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Autore: chaplin    05/09/2011    2 recensioni
Il bello dell'essere bimbi stava nell'ebbrezza costituita da tutte quelle cose che apparivano nuove e fuori dal comune, quei venti contrastanti che s'abbattevano contro gli statici schemi che gli adulti propinavano ai loro figli. Ogni piccola novità era un segnale libera tutti, un altro passo verso l'essere giovani.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Cross-over, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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2.
“L'estate del razzo”

 

Ricordava con un sorriso quel tema scolastico che gli avevano assegnato in quinta elementare.
Descrivi il tuo eroe; un classico, se frequenti le elementari.
Certo, ricordava benissimo... Dal protocollo di ogni studente sgorgava quella dormiente forza dell'immaginazione che ardeva all'interno delle loro menti, ansiose di mostrare alla luce del sole attraverso parole e sogni quel che nel lungo sonno erano riuscite a coltivare. Ansiose, perché tutto il mondo s'era prostrato ai loro piedi, in attesa. E in quel momento il mondo era racchiuso nell'austera ma allo stesso tempo rassicurante presenza della maestra che, durante lo svolgimento del tema, accompagnata dal ticchettìo ossessivo della penna che segnalava la presenza di una goduta impazienza, aspettava solo di leggere, leggere, leggere.
Tanti piccoli Capitan America e Superman – e occasionali e inaspettati Winston Churchill, colorati frutti delle menti di alcune vittime di curiosità precoce – s'erano dimostrati dei degni soggetti di temi degni di nota: personaggi di fumetti, eroi internazionali, cantanti americani, persone caratterizzate da quel carisma che tutte le cose irraggiungibili possiedono... Ma tra tutti quei Capitan America e Superman – e Winston Churchill – un piccolo grande uomo, semplice nel suo figurino mingherlino dotato di
lineamenti spigolosi non del tutto affascinanti e inflessibile come il marmo, aveva dimostrato superpoteri che nessun altro possedeva.
Quel piccolo grande uomo era l'eroe di un alunno che amava farsi notare con le sue pacate rispostacce sarcastiche e intelligenti e i suoi silenziosi dispetti indiretti: un certo John Baldwin, terzo nome sul registro di classe, compreso tra la solare e chiassosa Mariah Baldroy e il tozzo e vulnerabile Terry Bennet.
John Baldwin coglieva la scintilla dell'eroe nel padre, a cui probabilmente mancava giusto la completa fiducia in sé; un uomo semplice, reso bruttino dalle fatiche che la vita gli aveva imposto, sciupato nell'aspetto fisico e ricco nel sapere, pieno di complessi, pieno di debiti esistenti e inesistenti. Per John Baldwin era semplicemente perfetto nella sua imperfezione.
L'insegnante aveva poi notato un piccolo dettaglio simpatico (o uno scherzo di cattivo gusto, a seconda che il lettore fosse una persona qualsiasi o lo stesso signor Baldwin): a John Baldwin piaceva essere onesto nei dettagli. E se da una parte il signor Baldwin era l'ordinario padre un po' apprensivo e paranoico, dall'altra era un folle. Ma solo se si parlava di musica.
L'onesto scolaro aveva riportato parola per parola uno dei lunghi discorsi di suo padre che ricordava quasi a memoria, che faceva tipo:
“Cos'è la musica? Qualcosa di diretto, che colpisce e affonda, pur mantenendo le distanze dalle forme d'arte convenzionali – che si rassegnano di esser convenzionali e si scrogiolano nel vuoto che offre un foglio bianco o, peggio ancora, che non si vogliono proprio rassegnare e arricchiscono il nostro mondo di, perdona i miei modi scurrili, merda.
Ma quindi, cos'è la musica? Un mezzo di comunicazione, ma soprattutto una forma d'arte. La più accessibile e, ammettiamolo, la più affascinante. Affascinante, perché riesce ad attrarre le masse con una facilità che potrebbe suscitare dubbi: se la musica sia nata per vendere? No, non penso sia andata così. Noi esseri umani siamo partiti con l'essere scimmie, John. Ben presto abbiamo sentito la necessità di alleviare i dolori che ci causavano le perdite e le carestie, pensare che ci fosse qualcosa oltre quello che i nostri sensi ci permettono di percepire: così, siamo finiti per creare degli dei. E sai come celebravamo i nostri dei?
Lo sai? Gli dedicavamo delle danze! Ballavamo come pazzi attorno al fuoco, per tutta la notte, fino a quando sentivamo il gelo dell'inverno mescolato alle ceneri che volteggiano nell'aria a loro circostante che si infiltrava fin dentro le nostre vene, fino a quando diventavamo una cosa sola con la musica e i tamburi iniziavano a suonare al ritmo delle tempeste e le lacrime dei nostri dei si riversavano copiose sulle nostre terre, offrendoci finalmente conforto e gioia.”
Anche se dice che il rock 'n' roll è solo roba adolescenziale, di passaggio. Onestamente non gli credo, aveva scritto. Ho come l'impressione che, tra un po' di anni, quando sarò padre pure io, metterò una stazione radio di rock 'n' roll per portare i miei figli a scuola, come papà mi ha sempre fatto ascoltare il jazz. E come il jazz, sono sicuro che il rock 'n' roll rimarrà per sempre nel corso degli anni; sono sicuro che il nome di Eddie Cochran comparirà nei libri di storia, che la gente ascolterà Chuck Berry in auto anche tra quaranta, cento, mille anni.
Mio padre non ama il rock 'n' roll, ma ama la musica. Grazie a lui ho capito l'importanza che la musica ha nella vita quotidiana di ognuno di noi, nella società, nella formazione della persona.
Mio padre mi ha anche insegnato come evitare i pomodori alla fine di una brutta esibizione, mi ha insegnato a sputare il più lontano possibile e, soprattutto, mi protegge da tutti i mostri che stanno in agguato fuori dalla porta di casa. Sguaina la sua spada e
zac!, li fa fuori! L'ho detto che mio padre è un eroe.
Superman farebbe meglio a tremare.
Fine!
P.s.:
Per favore, non mi dia l'insufficienza per via della parolaccia, la prego! E' tutta colpa di mio padre che parla così, giuro!

Alla fine aveva preso un otto con tanto di più. Un risultato soddisfacente. Per un secondo, a John parve di tornare bambino e rivivere quei momenti di incredibile gioia che ogni studente prova quando prende un voto alto, il suo cuore ricominciò a battere forte, con orgoglio; tornò a stare in bilico sul suo piedistallo personale, ridendo, godendosi quel fugace ritorno all'età degli infanti.
Questo fino a quando il telefono squillò. Fu come ricevere uno sgambetto. Cadde.
Gli venne da piangere per il dolore – e anche per qualcos'altro che non avrebbe mai ammesso, in maniera da preservare intatto il proprio orgoglio – ma si trattenne – sempre per lo stesso motivo del punto indicato in precedenza – tirando su col naso e tenendosi la testa tra le mani.
Piangere o non piangere?
Ci pensò su.
Alla fine, decise di non piangere, ma non volle nemmeno rimanere lì,
impalato come un baccalà.
Riaprì gli occhi. Si guardò le scarpe – nere come il catrame, tirate a lucido da poco; sembravano le scarpe di un soldatino di latta. Secondo l'orario che aveva consultato prima di tornare a casa, la partenza dal capolinea dell'ultimo bus delle quattro del pomeriggio era previsto alle cinque meno un quarto. Mancava una decina di minuti. La stazione non si trovava lontana da casa sua; l'aveva sempre considerato un previlegio, ora più che mai.

Bene. Si infilò una giacca a quadri e pochi attimi dopo si ritrovò a bordo del veicolo, confuso.

Come aveva previsto, non c'erano posti liberi.
Mentre la stazione si trovava accanto a casa sua, il capolinea era piuttosto lontano. Qualcosa tipo
l'altra parte di Londra.
John si sentiva a disagio a stare là in piedi, appeso alla presina in alto come un salame. Era pure alto rispetto alla media della gioventù inglese del 1960,
qualcosa di orrendo... Sperava che nessuno notasse che indossava i vestiti di suo padre, di due taglie più grosso del figlio; sperava che nessuno lo guardasse, ridendogli alle spalle e additando contro i suoi capelli corti e chiari. E sapeva benissimo che tutta quella gente se ne sbatteva altamente della sua presenza, dei suoi vestiti e della sua acconciatura, e cercava di alleviare quell'improvviso panico ripetendosi sottovoce quella rassicurante nenia, ma la sua gamba destra non voleva proprio finirla di tremare. Eppure lui era sempre stato il primo a sbattersene di tutte queste patetiche paranoie...
L'autobus andava lentissimo.
Ci mancava questa! Si morse un'unghia.
Aveva fretta ed era in ritardo, ritardo,
ritardo!
Gli sfuggì un gemito sofferto, generato da un'ira che stava faticosamente trattenendo; tornò la voglia di piangere, ma stavolta non fece nulla per reprimerla. Quindi, si mise a piangere in silenzio. Una lacrima, due lacrime, tre lacrime... In pochi secondi, le sue guance si inzupparono, e sentì una fitta ai zigomi.
Le automobili che vedeva al di fuori dai finestrini della vettura erano
così veloci – li superavano in un batter d'occhio...
“Ehi,” disse all'improvviso una voce alle sue spalle, e una mano lo prese per il manico della giacca.
Si voltò, incontrando uno sguardo stanco ma preoccupato, incorniciato da un sorrisino che provava a essere cordiale.
“Ehi,” rispose John, cercando di ricambiare il sorriso.
“Stai piangendo?”
“Più o meno.”
Storse le labbra.
Più o meno? Cosa cazzo sto dicendo...?
“Prendi questo,” disse l'altro, porgendogli il bicchiere che teneva in mano. “Ti farà stare meglio.”
John tentennò, ma alla fine accettò il drink, mordicchiandosi le labbra. Avvolse la cannuccia tra le sue labbra e bevve un sorso. La bevanda calda entrò immediatamente in circolo nel suo corpo e accese immediatamente i suoi sensi assopiti, macchiandoli.
Era caffè. Si era dimenticato di berlo, quella mattina.
“Grazie,” bofonchiò, restituendogli il bicchiere. Gli tremava la mano.
“Di niente.” Il ragazzo riprese il bicchiere e tolse la cannuccia e il coperchio di plastica, prendendo un sorso direttamente dal bicchiere di carta, e distolse lo sguardo dall'altro. Un attimo dopo parve risvegliarsi da una sorta di trance, come se si fosse ricordato di qualcosa che aveva dimenticato di fare, quindi si voltò di nuovo verso John e gli chiese: “Va meglio?”
“Sì.”
“Ne sono felice,” disse il ragazzo, stavolta rivolgendogli un vero e proprio sorriso, largo e luminoso, che gli restringeva gli occhi e formava pieghe sulle sue guance. “Ma come mai stavi piangendo, se posso sapere?”
“Mio padre ha avuto un incidente.”
John si morse di nuovo il labbro. Forse non avrebbe dovuto dirlo.
Il sorriso del ragazzo scomparve com'era apparso, e al suo posto si formò un'espressione tra il confuso e il dispiaciuto.
“Amico, mi spiace.”
“Fa niente.”
“Sai almeno se sta bene?”
John lo guardò; sembrava davvero interessato.
“Penso di sì... Non sta in coma né tanto meno è morto, insomma,” disse, con una risatina amara.
“Meno male.”
“Già.”
Si scambiarono un'occhiata, poi un sorriso.
Il ragazzo, in quel momento, si voltò a guardare fuori dalla finestra e si affrettò a prenotare la fermata pigiando sul pulsante più vicino a lui. Tirò fuori delle sigarette, ne prese una dal mazzo e la ficcò in bocca, tenendola ferma tra i denti mentre rimetteva la confezione in tasca. Rialzò gli occhi – azzurri e chiari come pochi – su John, quasi con imbarazzo.
La vettura si fermò e le portiere si aprirono per lasciare che i passeggeri scendessero.
“Beh, amico, io devo scendere,” disse il ragazzo, mettendo una mano sulla spalla di John. “Spero che tuo padre guarisca presto.”
“Lo spero pure io,” mormorò John, sospirando.
“Salutalo anche da parte mia.”
“Ok...”
“Allora ciao!”
“...
ciao...” provò a dire John, ma il ragazzo era già sceso.
John rimase sconcertato per un paio di secondi. Poi, un sorriso fiorì tra le sue labbra. Il bus lasciò la stazione.

***

Jeff odiava quel maledetto professore di pittoriche.
Un vecchio pervertito sessualmente frustrato – scapolo a sessant'anni, e si poteva capire il perché – che sicuramente se lo strapazzava mentre correggeva i nudi che gli portavano i suoi studenti. I più accurati nei dettagli ricevevano sempre mezzo voto in più – un trucco comune: bastava aggiungere due o tre peletti in più nella zona del pube.
Non che lo odiasse per questa ragione – anzi, era una figata unica. Aveva iniziato a odiarlo da quando gli aveva dato del succhiacazzi dopo avergli sequestrato la chitarra.
Pittoriche non c'era mai alla prima ora, ma quella volta la professoressa di lingue non c'era, quindi era venuto quel vecchio morto di figa bavoso a sostituirla; di solito i professori gli sequestravano la chitarra dicendogli che non era permesso portare a scuola oggetti che non riguardano il programma scolastico, e stava bene, oramai c'aveva fatto l'abitudine. Quel bacucco rincitrullito invece gli aveva strappato dalle mani la custodia e s'era messo a insultarlo dandogli del
deviato succhiacazzi come tutte quelle altre teste di cazzo a stelle e striscie che rovineranno questa generazione già maledetta (parole testuali).
E mentre mezza classe reprimeva con fatica l'ira e l'altra metà rideva senza capire, Jeff s'era ripromesso che un giorno si sarebbe vendicato. Per lui, per tutti gli altri. Per l'onore del blues.
In quel momento, quel cazzo di professore stava là dietro alla cattedra a sfogliare un giornale – sicuramente un pornazzo camuffato – tenendo i piedi sulla superficie del mobile, con davanti una ciotola riempita di frutta. Natura morta. Jeff avrebbe preferito vedere
morta un'altra cosa, una cosa lardosa e viscida e fascista e impotente – un risolino – posta proprio dietro alla ciotola, coi piedi luridi poggiati sul tavolo...
Bussarono alla porta, e il professore alzò gli occhi dalle pagine del quotidiano, accigliandosi.
La signora entrò non appena la voce stridula del professore le diede l'avanti. Disse che “C'è una visita per il signorino Geoffrey Beck, giù nell'atrio... E' tuo fratello, figliolo,” rivolgendo a Jeff un cordiale sorriso. (Conosceva quella signora. Una volta era caduto dalle scale ed era stata lei a disinfettargli la ferita: da quel momento in poi, si era affezionata. Meglio per lui.)
Jeff storse le labbra. Non aveva mai avuto un fratello e sperava di non averne mai – ai suoi nervi, una sorella bastava e avanzava – ma stette al gioco e si diresse verso la porta, consapevole degli occhi ostili del
lardoso viscido fascista impotente che lo seguivano.
Prima di uscire dalla stanza, sentì un impulso stringergli le viscere. E lo liberò con piacere.
“Dopo ci dica quanto erano
grosse le poppe della coniglietta del mese di Playboy, prof.!” urlò.
Ridendo a crepapelle, corse lungo il corridoio più velocemente possibile, seguito dalle urla del vecchio professore che si facevano sempre più lontani.

Forse l'aveva combinata grossa.
In ogni caso, sapeva comunque di poter contare sull'appoggio della signora che l'aveva chiamato, che sicuramente avrebbe preso le sue difese nel caso il professore avesse deciso di spifferare tutto al preside, magari sputacchiando dappertutto, urlando con quella vociaccia insopportabile che si ritrovava conficcata nella sua gola fin dalla nascita. Andava tutto bene.
Scese le scale contando i suoi passi, fino a quando il suo piede toccò l'ultimo gradino e si ritrovò nel corridoio che portava all'atrio.
Percorse lentamente l'atrio, ansimando per la corsa improvvisa. La luce grigiognola del sole inglese entrava con grazia nell'edificio, e Jeff riusciva a vedere attraverso i raggi bianchi i granelli di polvere sospesi nell'aria. La leggerezza di certi materiali l'aveva sempre affascinato. Camminando, si chiese se fosse possibile trasmettere un senso di leggerezza materiale attraverso il suono di una chitarra elettrica, se fosse possibile regolare il peso del suono di una corda che vibra... Forse dipendeva in parte dagli amplificatori utilizzati...
Arrivato all'atrio, spalancò gli occhi dalla sorpresa.
Al centro era posto un figurino magro e delicato, con le mani congiunte alla schiena e l'attesa negli occhi piccoli e verdi.
Il ragazzo sorrise non appena vide Jeff, mentre Jeff rimase là davanti a fissarlo incredulo con le labbra socchiuse.
“...
Page?” mormorò.
Jeff!” esclamò l'altro, avvicinandosi a lui. La sua vocina nasale e sottile lo fece sussultare; era strano e allo stesso tempo piacevole, risentirla. “Annetta mi ha informato sulla scuola che frequenti...”
“Quella
gallina!” proruppe Jeff, infastidito. Scosse la testa, portandosi le dita alla fronte. “Che poi a lei non glien'è mai fregato niente della chitarra e del blues e del jazz e di tutta quella roba là... Voi bei faccini fate sempre degli effetti strani sulle femmine...”
Si interruppe, perché Page si era messo a ridere.
Ride come una ragazzina, pensò.
“Cazzo ridi? Piuttosto, dimmi cosa ci fai qui... E possibilmente, dopo avermelo detto, squagliatela il più presto possibile, prima che qualcuno ti veda... con me.”
Aveva assunto quel tono acido e seccato che a lui piaceva tanto utilizzare, ma stavolta vacillò. In fondo doveva ammettere che non era del tutto infastidito da quell'inaspettata visita, anzi. Dopo quella chiacchierata della scorsa domenica, gli era venuta voglia di chiedergli altre cose.
Page non sembrava nemmeno offeso o stupito di fronte alla sua ostilità, sembrava più che altro divertito.
“Sono venuto per invitarti a casa mia...” disse Page, sorridendo con un filo di malizia, “... e stavolta, solo tu.”
Jeff sogghignò.
“Solo io?”
Page rise di nuovo.
“Solo tu.”
Quindi... significa che posso venire da te senza trascinarmi dietro mia sorella?”
“E' quello che desideri, no?” Page lo guardava con una luce indecifrabile negli occhi, e Jeff non riusciva a capire se stesse insinuando qualcosa o se fosse semplicemente ansioso di invitarlo da lui. “Poi, se vogliamo diventare amici, prima o poi dobbiamo provare a starcene per conto nostro.”
“Già.”
“Già.”
Si guardarono.
Jeff attendeva.
“Beh?”
Page sembrava stupito.
Beh cosa?”
“Beh? Non mi chiedi una conferma? Se voglio venire da te, insomma.”
Jeff ebbe un brivido quando vide un sorrisino comparire sulle labbra sottili dell'altro. Non riusciva a capirlo.
“Non ne ho bisogno,” fu la risposta, “perché so già che vuoi venire da me.”
Detto questo, Page uscì dall'atrio tenendo la tracolla ben stretta al suo fianco.
L'atrio divenne di nuovo deserto, avvolgendo Jeff con la sua ampiezza che diventava man mano sempre più irreale.

 

 


In un ritardo abbastanza notevole, ecco un nuovo capitolo! Sto iniziando a scrivere il prossimo, quindi spero solo di non tardare troppo al prossimo aggiornamento. Dovrei aggiornare pure le altre storie che sto scrivendo, ma ok, sono sempre stata così con le longfic – spero solo di concluderle, 'ste longfic, stavolta. Non che sia un gran che, questo capitolo, ma mi sono divertita a scriverlo, soprattutto perché entra in scena Jonesy, e io amo Jonesy – come non amarlo? <3 Dal prossimo capitolo, però, ho intenzione di parlare più su Beck e Page; gli altri personaggi torneranno presto, anche perché, per una volta, non ho voluto incentrare una fanfiction solo sul genere slash. Su questo capitolo, vorrei precisare che non so se il padre di Jonesy ha mai avuto un incidente, ma spero vivamente di no. Poi non penso che suo padre fosse stato addirittura “l'eroe” di suo figlio, ma ho voluto un po' giocare con la fantasia, come sempre. Per la seconda parte, mi divertiva pensare a un Beck improvvisamente dispettoso che provoca il suo insegnante.
Mi limito a ringraziare ancora e di cuore le tre persone che hanno recensito la scorsa volta e scappo; alla prossima! ♥

  
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