E' meglio
bruciare in fretta che spegnersi lentamente, è una frase
scritta da Kurt Cobain nella sua lettera di addio, ed è
ripresa da un verso della canzone "My My Hey Hey"di Neil Young.
Buona lettura,
Red.___________________________________________________
Viveva tutto
come se fosse l’ultima volta, lui, con una
passione che rasentava la disperazione.
Fumo
e rabbia.
Ogni mattina
fumava quattro sigarette, così, senza un perché.
Ne fumava
una dopo l’altra, consumandole fino al filtro, poi le gettava
a terra
noncurante.
Quando
qualcuno lo vedeva la battuta: “Prendi fiato,
almeno!” era d’obbligo e lui
sorrideva, con la mano appoggiata al mento. Sorrideva e diceva:
“Respiro
dopo!”, ma poi non respirava, non respirava mai.
Osservava
assorto il fumo salire in lente spirali e la cenere cadere. Guardava,
sinceramente interessato, la sigaretta consumarsi e si chiedeva, come
ogni
volta, come ci si potesse sentire a bruciare lentamente.
Un’ultima
boccata: il fumo che usciva dalle labbra secche in sbuffi.
Osservava il
filtro rotolare sull’asfalto e si chiedeva come ci si potesse
sentire ad essere
buttati via.
I pensieri
possono far male, lo sapeva bene, la mente può uccidere
prendendo il controllo
del corpo e del suo patetico istinto di sopravvivenza: poteva pensare
di bruciare
e trasformarsi in cenere, trasformarsi veramente.
Poteva domandarsi all’infinto come sarebbe
stato morire ed iniziare a morire dentro, nelle pieghe del suo essere;
poteva
iniziare a marcire e nessuno mai se ne sarebbe accorto.
Sarebbe
rimasto un segreto, e i segreti rimangono tali.
Chiuse gli
occhi, dolorante, e il cielo color cenere sembrò aspirare il
fumo grigio che
sbuffava via. Il cielo grigio sembrò tutto un mondo di
dolore, pronto a
soffocarlo con la cenere: aspirando tutto il suo essere, portandolo via.
Il cuore
batteva forte e le mani tremavano un po’, sempre un
po’ di più, e la bocca si
apriva in un urlo senza voce, ma la gente continuava a vivere e
parlare, ridere
e sperare, quindi andava tutto bene. Tutto bene.
Eppure aveva
paura, una fottuta paura, si artigliò il petto con la scusa
di sistemarsi i
bottoni del cappotto – attento fino
all’inverosimile all’attenzione della gente
che nemmeno lo guardava – e cercò un modo corretto
di respirare, stretto dalle
spire di un essere invisibile.
Si faceva
pena, seduto scompostamente su quei gradini di un bianco sporco, a
cercare di
respirare mentre il mondo se ne fregava.
E un po’ si
sentiva in colpa per quei pensieri arroganti, quasi egocentrici, quando
affermava che parlare era inutile perché nessuno capiva: chi
era lui per dire
di non capire?
Lui che mai
aveva capito nulla e che portava addosso segreti più sporchi
dell’asfalto
bagnato in una giornata qualunque.
Fumava
lentamente, sforzandosi di non emettere suoni strozzati, nessuno
avrebbe dovuto
sentirlo, nessuno avrebbe dovuto vederlo, e i suoi segreti sarebbero
stati liberi di marcire in
silenzio.
Gli altri lo
salutavano ridendo, facendogli notare la puntualità del suo
ritardo: trenta
minuti, erano sempre trenta minuti.
Lui
sorrideva ed annuiva (perché i segreti devono rimanere tali).
Parlava
tranquillamente con gli amici di sempre, ridendo alle battute senza
affanno e
senza paura e si sentiva in colpa quando, d’un tratto, si
sentiva solo in mezzo a
tanta gente.
Si sentiva
in colpa e provava a ridere, ma gli occhi si riempivano di stupido
rimpianto,
il rimpianto di non poterla proprio vivere quella vita.
Fissava il
vuoto e tremava in silenzio, guardando le sigarette gettate a terra
come tanti
piccoli cadaveri.
---
“Di che
colore è l’acqua per un affogato?” lo
chiese un giorno al suo migliore amico,
guardando il proprio riflesso nel vetro della finestra.
L’altro lo
guardò stralunato, fregandogli una sigaretta dal pacchetto
appena aperto:
“L’acqua cambia colore? Che razza di domanda
è?” Sbuffò una risata insieme ad
una boccata di fumo, osservandolo.
L’altro non
si voltò “Non credi che la morte possa farci
cambiare il modo in cui vediamo le
cose? Non credi che per un uomo che sta morendo affogato
l’acqua acquisti un
colore diverso, un diverso significato?”
L’amico
soppesò la domanda con sguardo incerto.
“Forse,” proclamò infine “ma
noi non lo
sapremo mai, ti pare?” Lo
guardò alla
ricerca di conferme, insicuro, con una punta di paura negli occhi
chiari.
“Hai
ragione” gli disse infine, cercando di sorridergli alla
buona; l’altro sembrò
più tranquillo.
Non
vuoi morire, vero?
Parole
mai dette, silenzi che urlano parole mai dette.
“Non vuoi morire,
vero?”
“… Che poi
non l’ho mai capita, io, la depressione.”
Affermò sua madre, “Se hai un
problema devi risolverlo, c’è poco da fare,
no?”
L’umiliazione,
il risentimento. La colpa.
“Non siamo
tutti uguali, mamma. C’è chi nasce
debole.” Parlò a bassa voce, guardando il
pavimento.
Sua madre
sbuffò poco convinta, lui tacque.
Domande
mai fatte.
“E
tu, tu sei debole?”
"Mamma, siamo
pieni di bugie," c’è scritto questo su un quaderno
dimenticato. C’è scritto così
tante volte che ha perso di significato.
Trenta morsi
sul braccio, sempre trenta. Trenta i minuti di ritardo che ha con la
vita.
E di rimpianto, senso di colpa.
“Giuro
che non ci riesco” scriveva su
qualche foglio ormai dimenticato. “ Ho
paura di cose sbagliate: la vita, la vita, la vita..! È
troppo grande, la vita,
e senza senso, ma il cielo è azzurro, la gente ride e va
tutto bene.
Passerà,
passerà.” Mentiva.
Erano solo
bugie-della-buonanotte, quelle. Mentiva sempre, sempre. Soprattutto a
se
stesso. “Siamo pieni di bugie”
c’è scritto su quel quaderno.
---
“A che
pensi?” glielo chiese il suo amico dagli occhi azzurri.
“Ho paura.” Rispose
assurdamente, sperando di poter avere occhi chiari e limpidi da poter
mostrare
in giro e urlare: Ho occhi puliti! Come l’acqua!
Ma
di che colore è l’acqua, per
un affogato?
“Di che
cosa?” gli chiese allora l’altro, calmo nei suoi
occhi azzurri che non
nascondevano nulla… nulla! Quanta rabbia, quanta rabbia!
“Non lo so,” e fece un sorriso buffo inadatto alla
situazione e ai suoi pensieri. Inadatto
come sempre per questo schematico e banale.
Cercava
emozioni forti, la passione in ogni cosa, ricercava un mondo al limite
per
poter vivere una vita illimitata.
Alcool a
volontà: come se non avesse nulla da nascondere.
Sigarette a
non finire: come se la morte fosse così lontana da non
riuscire a far paura,
come se la morte gli facesse davvero paura.
Rideva tranquillo,
gli occhi scuriti da bugie e alcool, rideva con persone dagli occhi
puliti e si
sentiva stupido e dannatamente debole quando poi non riusciva a
guardare il suo
riflesso nello specchio e la notte tremava.
“La
vita mi uccide” lo ha scritto sul muro,
dietro al letto, con una calligrafia minuscola che quasi non esiste.
“È troppo forte la vita,
così crudele. È come
il mare: scorre sempre, non si ferma. Al mare non importa di
accarezzare gli
scogli; alla vita non importa di far meno male.”
Viveva al limite
fino a farsi male davvero, accettando il dolore come fa la risacca del
mare
scontrandosi contro gli scogli della vita: cercando di far loro tutto
il male
possibile.
---
“È
interessante” disse in un giorno come un altro. Fissava gli
occhi azzurri del suo amico e li odiava. Li odiava quando avrebbe dato
la sua vita
per salvare dal mondo quegli occhi chiari come l’acqua.
“Che cosa è
interessante?”
“È tutto il
contrario, tutto sbagliato e tutto come pensavo sarebbe stato. Non
è interessante?”
ridacchiò appena, dondolando la testa.
L’altro lo
guardò a sua volta, incerto se prenderlo sul serio o meno.
“Che palle,
parla chiaramente!” rise, cercando di credere davvero che
fosse uno scherzo, ma
lo sapeva bene che qualcosa non andava, che non andava da tempo, che il
suo
amico stava andando via e che scorreva tra le dita come cenere.
L’altro
rise, osservando i suoi occhi chiari tingersi e sporcarsi di
preoccupazione e
li odiò, lo odiò perché non gli
chiedeva mai nulla, perché rispettava i suoi tempi.
Perché rispettava lui e tutto il suo dolore che non poteva
quantificare,
vedere, curare.
Odiò il suo
stesso riflesso in quegli occhi puliti, si vide in quegli occhi alieni
e si
sentì sbagliato, più della situazione che era al
contrario, più della vita che
lo distruggeva con la banalità di un giorno qualunque.
Paradossalmente
si sentì “giusto” senza nemmeno aver
provato a esserlo.
Era giusto
essere sbagliati se la vita uccideva invece di scorrere, oppure
scorreva,
scorreva però logorava. Come il tempo.
Si sentì
speciale con quella strana e nuova sensazione che aveva addosso, come
un
vestito per la festa, comprato su misura: finalmente perfetto,
finalmente
essenziale.
Guardò il
suo riflesso finché non vide più nulla: la vita
era passata, logorandolo, e il
vestito ormai gli stava stretto. Se ne liberò con fastidio,
godendosi gli
ultimi strascichi dell’euforia di sentirsi speciali.
Poi sentì
freddo: ad essere speciali si stava troppo in alto e, senza vestito, si
gelava
l’anima.
Guardò il
suo riflesso e rivide il suo banale e ridicolo sorriso, che non era
nulla più
di una smorfia.
Rivide i
quegli occhi solo la loro chiarezza e li odiò. Lo avrebbe
ucciso per avere
quegli occhi, si sarebbe ucciso più volte per poterli
guardare sempre.
Ci sarebbe
stato da piangere e decise che l’avrebbe fatto, quella notte
stessa, e chissà
quante punizioni gli sarebbe costato aver avuto l’arroganza
di sentirsi
speciale.
Ci sarebbe
stato da piangere, avrebbe dovuto piangere per sé.
Decise che
non l’avrebbe fatto.
Camminavano
tranquilli, in un pomeriggio primaverile come tanti. Lui fumava
pigramente una
sigaretta chiacchierando assente, l’altro se ne accorse: i
suoi occhi limpidi
non erano mai stati ostacolati dal fumo.
“Che hai?”,
lo chiese a bruciapelo, cercando di leggere qualcosa sul suo volto.
“Niente,”
replicò con tranquillità, “Che dovrei
avere?”
“Ti vedo
assente” replicò attento, stupidamente impaurito.
“Sono
incazzato, tutto qua” buttò la cicca a terra e
spense il filtro con un piede.
“E perché…”
“Ah, falla
finita!” sbottò subito interrompendolo
bruscamente, “A diciotto anni , è uno
dei miei sacrosanti diritti quello di essere incazzato.”
L’altro rise
spintonandolo allegro per un braccio, quel
braccio. Gemette di dolore senza riuscire a trattenersi: i
lividi recenti
pulsavano forte e i tagli da poco chiusi tiravano la pelle. Gli era
costata molto tutta quell'arroganza.
“Che hai?”
ripeté, spalancando gli occhi.
L’altro
sbuffò una risata senza aver il coraggio di guardarlo in
faccia. “Ma niente…
stamattina ho preso uno spigolo e adesso ho un bel livido: ovviamente
tu me
l’hai schiacciato per bene” commentò
ironico con una smorfia di dolore
esagerata.
Lo guardò
fintamente serio, con i suoi occhi chiari: “È
sicuramente colpa del tuo karma
negativo.”
“Ma
vaffanculo!” poi risero.
Siamo pieni di bugie, mamma, e
sensi di colpa…
Se
te l’avessi detto, se trovassi
il coraggio di dirtelo ora.
… rimpianti.
Si guardò
allo specchio, un giorno, e si piantò con forza le unghie
nella carne tenera
delle guance.
Guardò i
suoi occhi scuri, così scuri, e vide solo le bugie. Vide la
sua vita, quella
nascosta: i tagli aperti, i dolori sanguinanti.
Provò
disgusto, rabbia, odio… ebbe paura.
Ricordò le
bugie, quelle dette agli altri, quelle che si diceva la notte per
riuscire a
dormire…
Pensò che
niente aveva senso, che era tutto vuoto e sconfinato e troppo grande:
così
grande.
Pensò che
aveva paura di tutto quel vuoto, di tutta quella grandezza. Gli girava
tutto
intorno, come una giostra senza senso e gli sembrò di
diventare egli stesso un non senso.
Sentì di
essersi annullato col tempo, ucciso lentamente. Pianse e
singhiozzò forte, quasi
urlò accucciandosi a terra, cercando di ritrovarsi.
Tremò.
“Che palle,
di nuovo in ritardo!” esclamò a mo’ di
saluto un suo amico dal sorriso
scherzoso e i capelli chiari.
“Che hai
fatto agli occhi? Sono tutti rossi…”
domandò il suo migliore amico dagli occhi
azzurri e limpidi come l’acqua, Alessio.
Alessio che
aveva un nome per poter racchiudere il suo essere, aveva dei limiti,
dei
contorni, un odore e un sapore. Aveva il colore azzurro degli occhi, un
bel
carattere e tanti amici, ed era sincero, senza nessun segreto, con
occhi chiari
e belli come l’acqua.
Alessio
aveva un senso e non gli capitava mai di sentirsi solo in mezzo a tanta
gente o
di sentirsi tanto vuoto da desiderare di morire.
Ma Alessio
non era stupido e conosceva i limiti del suo carattere bruciato
– che aveva
contorni frastagliati e la consistenza della cenere – sapeva
quando aveva
qualcosa da nascondere.
“Che
hai fatto agli occhi? Sono
tutti rossi…”
“È colpa
dell’allergia” rispose subito e con sicurezza
“Sai, il polline…” fece una
smorfia disgustata e sarcasticamente troppo teatrale, indicando con un
gesto
vago la massa lanuginosa ai lati della strada.
Ridacchiarono
tutti e Alessio lo fissò: aveva imparato a capire quando
mentiva.
Vorrei
avere un bel nome anch’io, scrive su un quaderno, un nome bello come “Alessio”:
così deciso!
Inizia con la prima lettera dell’alfabeto,
dev’essere veramente sicuro di sé! E
poi la “l” con il suo suono pieno, la
“e” per ingentilire, le due “s”
sibilanti
e infine la “i” e la “o”: una
piacevole unione di vocali, per finire. Con un
nome del genere puoi mettere il punto, puoi far finire la frase.
Con un
nome come il mio, invece,
puoi solo mettere i puntini di sospensione – ormai non esiste. (Puoi far finire qualcosa
che non esiste?)
Non
conosco i miei limiti e non
posso circoscriverli con un nome, non servirebbe, non avrebbe senso ed
io sono
stanco di non avere più senso.
Vorrei
avere un bel nome, occhi
puliti e chiari come l’acqua, ma ormai è troppo
tardi e con troppo poco senso:
un nome non potrà riportarmi indietro.
---
Un giorno
Alessio lo andò a trovare a casa, e quando nessuno venne ad
aprire, aprì lui
stesso la porta con le chiavi che gli aveva dato. Andò a
trovarlo in un giorno
che non andava, uno di quelli in cui non riusciva a trovare un modo per
stare
bene e la notte non dormiva.
Lo trovò
accucciato a terra che cercava di raccogliersi – ma Alessio
questo non poteva
saperlo – non guardava nulla e tremava un po’.
Aveva qualche
taglio sul braccio, la faccia bagnata di lacrime, e per la prima volta
Alessio e
tutta la sua sicurezza con seppero che fare.
Restò fermo a guardarlo piangere e
farsi del male, grattandosi la pelle come se se la volesse strappare.
“Gli uomini
non piangono,” pensò scioccamente.
Restò a
guardarlo finché l’altro non si alzò in
piedi, barcollando; potevano essere
passati dieci secondi o una vita intera, Alessio non lo sapeva, ma quel
tempo
gli era parso infinito.
Lo superò e
andò ad accendersi una sigaretta perché tanto non
c’era nessuno e nessuno
poteva sgridarlo. Nessuno.
Alessio lo
guardò espirare fumo con la faccia bagnata di lacrime e
occhiaie scure a
incorniciargli il volto, vide le braccia pieni di lividi e di tagli
vecchi, vide i sottili rivoli di sangue seccarsi sulla pelle...
Ma lui non
sapeva, fino ad allora, di tutti quei segni impressi sulla pelle,
pensava –
sperava – che se li fosse fatti per sbaglio, per caso,
cadendo…
Sentì la
propria bocca emettere uno strano rantolo che riconobbe a stento come
suo e gli
occhi spalancarsi dolorosamente, iniziando a pizzicare. “Gli
uomini
non piangono,” pensò di nuovo, ma non ci fece caso.
“Mi dispiace,”
esalò alla fine, sbuffando fumo.
Alessio non
parlò, non aveva voce forse.
“Mi dispiace
di non essere quello che credevi e di non avere un nome bello come il
tuo… e i
tuoi occhi, così chiari e senza
segreti…” e sbuffò una risata amara
insieme ad
altro fumo grigio, “ma sai, io ne ho così tanti di
segreti e di bugie che non
mi trovo più.”
La sigaretta
tremò tra le sue dita “giuro, non mi trovo
più” sussurrò con una voce flebile e
spaurita che Alessio non volle credere fosse la sua.
“Mi sono
detto così tante bugie per andare avanti che ora non credo
più a quel che dico.
E mi sono fatto così male, Alessio, così male che
non mi perdonerò mai.”
Tossì e
spense la sigaretta, accendendone subito un’altra
Alessio
continuava a guardarlo e per la prima volta era lui ad avere paura, e
l’altro
potè vederla scavargli la faccia con forza.
“Tutto
questo non ha senso per te, vero?” continuò a
parlare, e sembrò leggere il pensiero di
Alessio. “Neanch’io ne ho e penso che
impazzirò perché non ho la forza di farlo
finire… non ce l’ho
più…” guardò le sue braccia
martoriate senza espressione,
poi si umettò le labbra compiaciuto e disse: “Ho
parlato tanto. Di solito non
lo faccio mai: non ho mai niente da dire.” Concluse ironico.
La
situazione intera non aveva senso: la posizione in cui fumava e il
sangue
ancora fresco che gli macchiava la pelle, il cielo grigio fuori dalla
finestra
e la tavola verde della cucina.
L’assurdità
di quel momento colpì con forza Alessio perché,
no, non poteva essere vero, non
poteva essere così orribile e… sbagliato. Non
poteva parlare di cose del genere
con una facilità del genere, come se non gli importasse,
come se prima non avesse
pianto in un modo così disperato.
“Tu…”
disse
Alessio vacillando sulle sue gambe e sulle sue sicurezze. “Tu
non puoi dire
cose del genere dopo… dopo tutto questo,” si mise
una mano tra i capelli, gli
occhi lucidi. “Io avrei dovuto fare qualcosa, capire molto
prima… io avrei
dovuto fare qualcosa!” urlò, disperato e
arrabbiato. Umiliato dalla sua cecità.
“Tutto
questo non ha senso,” esalò, perché,
davvero, non riusciva a trovarne uno.
“È
esattamente quello che volevo farti capire, Alessio” e si
compiacque di aver
messo il punto dopo il suo nome.
Alessio
pianse, pianse in piedi, incapace di fare altro. Pianse per tutte le
bugie in
cui aveva creduto, a cui - in fondo - aveva voluto credere.
“Ti ho
mentito sempre” sorrise di un sorriso triste, sporcato dal
fumo. “E ti ho
odiato, sai?” continuò implacabile, piangendo
menzogne.
“Ti ho odiato così
tanto, così tanto…”
Alzò lo
sguardo vide gli occhi che aveva sempre odiato e protetto,
guardò il volto del
suo migliore amico vomitare lacrime.
“Sei sempre stato tutto quello che io non
sarò mai.” Disse, e sembrò una condanna.
Non
aveva mai visto quegli occhi piangere, non aveva mai visto il loro
perfetto
colore farsi appannato e tremolante ed era colpa sua: li aveva
distrutti,
sporcati. E si sentì in colpa perché non avrebbe
mai dovuto trascinarli –
trascinarlo – così in basso, in tutta la
verità più grigia dell’asfalto, in
tutta la sua merda.
“Mi
dispiace” disse di nuovo, e non mentiva, “mi
dispiace” ma Alessio non lo
guardava più.
Guardò
fuori dalla finestra: il cielo era grigio, sembrava infinito.
“Potremmo
far finta che questo giorno non sia mai esistito.” Disse, e
Alessio lo guardò
di nuovo.
“Vaffanculo!
Sai che non potrei mai farlo” quasi urlò,
continuando a fissarlo incredulo e
arrabbiato, gli occhi ancora lucidi.
L’altro
sorrise, dolcemente, “Io potrei, in fondo è
facile, l’ho sempre fatto” lo disse
tranquillamente, quasi annoiato, sembrava non gli importasse nulla e
Alessio si
spaventò ancor di più. “Oppure potremmo
far finta che non sia successo nulla
con gli altri.” Continuò piano e non sorrideva
più, qualcosa di simile alla vergogna
nei suoi occhi scuri.
“Non
lo dirò a nessuno,” promise, e quasi tutta la sua
rabbia scivolò via,
“Promettimi solo che la prossima volta…”
ingoiò saliva, insicuro e spaventato,
“promettimi solo che la prossima volta mi
chiamerai.” E vide di nuovo la sicurezza
nei suoi occhi chiari, tutta la loro sincerità nel volerlo
aiutare. Lo odiò.
“Te
lo prometto,” mentì.
Siamo
pieni di bugie, mamma.
E
sensi di colpa, rimpianti, terribili verità…
“Potrei far finta che non sia mai successo. È
facile, lo faccio sempre.”
Un pomeriggio
ascoltava musica rock a volume
spacca timpani, sdraiato sul letto osservava le ombre sul letto, faceva
freddo.
Scrisse su un foglio: è meglio bruciare in
fretta che spegnersi lentamente*. E lui cercava davvero di fare
così: viveva al
limite, bruciava forte, ma solo in superficie, tanto che poi doveva
fare i
conti con le bruciature sulla pelle, la sera.
Bruciava forte e
poi non rimaneva che il fumo
negli occhi, sotto la pelle, non rimaneva altro. Diventava fumo e
fuggiva via.
Lo vedeva, lo capiva, sapeva di star
fuggendo, morendo. Ma non sapeva come agire, cosa dire, come urlare.
Si guardò allo specchio e non si riconobbe:
quanta paura in un paio di occhi.
“Perché l’hai rotto?” chiese
Alessio. I
frammenti di vetro riflettevano il suo volto, i suoi occhi chiari.
Tante
piccole accuse, tanti orribili rimpianti: i suoi, di occhi, erano
gorghi vuoti
e sterili.
Quanta rabbia…
“Non era mia, l’immagine che rifletteva”
disse calmo. Un sorriso normale, distorto da inutili frammenti.
“Promettimi
che quando… vorrai rifarlo, mi
chiamerai.”
“Te lo prometto.”
Ti ho detto così tante bugie, come puoi
credermi ancora? Gli veniva da ridere e piangere insieme.
“Perché
mi hai detto tutto, se poi non mi
permetti di aiutarti?” quasi lo urlò seguendolo in
camera, arrabbiato e deluso.
“Chi
cazzo ti credi di essere? Dio? Non puoi
risolvere i miei problemi.” Rise, cattivo.
“Smettila con queste stronzate!” stavolta
urlò davvero e distolse con forza lo sguardo dalle sue
braccia: da tutto quel sangue, dal dolore.
Si sedette sul
letto vicino a lui,
prendendosi la testa tra le mani.
“Mi fai sentire inutile, lo capisci?” disse
piano e lo guardò negli occhi, spaventato. “Quante
altre volte è successo?
Quanti altri tagli ti sei fatto?” supplicò, senza
la minima traccia di
sicurezza.
“Non
lo so,” disse in un soffio, e non mentì.
“Tu non vuoi farti aiutare, vero?” lo disse
calmo, senza intonazione, quasi paralizzato.
L’altro
non rispose, limitandosi a non
guardarlo. Alessio inghiottì saliva amaramente, lo sguardo
fisso nel vuoto.
“Tu… tu vuoi…” non finì la
frase, non
riuscì a farlo, ma quell’ultima parola non detta era nella stanza, tra di
loro e li divideva
come mai nient’altro aveva fatto.
“Tu vuoi morire?"
Parole mai dette.
L’altro
non rispose di nuovo, ma lo guardò
fisso negli occhi come mai aveva fatto, con una tale disperazione che
Alessio
pregò di non rivedere più.
“Allora cosa vuoi da me?”
“Che
qualcuno si ricordi di me per come sono
davvero.”
Riuscì a non mentire per una seconda volta.
Alessio si morse
un labbro con forza, gli
occhi lucidi e il sangue che rimbombava nelle orecchie. Non aveva mai
avuto
così tanta paura, né si era mai sentito
così inutile, cieco e stupido perché
era arrivato troppo tardi.
Nessuno dei due
l’aveva detto o chiesto, ma
entrambi lo sapevano. Era troppo tardi. Aveva considerato per anni
quella
persona il suo migliore amico, per poi capire di non averlo conosciuto
affatto.
Di essere stato tutto per lui, tranne che un buon amico.
Pianse
perché non sapeva che altro fare, che
cosa dire, cosa pensare, perché gli voleva bene. Lo
abbracciò di slancio,
tremando, avrebbe voluto urlare, ma non riuscì a dire nulla.
L’altro
l’abbracciò a sua volta, posando il
mento sulla sua spalla e guardando altrove. Non riusciva più
a piangere per se
stesso, il tempo era passato, l’aveva annullato –
logorato – e di sé erano
rimasti solo un paio di occhi che odiava.
“Ricordati
di me” disse piano all’orecchio
dell’amico, “e ricordati che ci sono molti modi per
morire,” aggiunse, e
Alessio non lo capì, ma pianse più forte, il
petto scosso dai singhiozzi.
I suoi occhi
azzurri e trasparenti erano
rossi, tremolanti, e non sarebbero più stati limpidi e
chiari come l’acqua, mai
più senza segreti.
Il ragazzo senza nome lo sapeva e se ne
dispiaceva, ma non sapeva che altro regalargli.
---
Alessio fumava
una sigaretta lentamente,
senza fretta, buttò il filtro sull’asfalto grigio,
sporco, e si chiese cosa
avesse provato lui a ripensare alle sue bugie più sporche di
quel cemento.
Alessio
aspettava perché ormai arrivava
sempre prima in ogni cosa, sempre con mezz’ora di anticipo
perché non voleva
più essere in ritardo per nulla, mai più.
Si
alzò dalla panchina solo quando vide
arrivare tutti i suoi amici e ripensò a tutte le volte in
cui avevano aspettato
l’altro, ma ormai non ce n’era più
bisogno. Era arrivato troppo tardi. Si chiese se si sarebbe mai
abituato alla sua assenza.
“Dov’è
Lorenzo?” chiese un
suo amico guardandosi intorno, “Dobbiamo aspettarlo per
la solita mezz’ora?” chiese, e
ridacchiò, ignaro.
Alessio ne fu
infastidito e lo guardò, i suoi
occhi erano ancora azzurri, ma non più così
limpidi - e questo era un suo regalo, lo
sapeva, come sapeva che nel suo nome non c’era veramente
nulla di lui. Tutto
quello che gli altri sapevano era il suo nome e tutte le bugie
ad esso
legate, un nome, Lorenzo, che non significava nulla. Nulla. La sua vita
si era nascosta, il tempo l'aveva logorata - gli aveva detto un giorno
- e aveva finito per perdersi senza nemmeno ricordarsi quando era
cominciato tutto.
L’aveva chiamato centinaia di volte, ma lui non aveva mai risposto, non si riconosceva più nel suo nome che era una bugia. L'avevano annullato, distrutto, e Lorenzo non sapeva come ritornare, ma sapeva che era troppo tardi e gliel'aveva detto, gliel'aveva detto il giorno in cui gli aveva detto 'ciao' mettendogli un pacchetto di sigarette in mano. Alessio non aveva detto nulla, nulla, e arrivato a casa aveva pianto per lui, al posto suo.
“Non
te ne andare” gli aveva chiesto
(supplicato) un giorno.
“Io non ci sono mai stato” gli aveva risposto
e non c’era più niente nei suoi occhi: se
n’era andato davvero.
In quel momento
Alessio capì il senso della sua ultima frase.
“Lui
non verrà” disse spiccio con una
sicurezza che lasciò interdetti gli altri.
“Sicuro.” concluse Alessio e i suoi occhi
non sembravano azzurri, ma forse era il fumo della sigaretta che li
offuscava.
Quant’era
il ritardo che aveva adesso con la
vita? Come ci si può sentire a morire lentamente? Cosa si
prova a marcire dentro? A mentire? Di che colore è
l'acqua per un affogato? Alessio non
aveva risposte,
ma solo un anticipo sulla vita che non lo avrebbe salvato
e un nome che non
poteva richiamare nessuno.
Siamo pieni di
bugie, mamma.
E sensi di colpa, rimpianti,
verità più
sporche del cemento…