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Autore: My Pride    08/09/2011    8 recensioni
«Quello è l’unico Sole che tu vedrai in avvenire, ma un millennio di notti sarà tuo per vedere la luce come nessun mortale l’ha mai vista, per rapirla dalle stelle lontane come se fossi Prometeo, un’illuminazione senza fine dalla quale comprendere tutte le cose».
Questa la promessa che mi era stata fatta. Questa la promessa che era stata in seguito mantenuta. E, Madre de Dios, quanto mi sarebbe piaciuto che non fosse mai stato così.
[ Miguel Rodríguez Point Of View ]
[ Spin off della storia «Under a bloody sky» ]
[ Prima classificata al contest «Il libro che avete amato» indetto da Miss Dark ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'St. Louis ~ Bloody Nights'
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Arkadia_1
[ Prima classificata al contest «Il libro che avete amato» indetto da Miss Dark ]

Titolo:
Arkadia: A story of blood and sorrow
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: One-shot
Genere: Generale, Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Nota1: Spin off della storia Under a bloody sky, facente parte della serie St. Louis ~ Bloody Nights. Essa verrà stavolta raccontata da un altro dei protagonisti principali della long fiction, ovvero Miguel Rodríguez.
Nota2: L’ultimo capitolo di questa storia si ricollega direttamente agli avvenimenti accaduti nella seconda parte della doppia one-shot Si Deus me relinquit.
Frase scelta: Armand il vampiro › Quello è l’unico Sole che tu vedrai in avvenire, ma un millennio di notti sarà tuo per vedere la luce come nessun mortale l’ha mai vista, per rapirla dalle stelle lontane come se fossi Prometeo, un’illuminazione senza fine dalla quale comprendere tutte le cose.
Avvertimenti: Vagamente nonsense, Accenni Slash
Introduzione: In un modo tutto mio, esattamente come aveva promesso Alberto di Domenico, ero stato in grado di vedere più di quanto non avrei mai potuto fare da mortale, acquisendo una conoscenza tale che mai avrei sognato di poter un giorno possedere, arricchendomi grazie a tutto ciò che avevo potuto assaporare con gli altri sensi che mi erano rimasti; avevo potuto così comprendere che il sole di cui Alberto mi aveva parlato altro non era che la consapevolezza dei secoli che mi erano passati dinanzi, tutto ciò che avevo imparato nel vederli scorrere come granelli di sabbia in una clessidra, e avrei fatto di tutto per far sì di tenere stretta fra le mie mani quella luce che avevo rubato.
Note dell’autore: Note presenti alla fine della fanfiction


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.


    «Quello è l’unico Sole che tu vedrai in avvenire, ma un millennio di notti sarà tuo per vedere la luce come nessun mortale l’ha mai vista, per rapirla dalle stelle lontane come se fossi Prometeo, un’illuminazione senza fine dalla quale comprendere tutte le cose».
    Questa la promessa che mi era stata fatta. Questa la promessa che era stata in seguito mantenuta. E, Madre de Dios, quanto mi sarebbe piaciuto che non fosse mai stato così.
 
 
 
SPAGNA › MARZO 1305
 
    Lodore umido e fragrante dell’erba bagnata dalle prime piogge primaverili era un vero e proprio toccasana, in quel periodo dell’anno. Sebbene non mi fosse concesso di vedere la moltitudine di fiori che coloravano timidamente il nostro giardino, ero più che certo che fosse uno spettacolo a dir poco meraviglioso.
    Erano trascorsi più di vent’anni dall’ultima volta in cui avevo potuto godere delle bellezze del mondo, e spesso mi ritrovavo a pensare a come sarebbe stata la mia vita se non avessi contratto quella malattia che mi aveva privato della vista. Come futuro capostipite della mia famiglia, la mia cecità rappresentava un’incognita difficile da sorvolare: i miei genitori avevano fatto ricorso a tutti i cerusici di Spagna per far sì che guarissi prima che fosse troppo tardi, ma a niente erano valsi i loro sforzi e le energie che avevano impiegato nel tentativo di riuscirci. Avevo perso completamente la vista a soli dieci anni, e da allora avevo vissuto nel buio più completo. Non avevo più potuto correre libero e spensierato come gli altri bambini, non avevo più potuto vedere tutto ciò che mi circondava, né tanto meno ero più stato in grado di fare con la stessa facilità tutte quelle piccole cose quotidiane. Con il passar del tempo mi ero naturalmente adattato a quella mia condizione, e probabilmente mi sarei sentito ancor più perso se fossi stato invece in grado di vedere. Era ironico, a ben pensarci.
    «Miguel?» La voce di mia madre mi riscosse dai miei pensieri e mi voltai nella direzione da cui proveniva, sorridendo nonostante non fossi esattamente sicuro di dove lei si trovasse. Ascoltai attento, udendo i suoi morbidi passi sul marmo che componeva il pavimento del balcone.
    «Avete bisogno, madre?» le chiesi, alzandomi piano dalla sedia sulla quale ero accomodato. Ero uscito solo per compiacermi della frescura di quel giorno, non avendo un granché da fare all’interno di quell’enorme casa. Non avrei potuto neanche leggere, dunque a che pro soffermarmi nelle sale di polverose librerie?
    «Siamo stati invitati ad una festa», mi disse semplicemente, poggiandomi una mano su una spalla quando si avvicinò abbastanza a me per farlo. «Tuo padre ci terrebbe tanto a parteciparvi, giacché sembra che la senõra Dominga sia stata una sua vecchia amica». La sua voce tradì una lieve nota tremula, però si affrettò presto a dissimularla prima di ridacchiare. Ma non ero stupido: quella risata suonava più falsa di quanto non volesse farmi credere. «E poi farebbe bene anche a te uscire un po’ da questo posto».
    Sorrisi, accondiscendente. «Ha pienamente ragione, Madre. Verrò anch’io», le promisi, e sebbene non potessi vederla in viso quasi mi immaginai che stesse sorridendo a sua volta. In quel periodo mi ero spesso rinchiuso nelle mie stanze per ore ed ore e avevo partecipato ben poco alla comune vita di famiglia, dunque mi sentivo quasi in dovere di rasserenare mia madre in qualche modo. Lei in quei lunghi anni di oblio mi era stata molto più vicina di mio padre, e volevo quindi sdebitarmi per quanto concessomi.
    In verità non avevo la benché minima voglia di lasciare quella casa, se dovevo essere sincero con me stesso. Volevo solo starmene al sicuro nel mio piccolo mondo, lontano da tutto ciò che mi aspettava là fuori; forse la mia era semplicemente paura, non lo sapevo con esattezza, ma la cosa di cui ero certo era che mi sentivo bene solo fra quelle quattro mura. Ed era dunque stato con una certa ansia che avevo atteso l’arrivo della sera, preparandomi poi per quella mia prima uscita dopo tanto.
    Vicino alla carrozza, intento a carezzare dolcemente il lungo muso di uno dei cavalli che l’avrebbero trainata, ripensavo a quanto ero stato stupido ad accettare con tutta quella facilità. Avrei potuto semplicemente rifiutare, e probabilmente mia madre non me ne avrebbe fatto una colpa per quella mia decisione; però, in fondo, cosa mai sarebbe potuto succedere?
    «Andiamo, Miguel», mi richiamò mia madre, con un timbro nervoso nella voce sommessa. Mi voltai verso di lei ma non le chiesi niente, conscio che qualcosa, qualsiasi essa fosse, non andava. E ancor più me ne convinsi quando mio padre non ci raggiunse. Sentii mia madre trarre un sospiro e lasciarsi sfuggire un suono simile ad un singulto, però continuai a non domandare niente. Ma non perché non me ne importasse, sia ben chiaro; sapevo fin troppo bene che mia madre preferiva il silenzio a qualcuno che tentava in tutti i modi di intromettersi nella sua vita privata e di compatirla. E io non avevo la benché minima intenzione di mancarle di rispetto in quel modo.
    Il nostro viaggio si protrasse dunque nel più completo silenzio, interrotto solo dallo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli al traino. Fu il tragitto in carrozza più lungo della mia vita; potendo contare unicamente sul mio udito, non avevo potuto godere appieno i dintorni e tutto ciò che mi circondava, accontentandomi dei discorsi frammentati che riuscivo a sentire quando passavano dinanzi a chi, a differenza di noi, si trovava a piedi. Mi era sembrato persino di udire il suono indistinto di una diligenza in lontananza, ma mi ci ero soffermato ben poco; avevo invece rivolto la mia attenzione ai rumori che provenivano sulla sinistra della strada, ove sembrava essere in corso una grande festa. Eravamo forse arrivati? Ne ebbi conferma nel momento esatto in cui scendemmo, e fu mia madre stessa ad aiutarmi ad incamminarmi nella direzione giusta.
    L’interno chiassoso di quello che presunsi essere un palazzo mi colpì come uno schiaffo in pieno viso: non essendo più abituato al chiacchiericcio dei commensali e alla bassa musica da salotto, mi sentii stranamente perso. Per me fu un sollievo accomodarmi tranquillo e in disparte, anche se con forte disappunto della mia genitrice; non sarei riuscito a prendere quella festa con la sua stessa disinvoltura, dunque anziché rovinare la festa anche a lei avevo preferito starmene da solo con me stesso. Ero un vero e proprio sociopatico.
    «Una gran bella festa, vero?» mi chiese d’un tratto qualcuno, interrompendo il flusso dei miei più disparati pensieri. Sbattei le palpebre, alzando lo sguardo nella sua direzione come se fossi in grado di vedere il volto del suo possessore. La sua voce aveva una vaga cadenza suadente, e il modo in cui pronunciò quella domanda mi fece supporre che fosse straniero. Era difficile capire da dove provenisse con l’esattezza, ma ero più che sicuro che avesse imparato lo spagnolo da oltre dieci anni. Lo parlava troppo bene. «La senõra che l’ha organizzata ha fatto un lavoro ben curato. E anche lei è splendida».
    Non avevo idea di chi parlasse con esattezza, giacché la senõra in questione non faceva neanche parte della cerchia di donne che frequentava mia madre. La sola cosa che sapevo era che sembrava essere una vecchia amica di mio padre, ma si vociferava che non fosse mai stata solo quello. E io non volevo andare in fondo a quella storia se potevo evitarlo, anche se gli atteggiamenti di mia madre -  anche quelli che aveva avuto prima ancora che arrivassero - parlavano da soli. Così decisi semplicemente di rivolgere un sorriso di cortesia a quello sconosciuto, tornando a guardare la pista sebbene non la vedessi e mormorando soltanto, «Mi fido della sua parola, senõr».
    Fui quasi certo che mi stesse osservando, forse perché sentivo la sgradevole sensazione di avere gli occhi puntati su di me. Però mi sforzai di fare finta di nulla, anche perché sapevo che non sarebbe servito a niente aizzare questioni inutili. Non potevo di certo impedire alla gente di guardarmi. «Oh», disse d’un tratto quello sconosciuto, e lo sentii accomodarsi piano accanto a me. «Mi perdoni. Non mi ero reso conto della sua condizione».
    Non mi voltai verso di lui - anche perché non avevo intenzione di fare in modo che incontrasse nuovamente i miei occhi -, bensì agitai distrattamente una mano in aria per liquidare semplicemente quella faccenda. «Non ho bisogno degli occhi per vedere ciò che ho intorno», esordii con un altro mezzo sorriso. «In questo mondo ci sono cose che non sono visibili neanche alla luce del sole».
    Anche se non potei vederlo, dalla voce con cui mi rispose sembrò che stesse sorridendo. «Avete maledettamente ragione, senõr. Avete maledettamente ragione». Sentii il suo respiro farsi più vicino, ma non seppi dire con esattezza se avesse chinato il viso verso il mio oppure fosse soltanto una mia impressione. «Ma, perdonate, dimenticavo di presentarmi». Mi prese una mano senza stringerla, carezzandola brevemente con la punta dei polpastrelli. A quel tocco rabbrividii ma non ritrassi il mio arto, provando però a cercare il suo volto come se cercassi di osservare in qualche modo la sua espressione o il riflesso della mia nei suoi occhi. Ero forse sconcertato? Dios, speravo proprio di no. «Alberto Di Domenico, senõr. Per servirla».
    «Siete italiano?» domandai di getto, ritraendo la mano non appena lui tentò di ghermirla nella sua. Speravo vivamente di sbagliarmi, ma quella sua mano non era forse diventata fredda e dura come il ghiaccio? Avevo forse delle allucinazioni a causa di quell’aria soffocante che vigeva in quella sala divenuta ormai angusta?
    Sentii distintamente il suono di una risata soffocata e di uno sbuffo ilare, subito dopo, dovuta forse al fatto che avessi allontanato la mano con la stessa vergogna che avrebbe potuto avere una vergine la prima notte di nozze. «Da parte di mio padre», mi spiegò semplicemente, forse persino in tono divertito. «Mia madre proveniva dalle colonie». Si mosse un po’, facendosi più vicino, tanto che potei sentire il suo respiro solleticarmi un orecchio. «E il suo nome, senõr?»
    Avrei anche trattenuto il fiato se non mi fosse apparsa come una cosa stupida. Forse ero solo un po’ agitato perché era la prima volta dopo mesi che lasciavo la nostra casa, e a causa della mia cecità non mi interessava neanche farlo. Mi sforzai dunque di riacquistare un’aria tranquilla e di sorridere, sebbene sentissi io stesso che quel mio sorriso era fasullo. «Miguel Rodríguez», risposi in tono circospetto, anche senza volerlo.
    «Miguel», ripeté lui con devozione, quasi stesse pregustando il mio nome sulla punta della lingua. E quella fu una cosa che mi lasciò basito e sconcertato. Chi era mai quell’uomo? «Ha il nome di un Arcangelo», continuò, «e anche il suo aspetto è paradisiaco. Siete già promesso?»
    Scossi automaticamente il capo, forse non comprendendo appieno le sue parole. Ero rimasto incantato dal suono della sua voce e dal modo in cui aveva pronunciato il mio nome, quasi fosse stata la prima volta che lo udivo a mia volta. «Se non fosse per la mia condizione, lo sarei».
    «La vostra cecità, intendete?» mi domandò ancora, e sentii la sua vicinanza divenire più pressante, quasi si fosse trattato di un peso posto all’altezza del mio stomaco. «E se fosse possibile cambiare questo vostro stato? Se fosse possibile restituirvi in qualche modo la vista?»
    Nonostante lo sconcerto iniziale, dovuto sia a quelle parole sia alla sua vicinanza, risi; risi di gusto, quasi sovrastando la musica che vigeva nel salone e le chiacchiere dei presenti, divertito probabilmente da quella bizzarria. Fu sorridendo che ribattei, «Con questa vostra offerta voi mi lusingare, senõr, ma non credete che ciò che dite sia quanto meno impossibile?»
    Il suo rauco sussurro al mio orecchio cancellò ogni traccia d’ilarità. «Non sto scherzando», soffiò nel mio padiglione auricolare, con voce densa e bassa come miele appena prodotto. «Seguitemi e ve ne accorgerete voi stesso».
    La cosa che mi lasciò interdetto non furono quelle sue nuove parole, bensì il sentire le labbra di quell’uomo sfiorare le mie: dapprima sembrarono incerte e guardinghe, quasi si stessero ricredendo di ciò che il loro possessore aveva fatto; poi si fecero sempre più sicure e intraprendenti, tanto che sentii ben presto la sua lingua carezzarmi il labbro inferiore. Ciò che avvertivo in quel bacio era il bisogno urgente di non restare solo, un misto di passione e tristezza che non avrei saputo associare a nessuna delle sensazioni che avevo provato fino a quel momento. E in quegli ultimi dodici anni non ero di certo stato un santo.
    Non appena mi resi realmente conto di ciò che stava succedendo mi allontanai immediatamente da quello sconosciuto, sgranando gli occhi e indietreggiando. Deglutii e mi leccai persino le labbra, sentendo su di esse il vago sapore del sangue, e avrei dato qualsiasi cosa, persino la mia anima, per sapere che espressione avesse mai assunto il mio volto o quello dell’uomo che mi aveva appena baciato. Avevo baciato tantissime donne, in quegli ultimi anni, ma mai mi sarei sognato di baciare qualcuno del mio stesso sesso. Madre de Dios, che intenzioni aveva quel forastero?
    «Non si sorprenda per così poco, senõr Miguel». La sua voce suonò come un mormorio nella notte buia. «Lo leggo nei suoi occhi ciechi. Non si capacita di ciò che sto facendo, ma in cuor suo spera che le mie parole non siano del tutto fasulle».
    Mi poggiò entrambe le mani sulle spalle, portandomi poi lontano da lì con la facilità con cui si trascinava via un bambino. Stupito da quella sua forza, non mi resi neanche conto che la musica nel salone era diventata solo un basso mormorio di sottofondo, simbolo che ci trovavamo adesso altrove. Una lieve brezza si insinuava fra i miei lunghi capelli, e anche senza l’uso della vista capii che quell’uomo, 
Alberto di Domenico, mi aveva portato sul balcone adiacente alla sala.
    Stavo cominciando a spaventarmi, dovevo ammetterlo. Impossibilitato a vedere, non avrei saputo come difendermi se ne fosse stata richiesta l’occasione. Avrei sì potuto capire il momento in cui quell’uomo si sarebbe mosso grazie allo spostamento d’aria prodotto, ma poi cosa avrei mai potuto fare? Assolutamente niente, purtroppo. Non avrei però venduto la pelle a basso prezzo, facendo tutto ciò che era in mio potere per comprendere le intenzioni di quell’uomo.
    Quando finalmente mi lasciò andare indietreggiai, cercando di fronteggiarlo con l’aria più risoluta e impettita che riuscii a trovare. «Che cosa vuole, senõr? Spera per caso di ottenere del denaro?» gli domandai in tono aspro, ignorando la mezza risata che si lasciò sfuggire. Che ridesse pure quanto voleva. «O preferisce forse prendere un posto di maggior rilievo nella società eliminando l’anello più debole?»
    Smise di ridere con una velocità inaudita, quasi non avesse cominciato affatto. Mi stupiva ogni momento di più. «Niente di tutto questo», ribatté poi con una semplicità disarmante. «Voglio darle ciò che vi ho promesso pocanzi, senõr Miguel». L’aria intorno a noi sembrò quasi farsi fredda e soffocante, tanto che mi ritrovai a rabbrividire. Cosa stava succedendo? «Dev’essere stata dura vivere per tutti questi anni senza poter godere delle bellezze del mondo, senza potersi perdere nel rimirare la sconvolgente purezza di montagne innevati e cieli azzurri, senza poter vedere quanto il suo stesso aspetto sia magnifico». Una sua mano, fredda come l’aria circostante, ravvivò i miei capelli all’indietro, e sentii distintamente le sue dita intrecciarsi fra di essi per lisciare le lunghe ciocche. «Io posso far sì che tutto questo accada. Posso mostrarle cose che non avrebbe mai sognato di poter vedere ancora una volta, paesaggi che resteranno impressi nella vostra memoria per tutti i secoli avvenire; comprendereste la verità del tempo e i segreti celati dietro di essa, e tutto ciò diverrebbe nelle vostre mani un piccolo sole pronto ad irradiare il mondo».
    Era mai possibile che quell’uomo avesse bevuto troppo e stesse delirando? Dios mío, mi sarebbe piaciuto moltissimo credere che fosse realmente così, ma qualcosa mi dava la certezza che fosse estremamente serio. «Perché sta pronunciando tali fandonie, senõr?»
    «É il tuo stesso nome a volere che questo destino si compia», sussurrò in risposta con voce rauca e gutturale, quasi fosse stato simile ad una bestia selvaggia. Aveva anche abbandonato ogni minima formalità, come se in quel momento non servissero. «Miguel... potresti essere simile a Dio con una sola parol
a [1] ».
    Simile a Dio con una sola parola? Cosa stava farneticando quel forastero? Non poteva sperare davvero che io gli credessi, e nemmeno l’avrei mai fatto. Soltanto un pazzo avrebbe realmente dato ascolto alle sue parole.
    Per attimi che parvero interminabili lasciammo che fosse solo la quiete ad investirci, ed ero convinto che quel tipo, Alberto, mi stesse osservando con una tale intensità da farmi rabbrividire da capo a piedi. Non potevo dire ciò con certezza, ma mi parve quasi di avvertire i miei occhi su tutto il mio corpo, come se stesse cercando in quel modo di sondare la mia anima o di penetrare nei miei pensieri. Sentii giusto un piccolo movimento, poi un sospiro e un ansito di voluttà, simile a quello di chi era ad un passo dall’orgasmo.
    «Madre de Dios!» La voce di mia madre ruppe l’innaturale silenzio che si era creato fra noi, aleggiando come una lugubre nota nella notte. «Tu eres el Diablo!»
    Non capii perché disse quelle parole, ma ebbi appena il tempo di voltarmi nella sua direzione prima che sentissi un dolore acuto al collo, venendo trafitto da qualcosa di così appuntito che mi parve simile ad un pugnale; spalancai la bocca in un grido senza voce, al quale però fece eco quello di mia madre.

    La sensazione che provai in seguito fu terrificante: mi sentii come risucchiato di tutta la mia essenza, afflosciato contro il corpo di quel mio assalitore; con le orecchie ormai colme della nenia che stava sussurrando avevo provato a mia volta a parlare, sentendo solo il sapore del sangue scendere prepotentemente nella mia gola. Tossire e tentare di sputarlo non era valso assolutamente a nulla, in seguito; avevo lottato con tutte le mie forze, scivolando negli abissi del terrore mentre mi sentivo sopraffatto da quel pungente odore ferruginoso e malsano che sembrava sgorgare da me stesso, da ogni mio poro; fu a quel punto che il dolore mi colpì con violenza, tanto che sentii il mio intestino attanagliarsi in violente spire che mi lasciarono senza fiato. Gridai, con il mio corpo che si contorceva di dolore, sentendo nelle orecchie il sinistro scricchiolio delle ossa contro il tessuto e lo spasmo violento che mi contrasse i muscoli, lasciandomi paonazzo e senza fiato. Inarcai la schiena e ansimai, aprendo e chiudendo la bocca per anelare ad un pugno d’aria; però ogni boccata mi parve come fuoco vivo nei miei polmoni, quasi sul punto di collassare. Ma la cosa più spaventosa e angosciante fu udire le stridenti grida di dolore di mia madre. Provare a chiamarla fu vano, poiché le parole che uscirono dalla mia bocca furono solo suoni inarticolati e senza il benché minimo senso.
    «Simile a Dio con una sola parola, Miguel». Il sussurro di Alberto al mio orecchio fu come vetro spezzato: aveva perso tutta la bellezza e il mistero che aveva avuto fin dal principio, quella passione suadente con cui mi aveva conquistato e intrappolato, divenendo per me una semplice voce. E la cosa quasi mi spaventò. «Ti basta pronunciarla per salvare la vita a te stesso e alla tua cara madre».
    Forse fu ciò che mi disse a convincermi, o forse la paura che potesse succedere qualcosa a mia madre, ma pronunciai quel sì con tutto il fiato che mi era rimasto in gola, urlandolo al vento come se ciò potesse aiutarmi a porre fine a quella sofferenza che dilagava nel mio animo e alle urla ormai sconnesse della mia genitrice.
    Non mi occorse la vista per essere certo che sul viso di quel forastero si era dipinta un’espressione di assoluto trionfo: mi bastò udire le parole che sussurrò in seguito e quella nenia nella sua lingua natale, il modo in cui s’interruppero bruscamente le grida di mia madre e l’abbraccio in cui mi strinse, poi ancora l’odore del sangue nelle narici, il suo disgustoso sapore sulla lingua e nella gola.
    Da quel momento in poi, fra le tenebre della mia vita, comparve anche una macchia cremisi
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    Passarono esattamente dieci giorni dal momento in cui ero stato assalito.
    Nonostante il mio stato di salute avevo provato a stare vicino a mia madre per quanto concessomi, ma purtroppo non era più tornata la stessa di un tempo; quella notte aveva veduto qualcosa che l’aveva scossa e turbata a tal punto da farle perdere la ragione, e provare a chiedere il parere di qualche esperto non era servito assolutamente a niente. Si lamentava durante il sonno - almeno quelle rare volte in cui riusciva a chiudere occhio - e farneticava di creature simili al Demonio, con denti aguzzi e spaventose espressioni angoscianti, ma io, come altro unico testimone, non potevo confermare quella sua versione proprio a causa della mia cecità. Avevo solo raccontato che ero stato avvicinato da uno strano uomo e che quest’ultimo mi aveva aggredito, e tutto perché la mia versione dei fatti era realmente questa. Non sapevo cosa avesse visto o anche solo pensato di vedere mia madre, ma potevo comprendere che lo shock di vedermi assalito avesse potuto giocarle qualche brutto e fatale scherzo. Dios mío, povera madre mia. E quella sera non era diverso. Mio padre aveva lasciato quella stanza da poco, ed io, seppur mi reggessi in piedi a malapena, ero rimasto a vegliare su mia madre, tenendole la mano nella mia come se volessi farle sentire la mia presenza. Sapevo che una serva le detergeva di tanto in tanto la fronte quando veniva a controllarla, ma non aveva dato nessun segno di miglioramento fino a quel momento. Mangiava poco o non mangiava affatto, il più delle volte, e forse in parte potevo capirla. Anch’io avevo stranamente perso l’appetito da quando ero stato aggredito; il solo sentire l’odore del cibo, che sembrava arrivare soffocante alle mie narici, mi disgustava. Nemmeno i cerusici sapevano spiegarsi il motivo di tale appetenza.
    «Miguel», sussurrò con un fil di voce mia madre, stringendo la mia mano nella sua talmente forte che quasi mi sembrò potesse spezzarmi le ossa delle dita. Non sapevo che espressione avesse, ma qualcosa mi dava la certezza che i suoi occhi fossero febbricitanti. «Miguel, hijo mío».
    «Sono qui, madre», sussurrai, muovendo a tentoni la mano libera per cercare di scostarle i capelli dal viso. Erano umidi e sudaticci, e la sua pelle scottava come se fosse stata un pezzo incandescente di carbone. Il panno bagnato che una delle serve aveva poggiato sulla sua fronte era quasi del tutto inutilizzabile, poiché l’acqua di cui era impregnato sembrava evaporare al solo contato con la sua cute. Madre de Dios.
    «Oh, Miguel». Mi toccò una guancia con una mano, e dalla sua voce seppi che stava sorridendo nonostante tutto. La sua forza d’animo era sempre stata incommensurabile. «Avrei voluto darti una vita migliore».
    «Non dite così, madre», tentai di rassicurarla, sentendo un groppo in gola. Era come se mi si stesse chiudendo, impendendomi sia di parlare sia di respirare. «Voi e mio padre avete fatto così tanto per me. Non dovete pensare cose così assurde».
    Trasse un lunghissimo sospiro, quasi cercasse di riprendere fiato. «Io... avrei voluto fare molto di più, per te», mormorò ancora, stringendomi più strettamente la mano come se volesse essere sicura che io non scappassi o non scomparissi d’improvviso. «Avrei voluto che tu crescessi come tutti gli altri bambini, senza dover far continuamente ricorso a qualcuno che ti aiutasse». Dalla sua gola uscì un suono gutturale che lei tentò di sopprimere, tossendo. «Però... oh, Dios mío, sono così orgogliosa dell’uomo che... sei diventato. Quanto mi piacerebbe... poter vedere anche i miei nipotini».
    Abbozzai appena un sorriso, carezzandole il volto. «Riposate, madre. Avrete tutto il tempo del mondo per vederli».
    «Già», ripeté in un sussurro. «Tutto il tempo del mondo».
    Per minuti interminabili non sentii più una parola provenire dalle sue labbra, né tanto meno un suo flebile respiro. Tutto sembrava essere intrappolato in un attimo etereo dove tempo e spazio erano solo delle parole, dove il silenzio parve accoglierci in un abbraccio pietoso e gelido, lasciando che l’ansia cominciasse ad impadronirsi del mio animo e del mio cuore. «Madre?» la chiamai infine sottovoce, scuotendola delicatamente. Le carezzai il viso e le sfiorai le labbra, scendendo piano lungo un braccio per tastare il suo polso.
    Quando mi resi conto che non c’era battito non fui capace di piangere. Sentivo il cuore colmo di dolore, quasi fosse pronto ad esplodere, ma non riuscivo ad esternare tali emozioni mediante le lacrime; sussurrai però qualche preghiera per la sua anima, e poi, dopo essermi portato la sua mano vicino alla bocca, ne baciai delicatamente il dorso, soffocando la mia sempre più crescente voglia di urlare ed imprecare per sfogarmi. Non sarebbe dovuta finire così, sarei dovuto essere io colui che avrebbe dovuto morire; mia madre aveva solo commesso lo sbaglio di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma non per questo sarebbe dovuta essere punibile in quel modo. Dio ci amava veramente come lei aveva sempre affermato? E se era realmente così, perché aveva permesso che una donna di gran cuore come lei, una donna che aveva sempre sacrificato se stessa per gli altri e non aveva mai chiesto nulla per la sua persona, morisse? Perché aveva chiamato proprio lei fra le schiere dei beati, senza attendere che giungesse la sua ora?
    «E così ci ha lasciati». Senza che me ne accorgessi, né tanto meno lo sentissi arrivare, l’uomo che mi aveva aggredito, Alberto di Domenico, aveva fatto irruzione nella stanza di mia madre, ma la cosa che mi lasciò di sasso fu proprio la sua presenza. Come aveva fatto ad eludere la sorveglianza e ad arrivare fin lì? E, cosa più importante, come aveva scoperto dove abitavamo?
    Avrei voluto chiamare le guardie e farlo arrestare seduta stante, però le parole che uscirono dalla mia bocca furono guidate dal mio cuore addolorato anziché dalla mia mente. «Tutto questo è solo colpa tua», sussurrai con voce incrinata, accasciandomi su me stesso per stringere nel mio abbraccio mia madre. «Solo colpa tua».
    Il tonfo morbido dei suoi passi sul pavimento fu simile ad uno stridio fastidioso, esattamente come il tono della sua voce. «Non incolpare me della sua precaria salute mentale, Miguel», mi disse in un mormorio secco e pacato. «La tua cara madre sarebbe morta comunque».
    «Ma non così, mierda!» esclamai sull’orlo delle lacrime, sentendo quel corpo immobile stretto a me acquistare pian piano rigidità. Però era ancora caldo, maledizione. Era ancora caldo e quel hijo de puta si permetteva di parlare così di lei. Forse fu quello stesso pensiero a farmi alzare di scatto e a guidarmi nella direzione di 
Alberto, e quasi mi stupii di essere riuscito a capire perfettamente dove si trovasse. In un impeto di rabbia e sofferenza l’avevo raggiunto e afferrato per il colletto di quella che doveva essere di sicuro una camicia, avvertendo la sua incertezza strisciare sulla mia pelle come se fosse stata un serpente prima di scomparire immediatamente così com’era apparsa.
    Sentii una sua fredda mano poggiarsi sul mio polso, il suo fiato al mio orecchio, poi una bassa risata risalire dal fondo della sua gola, interrotta poi da un lungo sospiro ilare. «La rabbia sul tuo viso è qualcosa di strabiliante, Miguel», sussurrò divertito. «Quanto mi piacerebbe che tu potessi vederla, esattamente come sto facendo io in questo istante».
    Rinserrai la presa sul suo collo. «Anch’io desidero ardentemente poterlo fare», sibilai, infuriato come non lo ero mai stato, «e solo per essere in grado di vedere il tuo volto sofferente mentre ti ammazzo con le mie mani».
  Ciò che accadde in seguito successe così rapidamente che faticai ad avvedermene: la mano salda a stringere il colletto di 
Alberto venne letteralmente strappata dalla sua postazione, e a causa della violenza utilizzata mi lasciai sfuggire un grido addolorato, sentendo in seguito due braccia forti e fredde stringermi i fianchi, come per impedirmi di scappare. Tentai di liberarmi inutilmente di quella morsa, graffiandogli gli avambracci e scalciando furiosamente, imprecando a denti stretti con parole che non mi sarei mai sognato di utilizzare fino a quel momento. «Shh... non agitarti in questo modo, mio giovane amico», mormorò, ignorando gli epiteti che gli lanciavo contro. Anzi, quasi ne sembrava divertito. «Ti ho donato la luce di Febo e tu mi ringrazi così? Sei crudele, ragazzo [2]».
    «Lasciami andare, Diablo!» esclamai furente, cercando in tutti i modi di fargli allentare la presa intorno ai miei fianchi, così da potermi allontanare finalmente da lui. Ogni tentativo, però, parve non portare al risultato sperato, poiché quelle braccia che mi stringevano sembravano fatte di marmo. Era come cercare di lottare contro il vento: inutile e infruttuoso.
    Tenendomi ancora stretto con un braccio, 
Alberto fece risalire piano una mano e mi carezzò i capelli con essa, strofinandoci poi il viso. «É esattamente così, Miguel». Si scostò verso il mio volto, seguendo con la lingua la linea della mascella. «Io sono il Diavolo», sussurrò con voce roca e passionale, ansimandomi all’orecchio quando risalì piano verso di esso, «e tu sarai il santuario della mia carne».
    Strinsi gli occhi nel sentire la sua mano scivolare lungo il mio petto, e mi morsi persino il labbro inferiore al sangue nell’udire le sue parole. No. Non avrei mai permesso che divenissi il giocattolo di quell’uomo, quel demone o qualunque altra cosa egli fosse. Avrei lottato con tutte le mie forze e, se davvero aveva condiviso con me quell’essenza che lo animava, quella che lui stesso aveva chiamato luce di Febo, avrei fatto in modo che essa si ritorcesse contro di lui con l’impetuosità di una burrasca.
    Fu senza riflettere che gli artigliai un braccio con entrambe le mani, sbrindellandogli la carne ancora e ancora fino a sentire i muscoli e il tessuto sotto le mie dita, il rumore sordo e viscido dei legamenti che si spezzavano, il cozzare delle mie unghie contro le sue ossa mentre nelle mie orecchie risuonavano le sue strazianti grida di dolore, che divenivano sempre più alte mano a mano che continuavo la mia opera di lacerazione.
    Non mi fermai neanche quando lui mi afferrò la mano e mi spezzò le dita con un suono secco, agendo come se fossi manovrato da un’entità malvagia che compiva tale opera al mio posto. Però io ero cosciente, sapevo fin troppo bene cosa stavo facendo; e dentro di me ne gioivo terribilmente. Qualcosa, qualunque essa fosse, voleva che io continuassi a comportarmi come stavo facendo, incitandomi ad andare sempre più a fondo per non lasciare scampo a quell’uomo. Aprii di scatto la bocca e mi avventai voracemente contro il suo collo, guidato dal prepotente pulsare dell’arteria che udivo al di sotto della sua pelle. Lo morsi senza rendermi pienamente conto di ciò che facevo, sentendo il sangue sprizzare sulle mie labbra e scendere nella mia gola, sempre più giù, nel mio stomaco, assestandosi in esso come se il suo posto fosse sempre stato quello fin da tempi immemori. Mi fermai solo quando il corpo di 
Alberto si accasciò inerme e leggero fra le mie braccia, quasi fosse stato una piuma anziché un cadavere. Riacquistato un lieve barlume di lucidità lo adagiai piano sul pavimento, restando fermo in ginocchio a fissarlo senza vederlo davvero, in un misto di stupore e profonda contemplazione.
    Non potei vedere ciò che avevo appena fatto, però di una cosa fui più che certo: mai come in quel momento mi ero sentito in grado di poter fare qualunque cosa io volessi o provassi anche solo ad immaginare, e nel sentire ancora il calore e il sapore del sangue e la sua consistenza vischiosa sulle mie mani, sul mio viso, nella mia stessa bocca, non potei evitare di ridere; risi e risi finché il fiato non cominciò a venir meno, tenendomi un braccio sullo stomaco e avvertendo le lacrime sgorgare dagli angoli dei miei occhi ciechi per scivolare con lentezza lungo le guance.
    Forse, alla fin fine, la verità era che uccidere mi era piaciuto.
 
 
 
    Lo squillo improvviso del telefono mi ridestò dai miei pensieri e allungai a tentoni una mano per afferrare la cornetta, sorridendo quasi compiaciuto. Visti i tempi che correvano e gli avvenimenti che si stavano susseguendo in quell’ultimo periodo, non era difficile capire chi ci fosse dall’altro capo dell’apparecchio. «Buenas noches, chica
[3]», risposi divertito, e mi godetti lo sconcerto che sentii chiaramente nella sua voce.
    «Come sapevi che ero io?» mi domandò, e io risi sonoramente. Come detto, chi altri sarebbe mai potuto essere se non lei? Lewis, la mia chica, mi stava dando un bel da fare da parecchi giorni.
    «Chiamala pure... intuición», ribattei sarcastico, ma lei non sembrò cogliere l’ironia.
     «Non sei affatto divertente».
    «Lo siento, chica, yo no querìa
[4]».
    «Piantala di parlare in spagnolo e stammi a sentire», sbottò.
    Risi sonoramente ancora una volta, genuinamente divertito. L’irritazione che avevo sentito era qualcosa che, nonostante tutto, mi metteva quasi allegria. Eravamo stati amanti per un lungo periodo, e ogni qual volta parlavo la mia lingua madre lei sembrava ricordare quei momenti passati insieme. Per quanto la snervasse, io trovavo divertente il ribadirlo. Riacquistai pian piano la serietà, però, intuendo che quella chiamata, conoscendo Lewis, non era stata fatta per puro diletto. «Sei per caso nei guai, chica?»
    Ci mise un po’ a rispondere, ma alla fine snocciolò tutto ciò che aveva da dire. «Non voglio mentirti, Miguel, quindi... aye, sono nei guai», replicò in tono secco e aspro. «Ho bisogno di andare a parlare con Dante».
    «Dante?» ripetei, zittendomi all’istante. Perché mai aveva bisogno di incontrare proprio lui? Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro quando le avevo detto di non immischiarsi in quella storia più grande di lei. E avere a che fare con Dante, beh... non era la mossa più saggia che mi sarei aspettato da una del suo calibro. Dunque sospirai e schioccai le labbra. «Por favor, chica, segui il consiglio che ti ho dato e lascia perdere. L’ultima persona di cui hai bisogno è proprio quel hijo de puta di Dante».
    «Miguel... che cosa sai che io non so? Cosa mi stai nascondendo?»
    «Te ne parlerò se mai riuscirai a restare viva, chica», replicai, interrompendo alla svelta la comunicazione prima che potesse chiedermi qualsiasi altra cosa. Non avevo la minima intenzione di ascoltarla, giacché potevo benissimo immaginare cosa avrebbe potuto domandarmi. Già una volta mi aveva chiesto di dirle tutto ciò che sapevo riguardo la storia in cui si era immischiata, ma mi ero tagliato fuori immediatamente. Quel poco che conoscevo era abbastanza per mandare al Diavolo mi vida una volta per tutte, e tutto perché conoscevo fin troppo bene i modi di fare di Dante e della sua antichissima famiglia. Non avevo la benché minima intenzione di buttare al viento settecento anni e più, non dopo tutto ciò che avevo passato per ottenere quella fittizia tranquillità in quella città chiamata St. Louis.
    Avevo ambito così ardentemente al sole e al poterlo finalmente vedere, e, anche se quella trasformazione non mi aveva donato nuovamente l’uso della vista, avevo potuto continuare a vivere per lungo tempo solo grazie a quella mia nuova condizione, sebbene avessi dovuto sacrificare la mia anima per ottenerla. In un modo tutto mio, esattamente come aveva promesso Alberto di Domenico, ero stato in grado di vedere più di quanto non avrei mai potuto fare da mortale, acquisendo una conoscenza tale che mai avrei sognato di poter un giorno possedere, arricchendomi grazie a tutto ciò che avevo potuto assaporare con gli altri sensi che mi erano rimasti; avevo potuto così comprendere che il sole di cui Alberto mi aveva parlato altro non era che la consapevolezza dei secoli che mi erano passati dinanzi, tutto ciò che avevo imparato nel sentirli scorrere come granelli di sabbia tra le mie dita, e avrei fatto di tutto per far sì di tenere stretta fra le mie mani quella luce che avevo rubato il giorno stesso in cui mia madre era morta.
    La mia vita sarebbe stata per sempre immersa in un mondo di tenebre, quella era una realtà che purtroppo non avevo il potere di cambiare; ma quell’unico e fittizio sole che mi era stato donato avrebbe continuato a splendere nei recessi di esso, fino alla fine dei secoli che mi sarebbero rimasti.




ARKADIA: A STORY OF BLOOD AND SORROW
FINE




[1] Il significato di questa frase sta nel nome stesso del protagonista. Miguel è lo spagnolo del nome Michele, e come già accennato dal co-protagonista di questa storia, è anche il nome di un Arcangelo di Dio. Quel nome, tra l’altro, deriva dall’espressione Mi-ka-El, che significa “Chi è come Dio”. Si vuole dunque intendere che, agli occhi di Alberto, Miguel meriti il potere derivante dalla trasformazione in vampiro anche solo per quello. E’ inoltre un vago riferimento alla frase “Il male è un punto di vista. Dio uccide indiscriminatamente e così faremo noi, perché nessuna creatura di Dio è come noi; nessuno è simile a lui quanto noi” pronunciata da Lestat in “Intervista col vampiro”.

[2] Questa parola, che all’apparenza sembra non avere niente di strano, è stata segnata per due semplici motivi. Il primo è che Miguel, avendo trent’anni, potrebbe essere considerato un giovane uomo e non un ragazzo, ma agli occhi di Alberto lo è a causa della differenza esagitata di età; il secondo, invece, è perché la parola in questione è pronunciata in italiano anziché in spagnolo, la lingua che parlano i protagonisti della storia. L’uso di parole spagnole nelle frasi è solo un rafforzativo, come se fossero delle intercalari.

[3] La traduzione sarebbe “Buona sera, ragazza” ed è ovviamente spagnolo.

[4] La traduzione sarebbe “Scusa, ragazza, non volevo” ed è ovviamente spagnolo.





_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta per il contest Il libro che avete amato indetto da miss dark, e si è classificata Prima con mio stupore. Che dire, comunque. Finalmente sono riuscita a scrivere qualcosa anche da parte di Miguel e sono felice di averlo fatto. Come già accennato nello specchietto introduttivo, questa storia è uno spin off della long fiction Under a bloody sky, facente parte della serie St. Louis ~ Bloody Nights.
Partiamo subito con il dire una cosa che mi sta molto a cuore, prima che questa cosa possa danneggiare la storia, giacché purtroppo mi è già capitato una volta quindi non voglio rischiare: a causa della condizione di Miguel ho dovuto purtroppo sacrificare la descrizione paesaggistica per dar maggior rilievo all’introspezione del protagonista e dei personaggi secondari, però, nonostante questo handicap - difatti adoro da morire descrivere i luoghi in cui le mie storie si svolgono -, scrivere questa storia per me è stato un piacere.
Era da troppo tempo che volevo farne una sul punto di vista di Miguel, e questo contest mi ha dato un pretesto per mettere in atto la mia idea. Spero che la storia sia piaciuta, vi lascio al commento della giudice.  ♥


ARKADIA: A STORY OF BLOOD AND SORROW
PRIMA CLASSIFICATA


GIUDIZIO
Grammatica: 9/10
Originalità della trama: 8/10
Caratterizzazione dei personaggi: 9/10
Stile e Lessico: 10/10
Totale: 36/40

Io non amo particolarmente le storie di vampiri e, in generale, le storie soprannaturali. Preferisco storie in un certo senso più reali e più vicine alla mia quotidianità, ma, ti dirò, questa storia mi è piaciuta moltissimo. Prima di tutto perché è scritta davvero davvero bene e per questo hai guadagnato il massimo dello stile. Non ti ho dato il massimo del voto nella grammatica perché ci sono alcune ripetizioni e alcune frasi poco chiare, ma nulla di grave, nel complesso è una storia scritta molto bene. La parte in cui Miguel viene morso da 
Alberto è di una bellezza sublime, quasi unica. Non credo di aver mai letto un passaggio così ben scritto e così realistico. Ed ecco il secondo complimento che ti voglio fare, benché fosse una storia di vampiri, hai dato molto spazio alla condizione umana e all’umanità stessa del personaggio, caratterizzato quasi alla perfezione. Dico quasi (e non ti ho messo il punteggio pieno) perché hai accennato nel primo capitolo ed anche nell’epilogo ad un aspetto del carattere di Miguel, l’amore passionale per le donne, che nel resto della storia è stato quasi eclissato o, addirittura, contrastato dalla situazione di cecità del protagonista, che lo rendevano timido e in qualche modo impacciato. Probabilmente hai sviluppato meglio questa caratteristica nelle altre storie della serie, ma, come ti dissi, io mi sento di giudicare solo questo episodio, e non la storia nel complesso.
Perché solo 8 nell’originalità della trama. Principalmente perché credo che di storie sui vampiri ne siano state scritte troppe, veramente troppe. Non sono assolutamente a conoscenza del genere di storie che vaghi in quella categoria, proprio perché ho visto il loro numero crescere esponenzialmente e ho preferito evitare di leggerle, per paura che fossero delle idiozie totali. Proprio per questa mia ignoranza a riguardo, quell’8 non è un 7, perché credo che questa tua storia sia più originale di molte altre. Ma, ripeto, questa è una mia impressione e forse crederai che questo parametro di giudizio, nel tuo caso, sia campato per aria, ma, te lo assicuro, ho riflettuto molto a riguardo e credo, comunque, che sia un buon voto.
Infine parliamo della citazione. E’ una bellissima frase, sia letta in chiave metaforica sia in chiave più pratica. E’, diciamo, una frase a senso doppio, che può andare sia in una direzione sia in un’altra e la tua bravura è stata proprio quella di lasciare aperte le strade per entrambe le interpretazioni.
Concludo dicendo che sono molto incuriosita di leggere le altre storie della serie e credo proprio che lo farò!




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