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Autore: thefung    02/09/2011    4 recensioni
Storia a 4 mani scritta da me e mia sorella per tutte le amanti di Suspian come noi. Cosa succederebbe se Aslan desse una possibilità a Caspian? Se fosse lui a ricevere la tanto attesa chiamata e ad entrare nel mondo degli umani, per raggiungere Susan? Tutto si aggiusterebbe, certo, vivrebbero la loro storia felici e contenti, tornando anche a Narnia magari. Purtroppo però la Strega Bianca ancora una volta è in agguato e proprio mentre Caspian arriva nel nuovo mondo perde d'un tratto la memoria. Non si ricorda di Narnia, di Susan, di Aslan... nulla. Cosa faranno allora i nostri eroi? Cosa succederà? Riusciranno a coronare il loro amore una volta per tutte? Per scoprirlo, non vi resta che leggere!
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Caspian, Susan Pevensie, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In My World And In My Heart
e
di Freddy Barnes e EleMasenCullen


Chapter 18: Beautiful Monster

POV Lucy

“E’tutto il giorno che mi sto massaggiando i polpastrelli”, pensai, constatando come il dolore che aveva assalito violentemente le mie povere dita stava ormai svanendo dopo tutte le attenzioni che stavo loro dedicando. Non avrei mai immaginato di arrivare a tanto, che mi sarei concentrata per una giornata intera unicamente a far passare un’ustione per non pensare, per non mettere in funzione i neuroni già stremati, per lasciare alle cellule del cervello un riposo dopo l’intensa attività che avevano avuto da quando ero stata segregata in quell’antro oscuro, dove a stento si riusciva a respirare.
Ormai, mi ero abituata a prendere, ad intervalli regolari, respiri lunghissimi, al fine d’ immagazzinare più aria possibile, per poi immergermi in una sorta di apnea involontaria, causata dal caldo asfissiante che, in quella grotta, regnava padrone affiancato unicamente da un buio fitto, rischiarato da una sola fonte luminosa. Una piccola fiammella tremolante irradiava dei deboli raggi di luce, che, all’inizio, quando mi risvegliai la prima volta ritrovandomi nell’antro maledetto, mi sembravano insufficienti per illuminare un’intera grotta; tuttavia, con il passare del tempo, mi abituai alla scarsa luce ed iniziai a trovare addirittura sovrabbondante quella microscopica candela. Arrivai addirittura a pensare di essermi tramutata in un gatto, uno di quei bei micini che riescono tranquillamente a vagare nel buio senza necessitare di fonti che gli illumino il percorso. E arrivai addirittura alla conclusione che, se fossi rimasta rinchiusa lì per un tempo abbastanza lungo, sarei morta.
Avevo affrontato più volte il pensiero della morte, avendo a disposizione tutto quel tempo che poteva essere impiegato unicamente per riflettere (o massaggiarsi i polpastrelli, come scoprii dopo), pensando che i miei fratelli mi avevano dato sicuramente per morta, durante il mio lungo periodo di assenza.
E l’idea che potessero soffrire così tanto per me, che mi trovavo in quella cella dalle pareti invisibili per colpa mia, quasi avessi scelto io il destino a cui ora ero condannata, mi faceva salire prepotentemente le lacrime agli occhi, che poi sgorgavano goccia dopo goccia, andando a posarsi sulla divisa scolastica che ancora indossavo.
Io lo sapevo bene -  oh sì, se lo sapevo bene - quanto il senso di colpa e il rimorso fossero delle emozioni terribili, delle consapevolezze capaci di serrarmi lo stomaco per interi giorni senza concedere una minima tregua, un attimo di pace e di libertà.
No, loro erano sempre lì, onnipresenti assassini, voci infernali che sussurravano nelle orecchie, fino all’asfissia, fino a far cadere quasi esanime al suolo, senza forze.
Ricordavo come avevo sofferto quando, più di due anni fa, avevamo ritrovato il lampione che ci aveva condotti nel mondo degli umani, nella casa del Sig. Diggory, ricordavo sin troppo chiaramente come mi ero amaramente pentita di aver riconosciuto quell’apparecchio illuminante sebbene fosse ricoperto, allora, di rigogliose fronde verdi. E piangevo, piangevo perché non avrei mai desiderato seguire il mio istinto ed abbandonare Narnia, il Signor Tumnus, i Castori, tutte le creature che vi abitavano. Non avrei mai voluto lasciare la mia casa, il luogo in cui riuscivo a sentirmi veramente me stessa.
Ed ancora una volta, mi trovavo a pentirmi dell’impulso maledetto che mi aveva portato a seguirlo, a stringere la sua mano, a lasciarmi condurre da lui fuori da scuola mentre la terra, irata e arrabbiata per un imprecisato motivo, tremava violentemente. Eppure, eppure quella mattina non avevo saputo resistere al richiamo della sua voce melodiosa, quando, nella confusione generale, aveva urlato a gran voce il mio nome, che non avevo mai sentito pronunciargli, anche se avevo tanto sognato che quelle sole quattro lettere potessero un giorno uscire dalle sue labbra perfettamente modellate, in un soffio dal profumo di muschio.
I miei fratelli avevano ragione, in fondo. Per una volta, dovevo essere io a dar retta a loro. Loro che forse avevano già intuito tutto, sì, forse si erano già resi conto da subito della creatura mostruosa che si nascondeva dietro quel corpo perfetto, dietro quell’atleta dell’antica Grecia, dalle guance pallide e dalle labbra carnose e rosee.
Un bellissimo mostro, ecco cos’era.
Mi tornavano alla mente tutte le lezioni trascorse con la testa voltata leggermente verso destra, per poter ammirare appieno la sua figura, distrattamente posata sulla sedia, la testa reclinata indietro e gli occhi chiusi. Non ero certamente la sola che si dedicava a quell’incantevole attività durante i corsi scolastici: ogni ragazza della scuola conosceva il suo nome, la sua bellezza divina e il suo portamento elegante. Perfino Susan dovette ammettere che aveva fascino, ma era fermamente convinta che si trattasse di uno scarafaggio travestito da uomo, invece che l’incarnazione moderna del dio Apollo, come lo si era definito.
Non avevo osato replicare a mia sorella quando, una mattina, aveva fatto quella sprezzante affermazione sul suo conto: mi ero limitata ad annuire distrattamente, fingendo di concordare con lei e con il resto dei miei fratelli, che anche loro non vedevano certo di buon occhio quel “bambino che si crede un uomo vissuto”, dicevano. Ed ogni volta che lo dipingevano così, si apriva una fossa dentro di me, una voragine che mi risucchiava l’anima, tanto soffrivo: stavo male, stavo male perché ero sicura, ero convinta che anche lui potesse essere un buon ragazzo, in fondo. Che anche lui avesse un cuore. Ed io avevo frequentato i corsi di Storia, durante quel primo anno, cercando sempre e comunque la chiave che potesse dar accesso al suo mondo. Perché, certamente, doveva rifugiarsi lì ogni volta che faceva vagare lo sguardo perso per l’aula, ogni volta che socchiudeva gli occhi e si perdeva a riflettere … Ma forse, forse stava solo escogitando alcuni modi per apparire ancora più attraente, per far cadere sempre più ragazze della scuola ai suoi piedi.
Era un mostro.
Eppure, a guardarlo appoggiato lì, al dondolo di legno a pochi metri dalla candela, tutto di lui continuava a ricordarmi Narnia.
La pelle chiarissima pareva del colore della neve che mi aveva accolto la prima volta in cui avevo trovato l’accesso di quel mondo incantato e meraviglioso; negli occhi, del colore dello smeraldo, rivedevo le foglie di quel verde brillante che ricoprivano a centinaia ogni albero di Narnia, quelle foglie che avevo visto danzare cullate dal vento, fluttuare nell’aria e poi ritornare, in gruppo, sempre insieme. I capelli neri, però, non mi dicevano nulla: Narnia non era un posto fatto per il nero. Narnia era il trionfo dei colori, dell’allegria, della gioia, della felicità, di…
Narnia.
Una goccia salata sfuggì ancora una volta al mio controllo, insinuandosi fra le pieghe della gonna stropicciata.
Quanto avrei voluto ritornare nel luogo magico che sentivo da sempre appartenermi, far parte della mia vita, nel modo più assoluto: e invece, invece ero stata rinchiusa dal mostro, lontana da tutto e da tutti.
Cercai di raccogliere la lacrima che si era posata sulla divisa, ma non appena le due sole dita con cui sfiorai la piccola goccia salata vennero a contatto con essa percepii nuovamente il dolore che mi aveva tenuto occupata nelle precedenti ore. I polpastrelli, evidentemente, risentivano ancora dell’ustione che avevo preso, mentre a tastoni agitavo le mani nel vuoto, per capire dove mi trovavo. Solamente dopo essere stata invasa da quel male terribile alle dita, realizzai di essere in gabbia, proprio come un animale in trappola, una gabbia invisibile, però.
Ero una preda, una preda di un mostro bellissimo.
Eric.
 
***
POV  Caspian
 
Il silenzio e l’apparente pace statica, che sembravano racchiudere la foresta come in una bolla di sapone, contrastavano con il tumulto di emozioni  che abitavano il mio animo e che a stento riuscivo a controllare, quasi non mi appartenessero del tutto; un tumulto in cui si agitavano, sovrapponevano e confondevano le sensazioni più discordanti.
Era come se nella mia anima si fosse voltato un vento impetuoso che avesse fatto scatenare una tempesta dentro di me, ed io mi trovavo proprio nel bel mezzo di quel vortice indomabile, annaspando senza orientarmi: l’inquietudine, la paura, la rabbia, l’agitazione sembravano onde alte decine di metri che si accavallavano tra loro per poi infrangersi con forza su di me, opprimendomi, scuotendomi e sottraendomi addirittura il respiro.
Le energie che stavo riversando unicamente per tenere a bada quei cavalloni indomiti cominciavano a scarseggiare per il resto del mio corpo: seguivo passivamente le orme di Peter, avanzando, ma senza che il mio organismo ne avesse piena coscienza. E man mano che proseguivo quella marcia quasi obbligata, sentivo le gambe farsi sempre più pesanti, tramutarsi in macigni di pietra che riuscivo a stento a sollevare.
Desideravo sedermi, sedermi per riprendere il fiato e il controllo di me stesso, del mio corpo e della mia mente, per cercare di porre fine alla tempesta che imperversava e …
Un fremito violento, una potente scossa elettrica attraversò bruscamente la mia schiena fino a giungere in una frazione di secondo al collo, andando poi a sostituirsi ad insistenti brividi che mi scossero con veemenza.
Riuscivo a percepire il sangue caldo ribollire nelle vene e pulsare per tutto il corpo. Lo sentivo, sì, lo sentivo arrivare fino alla testa: era come se riuscissi a vedere con i miei occhi l’abbondante flusso color rosso intenso insinuarsi fra le cellule nervose e procurarmi un dolore persistente alla testa, come se questa dovesse esplodere da un momento all’altro in mille frantumi.
E man mano che l’immagine del mio sangue si affacciava prepotentemente nella mia mente, avvertivo che questa stesse andando a prendere il posto del mio raziocinio. Eccola, la luce della ragione come una fiammella diventare sempre più fioca, più pallida… Non si sarebbe estinta, cercavo di convincermi, ottimista, mentre, tuttavia, un unico pensiero iniziava a tartassarmi come un manna.
Sangue.
Sangue.
Sangue.
Uccidere.
Il mio compito era quello di uccidere.
La dea Nemesi* mi stava sussurrando nell’orecchio, e io volevo, dovevo obbedire al suo ordine: uccidere, uccidere per vendetta.
Colui che aveva osato, che aveva osato guardare con quegli occhi carichi di bramosia, che aveva osato sfiorare le labbra della mia Susan, che aveva osato percorrere con quelle mani lerce la sua pelle nivea ed innocente, colui che stava per… che stava per…
Il solo immaginare cosa avrebbe seguito quel gesto già di per sé spregiudicato non fece altro che aumentare in modo esagerato il forte tremore delle mie mani, unicamente desiderose di afferrare una lancia, una spada, una balestra, solo per vedere scorrere il sangue di colui che aveva osato.
“Devo tornare indietro, devo tornare indietro” , questa la voce che riecheggiava nei miei timpani,  stordendomi e ipnotizzandomi.
Sì, aveva ragione, dovevo tornare indietro.
Bisognava che uscissi da quella foresta maledetta, riacciuffassi quel biondo strafottente e gliela facessi pagare per ciò che aveva fatto. E se si fosse giustificato che il tutto era durato una manciata di secondi… oh, l’avrei sistemato io, in una manciata di secondi.
Sangue.
Sangue.
Sangue.
Uccidere.
Non era stato sufficiente il calcio che gli avevo sferrato mentre i due Pevensie si preoccupavano di tirargli pugni in faccia e scostarlo dal corpo impotente della Dolce: avrebbe dovuto pagare con la vita, adesso.
Sangue.
Sangue.
Sangue.
Uccidere.
Eccolo. Lui. Era tornato.
Tra le immagini indistinte che si accavallavano alla mia vista sfocata, riuscii a intravedere la sua chioma bionda. Era voltato, ma ero certo si trattasse di lui: sì, non poteva che essere lui.
Anche solo il suo passo cadenzato era sintomo di strafottenza, di arroganza, di presuntuosità.
Dovevo ucciderlo.
D’un tratto, mi resi conto che stavo reggendo una spada affilata nella mia mano destra. Non mi domandai, alla vista dell’arma che impugnavo, come fossi riuscito ad ottenerla, ma realizzai soltanto che quella, quella sarebbe stata il mezzo, lo strumento con cui avrei troncato quell’infimo e insignante essere che si trovava davanti a me.
L’istinto omicida mi dettava di avanzare, così avrei potuto sorprenderlo di spalle e togliergli la vita senza che nemmeno se ne accorgesse.
Il tremore alle mani si stava placando: con una presa forte e ferma, avrei potuto trafiggere meglio l’avversario, non rischiando di sbagliare la mira a causa di quell’insolita alterazione che mi era presa.
Avrei potuto bearmi del penetrante odore del sangue del sergente: lo avrei colpito fino a quando avrebbe grondato quella viscosa sostanza rossa da tutto il corpo… e finalmente, finalmente avrei avuto la vendetta a cui anelavo.
Pochi passi ci distanziavano: compii un ampio arco con il braccio, sollevando la spada, per poi riabbassarla e…
“Caspian”
Susan.
Seguirono degli attimi di confusione totale: il vortice che si agitava– aveva sempre continuato a dimenarsi così tanto dentro di me? - iniziò ad acquetarsi improvvisamente, fino a quando le onde che mi figuravo nella mia mente scomparvero del tutto. Anche l’immagine del sangue, il desiderio smodato che avevo di quella sostanza che ora vedevo come disgustosa, si affievolì diventando meno nitida: e, finalmente, iniziai a riacquisire consapevolezza del mondo circostante.
Gli altissimi platani e sequoie, dalle fronde rigogliosissime, il buio, il silenzio, la totale immobilità e staticità di quel luogo… Susan, alla mia sinistra, Edmund, davanti a me, e… Peter.
Impallidii vistosamente rendendomi conto che il Re Supremo camminava a pochi passi da me, e si trovava esattamente di fronte, voltato.
Reclinai la testa leggermente verso destra.
Era ancora lì.
La spada con cui volevo uccidere il sergente che aveva aggredito Susan era ancora sospesa a mezz’aria, l’elsa impugnata con forza dalla mia mano, dalle nocche pallide per la presa fermissima.
Mi mancò il respiro per un attimo e lasciai cadere in quel frangente l’arma con cui stavo per uccidere Peter Pevensie: la lama compì una piroetta in aria, fino a conficcarsi nel terreno arido con un sordo tonfo che rimbombò per tutta l’inabitata foresta.
Mi portai le mani al volto, vergognandomi di me stesso, provando un ribrezzo indescrivibile per il gesto blasfemo che ero sul punto di compiere: come avevo potuto? Come era potuto accadere che perdessi a tal punto il controllo di me stesso e…
Non avevo mai visto di buon occhio Peter, dovevo pur ammetterlo. Anzi, lo avevo sempre considerato uno scocciatore di prim’ordine che si assurgeva a saccente e sempre perfettamente in grado di gestire e risolvere ogni genere di situazione con i suoi soli mezzi… e non potevo nemmeno negare che l’idea di togliermelo di torno ogni tanto non mi sarebbe dispiaciuta… Ma certamente non sarei mai stato in grado di ucciderlo. Mai.
Mi coprivo il volto perché non volevo vedere, non volevo vedere quella spada maledetta, non volevo vedere Peter, non volevo vedere … Susan.
Susan, colei che mi aveva fermato giusto in tempo prima che scaraventassi la mia ira e la mia rabbia sul Magnifico. Non osavo togliermi le mani dal volto, non osavo incrociare i suoi occhi color cielo con i miei, non avevo il coraggio di assistere alla sua reazione.
E rimanevo lì, in piedi, immobile, i palmi delle mani pressati sul viso a coprirmi gli occhi, la testa che si agitava convulsivamente a destra e a sinistra, quasi a non voler ammetterlo persino lei, lei che era stata la promotrice del mio gesto, quasi a non volerlo riconoscere, a discolparsi, accusando di ciò chissà quale altra forza misteriosa.
E avrei continuato così per un tempo molto lungo, se non avessi sentito, dopo poco, un soffice tocco sopra le mie nocche, delle mani che, delicatissime, scostavano le mie. Opposi resistenza in un primo momento, immaginando a chi appartenesse quel tocco morbido e quasi magico, ma poi fui costretto ad abbandonare il mio intento, lasciando che lo sguardo della Dolce si posasse sul mio.
Non vidi in quegli occhi del colore del turchese la rabbia e la severità che mi aspettavo: piuttosto, perplessità e anche preoccupazione.
“Caspian, che cosa c’è?”, sussurrò a un soffio dal mio viso.
L’esitazione e il dubbio che avevo letto nelle sue pozze chiare passò, dopo quella semplice e inequivocabile domanda di Susan, nei miei. Non capivo: forse Susan non si era resa conto di quanto stessi facendo poco prima che lei avesse chiamato il mio nome?
Farfugliai qualcosa a proposito del sergente biondo, della spada che mi ero ritrovato in mano senza sapere come, e avrei continuato con quella sfilza di frasi insensate, se non mi avesse bisbigliato un dolcissimo “E’tutto a posto”, prima di prendere la mia mano nella sua, invitandomi a seguire Edmund e Peter. I due fratelli non si erano accorti di nulla e, ignari, proseguivano la loro marcia, addentrandosi nel buio della foresta.
Mi svincolai dalla presa della Dolce, lasciandola sorpresa, e rimasi fermo dove mi trovavo, i piedi saldamente ancorati al terreno, la testa che aveva ripreso a ondeggiare freneticamente da destra verso sinistra.
“Tu non capisci, non capisci! Sono un mostro…” le sussurrai, mentre lei mi veniva incontro, cercando di rassicurarmi.
“Stavo per uccidere tuo fratello… “ mormorai dopo alcuni istanti di silenzio, senza riuscire a guardarla negli occhi.
Seguì un silenzio tombale che mi sembrò protrarsi per anni. Forse il tempo aveva deciso di fermarsi in quei secondi, per farmi pesare ancora maggiormente quell’attesa sfibrante, forse…
“Raggiungiamo gli altri” mi disse. Percepii la sua voce incrinarsi, mentre concludeva la frase, e mi prese una tremenda morsa al cuore, un dolore atroce e acuto che avvertii proprio all’altezza del petto. Mossi le labbra nel tentativo di farfugliare qualcosa da replicarle, ma lei mi aveva già voltato le spalle e aveva iniziato a camminare in direzione dei suoi fratelli, lentamente, però, forse nella speranza che la raggiungessi in poco tempo.
Prima di correre per riuscire ad affiancarla, osservai con sguardo ostile l’arma piantata ai miei piedi, e decisi di riprenderla, nonostante fosse ancora metaforicamente impregnata del sangue che stavo per versare. Chiusi gli occhi e cinsi l’elsa in un pugno, fino a sollevarla, ma solo in quei pochi secondi venni scosso nuovamente da quel fremito iroso, che mi aveva pervaso non appena avevo perso il controllo della mia mente. Eccola, quella scossa maledetta, la causa del delitto che stavo per compiere.
Scaraventai con foga l’arma ed iniziai la corsa per raggiungere Susan, che, nel frattempo, mi stava aspettando pochi metri più avanti.
 
***
 
“Non eri padrone di te stesso… Sono sicura… Che non lo volevi fare”, proruppe Susan dopo quasi un’ora di silenzio, un’ora trascorsa unicamente ad avanzare esplorando i meandri della foresta e ad ascoltare il mio dettagliato racconto di quanto mi era successo prima.
Non aveva proferito parola, dopo avervi domandato di descriverle cosa mi era accaduto: accolsi con gioia la sua proposta, nutrendo la speranza di potermi così riscattare dalla condizione in cui mi trovavo non appena Susan mi aveva voltato le spalle: condannato a non ricevere il perdono della fanciulla padrona del mio cuore. E per quanto mi desse conforto confidarmi con lei, rivelarle apertamente la paura che mi aveva attanagliato con una stretta dolorosa, nello stesso tempo mi trovavo incatenato, inerme, la spada di Damocle sospesa sopra la gola: tutto sarebbe dipeso dal giudizio di Susan, colei che avrebbe potuto concedermi la grazia della beatitudine, ma anche colei che avrebbe potuto togliermela, con una sola parola, facendo precipitare su di me quell’arma e annegandomi in una pozza di dolore.
Misuravo e soppesavo continuamente le parole che le rivolgevo, il tono con cui le proferivo, i gesti che accompagnavo per meglio spiegarmi: tutto era oggetto di un intransigente controllo. Non volevo addossare le colpe del mio comportamento unicamente alla forza che si era impadronita della mia mente, sottraendomene il controllo, tuttavia non era nemmeno mia intenzione che il parere di Susan fosse troppo negativo, che mi considerasse come un apprendista assassino e per giunta pazzo.
Ma forse in quei minuti di angoscia e preoccupazione avevo dimenticato quale fosse l’attributo che le avevano affibbiato a Narnia, la Dolce. E lei, rivolgendomi quelle parole in modo così delicato, con quella voce che sembrava un incantevole sinfonia, lei aveva finalmente impugnato l’elsa della spada di Damocle e l’aveva scaraventata via, lontano da me. Mi aveva perdonato.
“Grazie”, le mormorai realmente commosso, accompagnando quella semplice e spontanea parola con un altrettanto genuino sorriso, un sorriso carico di gratitudine e di riconoscenza.
Mi sorrise a sua volta, Susan, evitando però di incrociare troppo a lungo il mio sguardo, posato sulla sua angelica figura. Notai che l’attenzione che le stavo dedicando cominciava ad imbarazzarla e forse ad infastidirla (forse rivedeva nel mio sguardo quello bramoso e insaziabile del sergente?), e decisi quindi di focalizzarmi unicamente sul percorso.
Sembrava che stessimo procedendo sempre per lo stesso, interminabile tratto: gli alberi slanciati che si susseguivano avevano l’aria di essere tutti uguali e il panorama diventava quindi non solo pauroso e tenebroso ma ora anche ripetitivo e monotono. Certo, non si poteva affermare che la compagnia che mi era stata concessa in dono lo fosse altrettanto…
“E’da ore che camminiamo, Peter! Penso che fermarci converrebbe, sarebbe utile sia alla nostra salute fisica sia a quella mentale!”
Susan cercò di convincere nuovamente suo fratello a fermarsi: lei si era dimostrata da subito  favorevole a qualche sosta, “serviva a recuperare energie”, sosteneva, ma il biondo non sembrava essere della sua stessa opinione. A detta sua, dovevamo avanzare fino a quando non fossimo stati stremati, fino a non svenire inermi al suolo, perché dovevamo necessariamente rintracciare il segnale luminoso che ci aveva condotti in quel luogo il più presto possibile. In un primo momento, la Dolce non aveva obiettato molto al fratello, ma adesso, forse, la stanchezza cominciava a diventare insopportabile, e la sua esigenza di far fronte al Magnifico inevitabile.
“L’ho studiato, era scritto a grandi lettere nel mio libro di scienze!” ritenne necessario aggiungere la ragazza, augurandosi di trovare un valido sostegno nel testo scolastico da lei citato. Ma, evidentemente, si sbagliava, perché a Peter non sembrò che questo particolare potesse avere grande importanza e replicò alla sorella con un secco ed inequivocabile “NO”, scandendo con enfasi le due lettere che componevano la perentoria affermazione.
Susan sbuffò sonoramente, incrociando le braccia sopra il petto, innervosita dall’irremovibilità di Peter. “Sono stanca!”, ribadì per l’ennesima volta, tentando di usare un’intonazione della voce che rispecchiasse la condizione da lei denunciata a gran voce.
Ma se a Peter quell’affermazione non sembrò proclamare nulla di nuovo, il mio cervello si svegliò, sentendo quella frase sul suo affaticamento: quelle due parole fecero balenare nella mia testa un’idea che in una manciata di secondi ritenni assolutamente geniale, e, anzi, fui non poco meravigliato della lentezza che avevo avuto per rielaborare una simile soluzione al suo problema.
“Ti porto in braccio”
Semplice. Chiaro. Con un tono che non ammette repliche. Un ordine, in poche parole.
Susan indugiò un attimo alle mie parole, fermandosi del tutto, un’espressione sul suo volto che oscillava fra lo smarrimento e lo sbigottimento, mentre tentava di elaborare quanto il suo apparato acustico era riuscito a captare.
Ma io non avevo affatto intenzione di darle il tempo sufficiente perché mi comunicasse cosa ne pensasse della mia brillante – e inaspettata, a giudicare dal suo volto – proposta: conoscendola, sarebbe stata capace di declinare il mio invito – che di invito non aveva proprio nulla - adducendo qualche banale scusa infondata, e ciò non doveva assolutamente accadere.
Senza un attimo di esitazione, la affiancai facendo solo un passo laterale, mentre con un gesto fluido cinsi la sua vita sottilissima con il mio braccio, per poi far scorrere l’altro fino all’altezza delle ginocchia, curvandomi leggermente verso il basso. Con uno slancio, sollevai le sue gambe da terra e la misi infine in posizione orizzontale, sistemandomela meglio tra le mie braccia e avvicinandomela al petto. Fui talmente rapido e preciso nel compiere quella serie di meticolose operazioni che Susan non sembrò cogliere l’articolato processo che precedette il ritrovarsi in un baleno vicinissima a me.
“Ma Caspian, che stai facendo?”, mi domandò, ancora sconvolta ed attonita, un vistoso rossore che le tingeva le gote un po’accaldate probabilmente per l’imbarazzo.
“Rimettimi giù! Sono troppo pesante, e poi tu sei stanco, e … “
Cercava di divincolarsi tra le mie braccia, ancora ignara di quanto la mia presa fosse ferma e salda, senza sapere che ogni suo movimento per liberarsi e per sottrarsi a me non faceva altro se non favorire l’avvicinamento dei nostri corpi.
Quando finalmente si rese conto di non avere più via di fuga e constatò amaramente come i suoi tentativi fossero vani, incrociò con uno sbuffo le braccia al petto, stavolta stizzita più per le mie risa piuttosto che realmente scocciata dall’idea che avevo avuto.
Continuai a ridacchiare di sottecchi per un altro po’, interrotto ogni tanto solo da qualche occhiata fintamente gelida di Susan, che seguitava a scuotere la testa e a sospirare.
“Riposa, dai”, le sussurrai poi ad un soffio dell’orecchio, il sorriso sempre dipinto sulle mie labbra.
“Come faccio se continui a ridere?” replicò lei, fulminandomi con il solito sguardo, che mi proponevo di imparare a decifrare e scrutare sempre meglio.
“Non rido più, promesso” le assicurai, accompagnando quell’ impegno con un’espressione seria e solenne che suscitò le risa della Dolce, la quale sembrò convinta della mia parola: si sistemò infatti meglio fra le mie braccia, voltando la testa e appoggiandola lentamente al mio petto, proprio lì, dove si trovava il mio cuore.
“Scusami e… grazie”, mi bisbigliò poi, alludendo probabilmente al comportamento poco cortese che aveva avuto negli ultimi giorni passati nel campo.
Ma io quello l’avevo già dimenticato.
Riuscivo a percepire come finalmente cominciava a rilassarsi: il suo corpo si era fatto meno rigido e i suoi respiri più lenti e regolari ed anche il rossore che aveva colorato le sue guance era quasi del tutto scomparso.
Era bellissima lì, così, dolcemente raggomitolata tra le mie braccia. Sembrava un cucciolo abbandonato che aveva bisogno di protezione ed io, in quel momento, ero proprio ciò di cui lei necessitava.
E non mi meravigliai che dopo poco, chiusi gli occhi, si abbandonò ad un pacifico sonno ristoratore, a cui anelava da tanto tempo dopo la scomparsa di Lucy.
E dopo tutto quel tempo in cui avevo aspettato un momento simile, riuscii a sentirla finalmente mia.
 
 
 
*La dea Nemesi: espressione metaforica (mmm…) con cui si indica la Vendetta.
 
Angolo delle autrici (che paroloneeee! xD)
*E dopo un mese di libertà assenza, ritornano Federica e Elena lanciando zucchero e barattolini di miele a volontààà*
Ehilàààà, bella gente del fandom di Narnia! Masssalve!
Che piacere rivedervi così presto xD Visto come siamo state brave ad aggiornare solo dopo un mese e quattro giorni?! Va bene, va beneee, non è poco, ve lo concediamo, ma possiamo dire a nostra discolpa – come abbiamo già comunicato ad alcuni di voi nelle risposte alle recensioni – che siamo state in vacanza e quindi non abbiamo potuto usufruire del computer per dedicarci alla nostra tanto amata attività. In compenso, però, al mare ci siamo fatte delle belle nuotate e, esplorando il meraviglioso fondale marino, abbiamo trovato tanta ispirazione e… tanto zucchero e miele! xD Ma d’altronde, lo dice anche Sebastian nella celeberrima canzone de “La sirenetta”! (“In fondo al maaaaar, in fondo al maaaaaar, l’ispirazione, zucchero e miele si troveraaaan! xD xD) … ! xD Ecco a proposito dimenticavamo di comunicare ufficialmente che in fondo al mar ci abbiamo pure lasciato quel poco cervello di cui disponevamo, quindi d’ora in poi dovremo farne a meno (si sarà già notato, ci sa tanto xD)
Cooooomuuuunque, non perdiamoci in chiacchiere! L’importante è che adesso siamo tornate e siamo cariche di tanta allegria, felicità e buon umore! =)
Prima di tutto, un avviso molto importante: d’ora in poi porteremo avanti la fic in UN SOLO ACCOUNT, QUELLO DI EleMasenCullen, dal momento che l’amministrazione ha eliminato la copia contenuta nell’account di Freddy Barnes, poiché si può disporre di una sola copia nel sito anche se la storia è a quattro mani. Per le recensioni che ci avete lasciato in quell’account, non temete, riusciremo a recuperarle e recupereremo anche le risposte ai commenti che vi dobbiamo! Ci scusiamo con tutti del disagio causato da quest’eliminazione, sperando vivamente che continuate a seguirci anche se la fan fiction sarà unicamente su questo account ^^
Passiamo invece al capitolo, ora. Duuuuunque, il titolo: Beautiful monster. Okay, non è molto azzeccato, lo sappiamo (come d’altronde quello dello scorso capitolo, infatti ci proponiamo di cambiarlo, perché.. beh, perché non c’entra un tubo .__.), però eravamo troppo partite da quest’idea quindi ci dispiaceva abbandonarlo! xD E poi, vorremmo precisare che anche Caspian nel suo Pov si definisce mostro, per il gesto brillante  scellerato che stava per compiere, perciò lui sarebbe un Beautiful monster pure luiiiiii! xD
Va beh va beh. Detto questo, speriamo che il Pov Caspian si sia capito, perché è molto confusionario, ma volutamente, dal momento che, come si spera si sia intuito, il nostro amato re non era molto padrone di se stesso dopo aver messo piede nella foresta… Bah, stranezze della vita. Per non parlare della spada, naturalmente. Ma non corriamo troppo, ogni cosa a suo tempo *si atteggiano a mo’ di piccole Aslan* … In ogni caso, se doveste aver perso qualche passaggio relativo a quanto è successo, non esitate a chiederci spiegazioni, ve le daremo molto volentieri! =)
Inoltre, Lucy. Eeeeeggià, la nostra piccola Valorosa non è morta, a quanto pare. Per ora, si intende. *modalità sadiche: on* … Perdonate anche  se la parte dedicata a lei vi appare un po’confusionaria, vi abbiamo voluto dare solo input che approfondiremo meglio nel corso della storia. ^^… E che dire poi del nuovo personaggino che è comparso per la prima volta in questo capitolo?! Non sottovalutatelo perché ritornerà ancora, sì sì… Comunque, nonostante questa nuova comparsa, non riteniamo necessario aggiungere l’informazione “Nuovo personaggio” nella scheda iniziale della nostra fic, dal momento che si limiterà ad essere un personaggio secondario, i protagonisti rimangono sempre i cari Pevensie e quel bel pezzo di Re. xD
Abbiamo scritto un sacco quest’oggi, ma prima di lasciarvi in pace  ci tenevamo a ringraziare tutti coloro che ci recensiscono, quelli che hanno aggiunto la nostra fic alle preferite, seguite e ricordate.  Dulcis in fundo, volevamo dedicare questo capitolino alle nostre TheGentle95 e LadyVampira93, per ringraziarvi di tutto il sostegno che ci avete dato fin ora con i vostri commenti e ovviamente perché siete le nostre più sfegatate fan della coppia Suspian, con la speranza che la scena fra i due piccioncini a fine capitolo vi sia piaciuta =)
Grazie mille a tutti della pazienza, al prossimo capitolo!
Un bacione,
Federica e Elena <3
 
PS: Credits per il titolo a Ne-Yo, Beautiful Monster.
^^
   
 
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