia e di carica, ma anche strazianti di dolore.

Udiva lo guaire delle spade e i colpi di pistole, come il soccorso di animali, vegetali, metallo e altri mille elementi aiutare gli uni e gli altri.

Continuando a osservare la mischia portò una mano al cuore e non riuscì a far a meno di piangere per il dolore e per il destino che li attendeva.

 

Passate le prime due ore, lo scontro, era sempre più affiatato, anche se i suoi uomini erano già stanchi e si vedeva.

Soffriva con loro, provava pena per loro, ma riusciva ancora ad avere la forza di sperare e di immaginare un finale migliore di quello che aveva scritto il destino.

Voleva mandare l’ordine di ritirata ma… Avrebbe segnato la sua sconfitta definitiva.

Sarebbe stato come ritirarsi da una partita di scacchi avendo eseguito solatando la prima mossa.

All’improvviso qualcos’altro attirò la sua attenzione.

Le porte della sala si erano spalancate di botto e avevano fatto un gran tonfo sbattendo contro mura.

Si voltò di scatto ma, a primo impatto, non c’era nient’altro d’isolito.

O peggio sì, ma lo aveva notato semplicemente sforzando appena lo sguardo…

A spalancare le porte in quella maleducata ma eccentrica maniera erano state due pietre; di terra secca.

Neanche il tempo di stupirsi e di rendersi conto che quell’elemento apparteneva ad un’unica persona al mondo che, tendendo l’orecchio, sentì dei passi leggeri e veloci che si facevano sempre più forti con l’avvicinarsi dell’uomo alla sala.

“Eccolo” fu l’unico pensiero che gli passò per la mente in quell’istante.

Pochi attimi dopo gli si presentò davanti un ragazzo sui trent’anni: era alto ed esile, probabilmente anche molto agile.

Portava capelli corvini, non troppo lunghi e scompigliati; gli occhi erano dorati, un colore intenso che gli davano le strane somiglianze di un rettile.

La pelle bianca, quasi come quelle delle bambole di porcellana, spiccava avvolta nell’abito lungo, nero e oro, che indossava con eleganza, come se fosse già un re vissuto ed espediente.

Arrivato tra le due porte, si fermò e fissò severo il sovrano.

- Ti cercavo…- disse con voce glaciale in un sussurro, abbassando appena il volto in segno di saluto, ma mantenendo lo sguardo alto con onore – Ma non ti ho trovato in mezzo alla mischia…-.

Non aveva bisogno di presentarsi: già lo conosceva, già tutti lo sapevano chi era e lo temevano.

 

Hojo era un ragazzo di appena vent’anni a cui, la natura, aveva fatto il grosso errore di donargli uno dei quattro “elementi fondamentali”.

Ogni uomo, donna o bambino possiede un elemento: è una parte della natura che può controllare a suo piacimento e che rispecchia in parte il proprio carattere.

Ve ne sono vari e molto diffusi.

Ad esempio è frequente conoscere persone il cui elemento è di controllare i vegetali, o chi con uno schiocco delle dita gestisce gli agenti atmosferici.

E’ anche facile scovare che le persone fredde e un po’ aggressive possiedono la capacità di creare qualsiasi cosa con metalli e leghe, mentre la gente più estroversa e solare, che ha un po’ di ottimismo in più rispetto agli altri, probabilmente parla e si fa ascoltare dalla fauna con estrema facilità.

Insomma l’evoluzione dell’uomo lo aveva portato a sviluppare queste capacità e da quando era accaduto, tutto era migliorato: i rapporti tra persone, l’economia, l’agricultura, ecc.

Oltre agli elementi diffusi in tutta la popolazione con intensità diverse, non sono da trascurare quelli “fondamentali”: aria, terra, fuoco e acqua.

Sono distinti dagli altri perchè “elementi che tutto creano e tutto distruggono”.

Quale animale o uomo vive senz’aria? E senz’acqua?

Se la terra fosse arida, di cosa si ciberebbero gli esseri viventi?

E se il fuoco bruciasse tutto, come potrebbero sopravvivere?

Proprio per questo gli elementi fondamentali vengono donati dalla natura solo a quattro persone in tutta la popolazione terrestre, uno per ciascuno, e solo a chi possiede un cuore puro, coraggio, astuzia e buon senso.

Buon senso, proprio quello che manca a Hojo.

Inebriato dal potere questo ragazzino aveva eseguito conquiste e colpi di stato a tempo record.

Tanti erano i suoi seguaci e grazie a loro si era posto sul trono di molte nazioni.

Gliene mancava solo una per completare il suo bel puzzle e diventare imperatore supremo: Tulemont.

 

- Ti aspettavo…- rispose in un sussurro lui.

Con nervosismo si agghindò la veste verde smeraldo, poi, con passo lento e deciso, si pose davanti al trono quasi in senso di protezione.

- Mmm… Com’è carino qui…- disse il giovane entrando e osservandosi intorno.

Il suo passo era sempre deciso, forse più di prima, e la voce sempre più fredda e rauca: non si era lasciato intimorire di nulla.

-Anche se manca il personale tocco di Hojo, - proseguì- ma provvederemo subito…- aggiunse con un fare disinvolto piazzandosi al centro della grande sala.

- Hojo non toccherà neanche un granello di polvere di questo palazzo…- rispose alla sua provocazione, iniziando a scendere dall’altura su cui era posto il trono.

In quell’attimo di silenzio, il solo suono che rimbombò nella stanza vuota, furono i suoi passi pesanti che scesero lentamente le scale.

- Come non dovevo toccare le tue figlie?- buttò lì, di punto in bianco, prendendo ad osservare un quadro, mentre il sovrano si avvicinava a lui. - O tua moglie?- aggiunse spostando il suo sguardo ruvido sull’uomo.

Sul volto enigmatico riapparve il sorriso malvagio da viscida lucertola.

Gli fece disgusto.

- Che cosa le hai fatto?- chiese quasi urlando.

Lo raggiunse in fretta e lo prese con forza dalla veste nera di velluto pesante.

C’era il fuoco negli occhi azzurri di Anagor.

Lo avrebbe voluto uccidere lì, all’istante, nella maniera più dolorosa possibile.

Ma doveva sapere.

- Innanzi tutto, giù le mani, vecchio.- disse liberandosi in un istante dalla forte presa dell’uomo e allontanandolo di un bel po’.

Anche se sembrava esile e molto gracile, non lo era.

-E poi nessuno ti ha raccontato che, - proseguì- durante la loro improvvisa fuga dal palazzo, una truppa di Hojo le ha prese prigioniere? Ora sono dentro le mie celle, carissimo Anagor, tra mille torture e supplizi.- concluse come se nulla fosse.

Anagor era paralizzato dalla rabbia, dalla sorpresa, dal dolore e dall’odio.

Il suo autocontrollo stava crollando.

- E oserei aggiungere qualcosa…- proseguì avvicinandosi a un palmo dal naso al volto dell’imperatore. – Sai tua figlia… Come si chiama? Ah, ecco si… Satine… E’ davvero bella… Soprattutto quando piange e urla di dolore, di odio e di disgusto perché un uomo, lurido come me, gli ha messo le mani, e forse qualcos’altro, adosso…-

Un’immagine disgustosa apparve nella mente di Anagor: sua figlia Satine, la più giovane di solo sedici anni sodomizzata da quella lurida lucertola.

Le sue lacrime e la sua sofferenza, il piacere e la sadicità di quell’orrendo essere che considerava solo un mostro.

Un pugno in pieno stomaco arrivò a Hojo completamente alla sprovvista.

Fu così forte che scivolò a terra.

Poi rimase a guardare, fermo li, con i pugni stretti, gli occhi infuocati, il viso rosso e l’ira che stava prendendo il sopravvento.

Non riusciva a pensare che le mani, che fino a poco prima lo avevano spinto, avevano toccato impropriamente sua figlia, e la sua fantasia lo portò immaginare cos’altro aveva e avrebbe fatto su sua moglie e sulla primogenita.

Il cuore pulsava come impazzito, la mente stentava a ragionare, e il corpo si era irrigidito totalmente.

- Cre-credevo che avessi più autocontrollo Anagor- disse con voce spezzata il ragazzo, che tenendo il ventre incominciò ad alzarsi. – Un-un re deve avere autocontrollo, vecchio mio, se-se no rischia di andare fuori di testa e… farsi sottrarre il trono-

Di nuovo quel perfido sorriso tornò a raggelare il sangue al sovrano.

- Con certe persone, l’autocontrollo non serve affatto, soprattutto con quelle che non ne hanno verso di me e i miei cari…- disse glaciale anche lui trattenendo i suoi istinti d’attacco.

- Oh… Povero illuso. Le mie non sono debolezze. Caro Anagor, se ho ideato questi colpi di stato, se ho radunato questo enorme esercito, se sono riuscito ad ottenere ogni singolo territorio di questo stramaledettissimo mondo, e perché dietro ad ogni cosa ho un piano… Di conseguenza, se ho catturato la tua famiglia, gustandomi tua figlia e torturando tua moglie e la tua primogenita, ci sarà un perché no?-

Si ritrovava a un palmo di naso dal sovrano, ma non gli dette il tempo di esitare.

Gli si avvicinò all’orecchio, e in un sussurro gli riferirì: - Perché fanno parte del piano, caro mio… E, sapendo che loro sono il tuo punto debole… Le ho… Uccise.-

Anagor rimase di nuovo paralizzato.

Stavolta non dalla rabbia e tanto meno dall’odio.

Ma dal dolore.

Fu come una pugnalata.

Sentì il suo cuore spaccarsi in mille pezzi, mancargli l’aria, il corpo rammollirsi…

Gli passarono davanti agli occhi tutti i momenti belli che avevano realizzato nella sua vita: il matrimonio, le nascite e i battesimi.

I compleanni. I baci della buona notte, le ginocchia sbucciate e i pianti infiniti, ma anche i sorrisi di un regalo nuovo e le risate del loro divertimento.

L’amore con sua moglie. Le discussioni insieme e anche i piccoli litigi.

E adesso, non ci sarebbe stato più niente di tutto ciò… Mai più…

Loro erano andate, sparite…

Svanite come una bolla di sapone.

Non riusciva a respirare.

La sua mente era come vuota.

Eliminando loro, vedeva il buio nel suo passato, nel suo presente e nel suo futuro.

Non aveva più niente.

Non valeva più niente.

Il senso della sua vita era svanito e… ed era povero.

Povero di una famiglia… Di una famiglia che lo amava e lo curava…

Di una famiglia, che aveva messo su con fatica… Ma che si era sempre rilevata la cosa più importante che aveva…

Un enorme masso lo colpì in pieno stomaco e fu scaraventato per terra, ai piedi delle scale che portavano al trono.

Si fece male alla schiena.

La testa si era spaccata allo scontro con la scala e il sangue iniziò a bagnargli la nuca.

Doveva reagire lo sapeva, ma tutta la sofferenza fisica che stava subendo non era equiparabile al dolore che portava ancora dentro.

Così non reagì.

Si mise semplicemente seduto a fissare il pavimento.

Portò una mano alla testa, che gli vorticò all’improvviso.

Si stava sporcando tutto di sangue, ma ancora non riusciva a percepire cosa stava succedendo.

Non riusciva a non pensare a loro…

Sapeva già come sarebbe andata a finire, perciò non ne valeva la pena di alzarsi e combattere. Era tutto scritto.

Non ne valeva proprio la pena…

Iniziò a piangere.

Pensava che non avrebbe mai pianto.

 Hojo, con passo deciso e trionfante si avvicinò a lui.

Rise. Aveva lo sguardo di chi già sapeva di aver vinto.

Dopo di ciò si abbassò e lo sollevò per la veste.

Si ritrovavano di nuovo vicinissimi.

- Non pensavi che lottare con me fosse così difficile?- chiese, sadico, godendo del dolore e delle lacrime del sovrano.

Anagor, umiliato dal mostrare la sua debolezza al nemico, continuò a fissare il pavimento.

Si ripeteva che fra poco tutto sarebbe finito e che presto avrebbe riabbracciato la sua famiglia, lassù.

- Io, non vinco solo perché madre natura mi ha dotato di un eccellente elemento, come te, e di una grande forza… Ma anche perché la mia intelligenza e furbizia, rendono imprevedibile l’avvenire del proprio destino…- gli disse come un maestro insegnerebbe ad un alunno.

Anagor trovò il coraggio di risollevare lo sguardo.

Incrociò lo sguardo dorato e perfido del nemico.

Una scintilla brillò nei suoi occhi.

 Subito dopo, un dolore.

Un dolore lancinante e atroce, più di quello che gli aveva provocato prima.

Un pugnale di fino argento gli trapassava con forza il cuore e un urlo di agonia uscì dalla sua gola, con la forza di pieni polmoni.

L’ultima cosa che vide, fu il riaffiorare del perfido sorriso da rettile sulle sottili labbra del nemico.

Poi il nulla.

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