Per Lady Chiara Sommers,
che continua a proclamare la mia bravura nella narrativa...
t'adoro tesora xD
ASSENZA
I
dolci colori della costa stanno svanendo velocemente, avvolti dal
manto d’ombra della notte. C’è un sottile profumo di fiori
nell’aria. Le scille marine sono fiorite presto quest’anno e così
i narcisi. Le ancelle hanno riempito la casa di fiori dai morbidi
contorni e dai tenui colori.
Ma
nemmeno questi possono nascondere il rosso del sangue che scorre a
fiumi nella tua casa. Sì, padre, il tuo sangue versato è stato
vendicato con altro sangue.
La
maledizione di Mirtilo si è conclusa. Oreste, il tuo unico figlio
maschio, ha ucciso la madre indegna e il suo deplorevole amante.
Madre indegna di indegna prole.
Mi
considero infatti una figlia indegna, non sono riuscita a salvarti,
pur vedendo l’ascia pesante di Clitemnestra calare sul tuo collo,
né a vendicarti, sono troppo vigliacca.
Le
mie lacrime bagnano la terra sotto cui le tue ossa bianche riposano.
Ricordo
come se fosse ieri il dolore che provai il giorno che ti vidi
partire, tu e le tue concave navi, verso il sole nascente. Sapevo che
non saresti tornato o se la Τύχη
benigna ti avesse riportato a casa, saresti stato ucciso molto
velocemente dalla famiglia o dai nemici, ma non ho fatto nulla per
impedirti la partenza. Non mi sono gettata ai tuoi piedi nella
polvere del cortile, mentre camminavi lentamente, appesantito dalla
corazza di bronzo che indossavi per compiacere il tuo ego.
Non
ho gettato alle ortiche l’orgoglio che fin da bambina, quando mi
permettevi di arrampicarmi sulle tue ginocchia, mi insegnavi a
difendere fino alla morte; è merce preziosa, una donna orgogliosa.
Non
ho nascosto Ifigenia alla sorte, per accontentare la madre e per
sfuggire la profezia del bianco Calcante. Ah, quel vecchio troiano ha
predetto quello che gli faceva più comodo, ancora non capisco la tua
assoluta certezza. Mi stupisco sempre nel poco riguardo che ho nei
confronti dell’arte profetica. Forse tu ti fidavi di più del volo
degli uccelli e della lettura delle viscere di tori e agnelli che
della voce della ragione. In fondo, ti portasti a casa quella
ragazza, la principessa troiana sacra ad Apollo.
Di lei ti fidavi? Ti saresti fidato? Forse no.
Sembro
una statua di cera, pronta a sciogliersi al primo raggio di un sole
superbo. Ecco, mi vedo volare fra le nubi, ma non mi accorgo di avere
le ali in fiamme. Come Icaro, sono destinata ad affondare nel mare
viola che mi guarda, in attesa.
Mi
sento cadere, precipitare nell’Ade per arrivare il più velocemente
possibile da te, alle porte del regno di Persefone. Sarei pronta
anche ad affrontare le tre teste di Cerbero.
Non
mi importa molto se nulla è più come prima e mai sarà. Ho imparato
il vero dolore e non posso che esserti grata per questo. Anche sotto
tre metri di calda terra sanguigna riesci ad impartirmi importanti
lezioni. Anche se preferirei stare seduta in braccio a te. Non posso
non sentirmi vile, non riesco a non venire soffocata dai rimpianti,
dai miei innumerevoli errori, che condussero la mano della madre a
impugnare la scure. La stessa bianca mano che mi carezzava il capo la
sera, che mi asciugava le lacrime quando mi ferivo le ginocchia
cadendo dagli alberi o inciampando nelle radici mentre facevo a gara
con i cavalli, ridendo felice al vento che mi scompigliava i capelli.
La
mia spensieratezza di bambina è partita con te per la terra
straniera da conquistare col sangue e con il sudore dei nostri
uomini, dei nostri fratelli, dei nostri padri. Mi sono arrampicata
sull’albero più alto del promontorio, per salutarti con la mano,
per vedere scomparire la vela della tua nave nel regno di Poseidone.
Mi stracciai la veste migliore, rido ancora al ricordo della faccia
di Crisotemi e del sorriso di nostra madre.
E
il giorno dopo arrivò Egisto, a sottrarti il posto che era e doveva
rimanere tuo. Rideva, sì, rideva mentre camminava con i sandali
sporchi di fango nella sala del Consiglio. Mentre sputava sul tuo
grande trono di legno, mentre bruciava i tuoi abiti, mentre vendeva i
tuoi monili e mentre giocava con le armi che avevi lasciato nei
forzieri. Gridava: “Fratello, chi è il re ora?”
E
io mi rinchiudevo nella mia camera, in preda al pianto ogni giorno e
ogni notte. Dopo che, una sera, gli morsi il polso che aveva osato
avvicinarsi al mio viso, la madre non sorrise più a me. Per lei ero
arrivata a contare meno dei maiali che si ruzzolano nel fango vicino
alle stalle.
Da quel momento in poi io fui sola, padre. Sola.
Camminavo
per Argo e venivo schivata dal popolo, dal nostro popolo. Sentivo
come un ronzio di api alle mie spalle. “Pazza, folle” sussurrava
la gente, mentre mi fermavo ai banchi del mercato per comprare erbe e
spezie. E per chiedere notizia della guerra che infiammava l’Oriente.
Non
indosso più gioielli, né tuniche preziose, i miei capelli, una
volta lucidi come l’ala di un corvo, sembrano un cespuglio di rovi,
ma non me ne curo, perché sento che non ci sarà ancora tanto tempo
per me.
Sento
di meritare la morte.
Sono
qui ora, a battermi il petto e a parlare con un mucchio di terra
bagnata dal mare e dalle mie lacrime. Forse ha ragione il popolo di
Argo a chiamarmi pazza. Ma non riesco a pensare che la mia mente sia
perduta nel Nulla. Finché riesco a pensare, finché vive il ricordo,
anche io vivo e sento.
Una
sottile brezza sale dal mare, spostando la sabbia che mi vola a
piccoli grani negli occhi. Lo sento nell’aria, domani, forse
perfino stanotte, Poseidone scatenerà la sua ira facendo infuriare
il mare. Qualcuno dei tuoi soldati, padre, gli ha disobbedito.
Non
conviene fare un torto al re delle acque.
Quanti
sacrifici ho fatto al dio dal potente tridente, con la testa altrove
a fantasticare su battaglie di eroi, di uomini, di dei. Ricordi
quando venne Achille ad Argo, il grande, il possente, l’imbattibile
Achille, che non riuscì a farsi tornare in mano uno yo-yo. Battuto
da una bambina dalla risata squillante. Ti ricordi di lei? Io faccio
fatica a tornare indietro con la memoria al tempo di quand’ero
ancora felice.
Hanno
deciso di abbandonare ai corvi il corpo di Clitemnestra, ma io so che
non avresti voluto, sarei incorsa nell'ira di Zeus. Sono un figlia
indegna, sì, ma irrispettosa mai.
Il
cielo sta morendo, Elios ha caricato il sole sul suo carro dorato. I
cavalli dell’Olimpo trottano lenti tra le nuvole sanguinanti,
sembra che l’azzurro si tramuti lentamente, sempre più lentamente
in rosso e infine in nero, accontentando con un sorriso la vecchia
compagna luna, che addolcisce la notte col suo bianco sguardo.
Così
faccio io, lentamente affondo nel nero del mio oblio personale,
perdendomi in un bosco di grida e lacrime. La vista mi si annebbia,
sto forse diventando simile ai ciechi veggenti che popolano l’Ellade?
Mi renderanno gli occhi, per scrutare la verità, per guardare gli
animi, per vedere le cause e gli effetti.
Ecco,
questo era un bel gioco. Quest’oggi i ricordi mi scorrono fluidi
nella mente, sai tu il perché padre?
Mi
nascondevo tra le colonne dei templi, correndo nel bianco
dell’antichità che trasudava saggezza e stanchezza. Le docili
colonne si stagliavano mute nel cielo, creando slanciate ombre sul
marmo del pavimento e sulla terra arida della strada. Mi aggiravo
furtiva per il tempio di Atena, cercando la statua. Cercavo il fuoco
sacro. E mi sono bruciata, sì. Ma sognavo in un sogno che non era
mio, guardando con occhi diversi una tempesta che non sarebbe mai
accaduta. Non pensavo a niente, dolci anni in cui il pensiero era un
vezzo che non mi interessava, vivevo così bene ridendo e correndo.
Finché non arrivò il momento, finché il cielo non si ruppe proprio
sopra di me, mostrandomi cose che una bambina com'ero non avrebbe mai
dovuto vedere. Mai.
Scoprì che gli dei a cui alzavo le braccia cantando, gli stessi dei
che pregavo tutte le notti, gli stessi dei che avrebbero dovuto
proteggermi, chi col fulmine, che con la spada, chi con il tridente,
non erano che visoni. Sogni di un mondo migliore.
Per
giorni mi sono rintanata tra le radici del grande fico che sovrastava
il giardino della reggia, piangendo per un mondo che era solo una
bugia, piangendo per te, che ancora confidavi nei vaticini. Piangendo
per me. No, per me no.
Non ho mai pianto per me, io, la donna che ascolta ma non parla. È così, le persone possono essere comodamente divise in queste due categorie, senza ascoltare quello che i filosofi gridando nelle piazze al popolo impazzito. C'è chi ascolta e chi parla. Io ascolto, ascoltavo, ascolterò. Mai una parola potrà scapparmi dalle labbra, mai un sussurro leggero, mai una confidenza fatta ridendo all'amica che passava con me le notti buie dell'inverno, quando il mare rumoroso impediva a tutti il sonno.
Il
canto delle sirene sembra giungere fino a qui, forse dovrei seguirle
e inabissarmi nel verde che mi chiama, gridando tutto il suo amore
per me. Ma prima devo finire di parlare, ora che ho cominciato, non
mi fermerà più nessuno.
Correvo
come il vento, cercando di fecondare il cielo con le mie lacrime,
cercando di oscurare il sole con le mani, supplicando chiunque fosse
in ascolto di far giungere la mia voce e le mie scoperte fino a
Troia, da te, per farti spaventare, per farti prendere la nave e
tornare, da me.
La
madre questa cosa non me l'ha mai perdonata. Dovevi mancare solo a
lei, dovevi essere solo suo.
Non ho accettato questo, non ero più sua figlia. Forse fu spinta da
questo odio la sua scelta, percorse la strada più facile, in fondo
quanto ci voleva di notte, alla luce della torcia, arrivare fino alla
camera di Egisto? Neanche il tempo di soffiare sulla fiamma della
lampada. Come un'ombra scivolava nei corridoi, lasciando dietro di sé
solo l'odore dolce dei suoi capelli. Quanto amavo affondarci il viso,
prima di addormentarmi.
Sottile
e penetrante, come la nota più alta di una lira, il suo profumo
aveva la capacità di legarsi a te, di entrarti nell'anima e di non
lasciarti andare più. Poteva accarezzarti e colpirti come una
frusta. Era proprio lei, Clitemnestra.
Lei,
la donna che ti ha ucciso, uccidendo anche me.
Ma
ormai il cielo è diventato nero, inglobando in sé tutti i colori
del promontorio. Ti devo lasciare padre, devo raccogliere da terra la
madre, lasciata a marcire nel cortile.
Non
posso, la legge di Zeus me lo proibisce, lasciarla nella polvere;
anche lei ha diritto a una degna sepoltura. Ma non la riporrò vicino
a te, no, le sue ossa bianche scompariranno nelle segrete della dolce
casa, con quelle dei traditori, abbandonate nel buio senza fine.
È
quello che si merita, per tutto il dolore che ha provocato, per
l'ombra di ignominia che ha lasciato scivolare sulla famiglia di
Atreo, perennemente sventurata, aiutata da quel figlio degenere, da
quell'uomo indegno di respirare la tua stessa aria, che invece si
godeva il letto di tua moglie, che rideva dissipando le tue
ricchezze, gioendo delle notizie di sconfitta che arrivavano da
Troia.
Ma ora è morto anche lui, sepolto tra le sterpaglie del giardino, assieme ai cani e ai maiali.
Sono
stata rapita dai miei stessi pensieri, ma ora, riportata nel grembo
mio adottivo, posso rinascere da un'altra madre, conoscere un'altra
vita, amare altri uomini e altre sensazioni.
Aspetto
paziente l'arrivo di Oreste, ma so che lo accoglierò vittorioso,
accoglierò a braccia aperte il vendicatore di genti, colui che
infranse l'infausta maledizione.
E
ora, apro le danze alla cara luna, ora, assieme alle stelle, mie
sorelle sanguinanti luce, ti renderò omaggio un ultima volta, ora,
vendicherò con le mie membra stanche la tua assenza, ora, getterò
le braccia al cielo per te, per onorarti come uomo pari agli dei,
padre.
Ora, per te, nuoterò fra i flutti neri del cielo. Ora, per te, canterò tutto il mio dolore. Ora, per te, raggiungerò l'amara madre terra, in questa danza frenetica. Ora, per te, tornerò alla vita.