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Autore: Red S i n n e r    10/09/2011    1 recensioni
Una storia sbagliata, frammenti di una storia sbagliata e dolorosa.
“È troppo forte la vita, così crudele. È come il mare: scorre sempre, non si ferma. Al mare non importa di accarezzare gli scogli; alla vita non importa di far meno male.”
Viveva al limite fino a farsi male davvero, accettando il dolore come fa la risacca del mare scontrandosi contro gli scogli della vita: cercando di far loro tutto il male possibile.

[Attenzione, trattazione di argomenti forti: autolesionismo.]
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E' meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente, è una frase scritta da Kurt Cobain nella sua lettera di addio, ed è ripresa da un verso della canzone "My My Hey Hey"di Neil Young.
Buona lettura,
Red.
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Viveva tutto come se fosse l’ultima volta, lui, con una passione che rasentava la disperazione.

Fumo e rabbia.


 

Ogni mattina fumava quattro sigarette, così, senza un perché.
Ne fumava una dopo l’altra, consumandole fino al filtro, poi le gettava a terra noncurante.
Quando qualcuno lo vedeva la battuta: “Prendi fiato, almeno!” era d’obbligo e lui sorrideva, con la mano appoggiata al mento. Sorrideva e diceva: “Respiro dopo!”, ma poi non respirava, non respirava mai.
Osservava assorto il fumo salire in lente spirali e la cenere cadere. Guardava, sinceramente interessato, la sigaretta consumarsi e si chiedeva, come ogni volta, come ci si potesse sentire a bruciare lentamente.
Un’ultima boccata: il fumo che usciva dalle labbra secche in sbuffi.
Osservava il filtro rotolare sull’asfalto e si chiedeva come ci si potesse sentire ad essere buttati via.
I pensieri possono far male, lo sapeva bene, la mente può uccidere prendendo il controllo del corpo e del suo patetico istinto di sopravvivenza: poteva pensare di bruciare e trasformarsi in cenere, trasformarsi veramente.  Poteva domandarsi all’infinto come sarebbe stato morire ed iniziare a morire dentro, nelle pieghe del suo essere; poteva iniziare a marcire e nessuno mai se ne sarebbe accorto.

Sarebbe rimasto un segreto, e i segreti rimangono tali.

 Afferrò il pacchetto con mani tremanti e ne accese un’altra.
Chiuse gli occhi, dolorante, e il cielo color cenere sembrò aspirare il fumo grigio che sbuffava via. Il cielo grigio sembrò tutto un mondo di dolore, pronto a soffocarlo con la cenere: aspirando tutto il suo essere, portandolo via.
Il cuore batteva forte e le mani tremavano un po’, sempre un po’ di più, e la bocca si apriva in un urlo senza voce, ma la gente continuava a vivere e parlare, ridere e sperare, quindi andava tutto bene. Tutto bene.
Eppure aveva paura, una fottuta paura, si artigliò il petto con la scusa di sistemarsi i bottoni del cappotto – attento fino all’inverosimile all’attenzione della gente che nemmeno lo guardava – e cercò un modo corretto di respirare, stretto dalle spire di un essere invisibile.
Si faceva pena, seduto scompostamente su quei gradini di un bianco sporco, a cercare di respirare mentre il mondo se ne fregava.
E un po’ si sentiva in colpa per quei pensieri arroganti, quasi egocentrici, quando affermava che parlare era inutile perché nessuno capiva: chi era lui per dire di non capire?
Lui che mai aveva capito nulla e che portava addosso segreti più sporchi dell’asfalto bagnato in una giornata qualunque.

Fumava lentamente, sforzandosi di non emettere suoni strozzati, nessuno avrebbe dovuto sentirlo, nessuno avrebbe dovuto vederlo, e i suoi segreti sarebbero stati liberi di marcire in silenzio.

 

 
Arrivava sempre tardi, lui, soprattutto agli appuntamenti con gli amici, e arrivava sempre fumando.
Gli altri lo salutavano ridendo, facendogli notare la puntualità del suo ritardo: trenta minuti, erano sempre trenta minuti.
Lui sorrideva ed annuiva (perché i segreti devono rimanere tali).
Parlava tranquillamente con gli amici di sempre, ridendo alle battute senza affanno e senza paura e si sentiva in colpa quando, d’un tratto, si sentiva solo in mezzo a tanta gente.
Si sentiva in colpa e provava a ridere, ma gli occhi si riempivano di stupido rimpianto, il rimpianto di non poterla proprio vivere quella vita.
Fissava il vuoto e tremava in silenzio, guardando le sigarette gettate a terra come tanti piccoli cadaveri.

 

---

 

“Di che colore è l’acqua per un affogato?” lo chiese un giorno al suo migliore amico, guardando il proprio riflesso nel vetro della finestra.
L’altro lo guardò stralunato, fregandogli una sigaretta dal pacchetto appena aperto: “L’acqua cambia colore? Che razza di domanda è?” Sbuffò una risata insieme ad una boccata di fumo, osservandolo.
L’altro non si voltò “Non credi che la morte possa farci cambiare il modo in cui vediamo le cose? Non credi che per un uomo che sta morendo affogato l’acqua acquisti un colore diverso, un diverso significato?”
L’amico soppesò la domanda con sguardo incerto. “Forse,” proclamò infine “ma noi non lo sapremo mai, ti pare?”  Lo guardò alla ricerca di conferme, insicuro, con una punta di paura negli occhi chiari.

“Hai ragione” gli disse infine, cercando di sorridergli alla buona; l’altro sembrò più tranquillo.

 
Non vuoi morire, vero?
Parole mai dette, silenzi che urlano parole mai dette.

“Non vuoi morire, vero?”

 

 

 Una serata come tante, lui guardava fuori dalla finestra.
“… Che poi non l’ho mai capita, io, la depressione.” Affermò sua madre, “Se hai un problema devi risolverlo, c’è poco da fare, no?”
L’umiliazione, il risentimento. La colpa.
“Non siamo tutti uguali, mamma. C’è chi nasce debole.” Parlò a bassa voce, guardando il pavimento.
Sua madre sbuffò poco convinta, lui tacque.

Domande mai fatte.
“E tu, tu sei debole?”

"Mamma, siamo pieni di bugie," c’è scritto questo su un quaderno dimenticato. C’è scritto così tante volte che ha perso di significato.

 


Alle volte fa fatica a respirare, la notte, quando tutto sembra essere troppo pesante e lento per essere sopportato. Ma è nel buio della sua camera che può essere davvero se stesso e singhiozza forte, la notte, e si morde il braccio per non urlare.
Trenta morsi sul braccio, sempre trenta. Trenta i minuti di ritardo che ha con la vita.

Mamma, siamo pieni di bugie…
E di rimpianto, senso di colpa.

 

Giuro che non ci riesco” scriveva su qualche foglio ormai dimenticato. “ Ho paura di cose sbagliate: la vita, la vita, la vita..! È troppo grande, la vita, e senza senso, ma il cielo è azzurro, la gente ride e va tutto bene.
Passerà, passerà.” Mentiva.
Erano solo bugie-della-buonanotte, quelle. Mentiva sempre, sempre. Soprattutto a se stesso. “Siamo pieni di bugie” c’è scritto su quel quaderno.

 

---

 

“A che pensi?” glielo chiese il suo amico dagli occhi azzurri.
“Ho paura.” Rispose assurdamente, sperando di poter avere occhi chiari e limpidi da poter mostrare in giro e urlare: Ho occhi puliti! Come l’acqua!

Ma di che colore è l’acqua, per un affogato?

“Di che cosa?” gli chiese allora l’altro, calmo nei suoi occhi azzurri che non nascondevano nulla… nulla! Quanta rabbia, quanta rabbia!
“Non lo so,” e fece un sorriso buffo inadatto alla situazione e ai suoi pensieri. Inadatto come sempre per questo schematico e banale.

 

Cercava emozioni forti, la passione in ogni cosa, ricercava un mondo al limite per poter vivere una vita illimitata.
Alcool a volontà: come se non avesse nulla da nascondere.
Sigarette a non finire: come se la morte fosse così lontana da non riuscire a far paura, come se la morte gli facesse davvero paura.
Rideva tranquillo, gli occhi scuriti da bugie e alcool, rideva con persone dagli occhi puliti e si sentiva stupido e dannatamente debole quando poi non riusciva a guardare il suo riflesso nello specchio e la notte tremava.

 

La vita mi uccide” lo ha scritto sul muro, dietro al letto, con una calligrafia minuscola che quasi non esiste.
È troppo forte la vita, così crudele. È come il mare: scorre sempre, non si ferma. Al mare non importa di accarezzare gli scogli; alla vita non importa di far meno male.
Viveva al limite fino a farsi male davvero, accettando il dolore come fa la risacca del mare scontrandosi contro gli scogli della vita: cercando di far loro tutto il male possibile.
 

---

 

“È interessante” disse in un giorno come un altro. Fissava gli occhi azzurri del suo amico e li odiava. Li odiava quando avrebbe dato la sua vita per salvare dal mondo quegli occhi chiari come l’acqua.
“Che cosa è interessante?”

“È tutto il contrario, tutto sbagliato e tutto come pensavo sarebbe stato. Non è interessante?” ridacchiò appena, dondolando la testa.
L’altro lo guardò a sua volta, incerto se prenderlo sul serio o meno.
“Che palle, parla chiaramente!” rise, cercando di credere davvero che fosse uno scherzo, ma lo sapeva bene che qualcosa non andava, che non andava da tempo, che il suo amico stava andando via e che scorreva tra le dita come cenere.

L’altro rise, osservando i suoi occhi chiari tingersi e sporcarsi di preoccupazione e li odiò, lo odiò perché non gli chiedeva mai nulla, perché rispettava i suoi tempi. Perché rispettava lui e tutto il suo dolore che non poteva quantificare, vedere, curare.

Odiò il suo stesso riflesso in quegli occhi puliti, si vide in quegli occhi alieni e si sentì sbagliato, più della situazione che era al contrario, più della vita che lo distruggeva con la banalità di un giorno qualunque.
Paradossalmente si sentì “giusto” senza nemmeno aver provato a esserlo.
Era giusto essere sbagliati se la vita uccideva invece di scorrere, oppure scorreva, scorreva però logorava. Come il tempo.
Si sentì speciale con quella strana e nuova sensazione che aveva addosso, come un vestito per la festa, comprato su misura: finalmente perfetto, finalmente essenziale.

Guardò il suo riflesso finché non vide più nulla: la vita era passata, logorandolo, e il vestito ormai gli stava stretto. Se ne liberò con fastidio, godendosi gli ultimi strascichi dell’euforia di sentirsi speciali.
Poi sentì freddo: ad essere speciali si stava troppo in alto e, senza vestito, si gelava l’anima.
Guardò il suo riflesso e rivide il suo banale e ridicolo sorriso, che non era nulla più di una smorfia.
Rivide i quegli occhi solo la loro chiarezza e li odiò. Lo avrebbe ucciso per avere quegli occhi, si sarebbe ucciso più volte per poterli guardare sempre.

Ci sarebbe stato da piangere e decise che l’avrebbe fatto, quella notte stessa, e chissà quante punizioni gli sarebbe costato aver avuto l’arroganza di sentirsi speciale.

Ci sarebbe stato da piangere, avrebbe dovuto piangere per sé.

Decise che non l’avrebbe fatto.

 

--- 

 

Camminavano tranquilli, in un pomeriggio primaverile come tanti. Lui fumava pigramente una sigaretta chiacchierando assente, l’altro se ne accorse: i suoi occhi limpidi non erano mai stati ostacolati dal fumo.
“Che hai?”, lo chiese a bruciapelo, cercando di leggere qualcosa sul suo volto.

“Niente,” replicò con tranquillità, “Che dovrei avere?”
“Ti vedo assente” replicò attento, stupidamente impaurito.
“Sono incazzato, tutto qua” buttò la cicca a terra e spense il filtro con un piede.
“E perché…”

“Ah, falla finita!” sbottò subito interrompendolo bruscamente, “A diciotto anni , è uno dei miei sacrosanti diritti quello di essere incazzato.”
L’altro rise spintonandolo allegro per un braccio, quel braccio. Gemette di dolore senza riuscire a trattenersi: i lividi recenti pulsavano forte e i tagli da poco chiusi tiravano la pelle. Gli era costata molto tutta quell'arroganza.

“Che hai?” ripeté, spalancando gli occhi.
L’altro sbuffò una risata senza aver il coraggio di guardarlo in faccia. “Ma niente… stamattina ho preso uno spigolo e adesso ho un bel livido: ovviamente tu me l’hai schiacciato per bene” commentò ironico con una smorfia di dolore esagerata.

Lo guardò fintamente serio, con i suoi occhi chiari: “È sicuramente colpa del tuo karma negativo.”
“Ma vaffanculo!” poi risero.

 Sto mentendo, si ritrovò ad urlare con gli occhi. Guardami!, sembrava supplicare – eppure rideva.

Siamo pieni di bugie, mamma, e sensi di colpa…
Se te l’avessi detto, se trovassi il coraggio di dirtelo ora.
… rimpianti.  

--- 

 

Si guardò allo specchio, un giorno, e si piantò con forza le unghie nella carne tenera delle guance.
Guardò i suoi occhi scuri, così scuri, e vide solo le bugie. Vide la sua vita, quella nascosta: i tagli aperti, i dolori sanguinanti.
Provò disgusto, rabbia, odio… ebbe paura.
Ricordò le bugie, quelle dette agli altri, quelle che si diceva la notte per riuscire a dormire…

Pensò che niente aveva senso, che era tutto vuoto e sconfinato e troppo grande: così grande.
Pensò che aveva paura di tutto quel vuoto, di tutta quella grandezza. Gli girava tutto intorno, come una giostra senza senso e gli sembrò di diventare egli stesso un non senso.
Sentì di essersi annullato col tempo, ucciso lentamente. Pianse e singhiozzò forte, quasi urlò accucciandosi a terra, cercando di ritrovarsi.
Tremò.

 ---

 

 

“Che palle, di nuovo in ritardo!” esclamò a mo’ di saluto un suo amico dal sorriso scherzoso e i capelli chiari.
“Che hai fatto agli occhi? Sono tutti rossi…” domandò il suo migliore amico dagli occhi azzurri e limpidi come l’acqua, Alessio.

Alessio che aveva un nome per poter racchiudere il suo essere, aveva dei limiti, dei contorni, un odore e un sapore. Aveva il colore azzurro degli occhi, un bel carattere e tanti amici, ed era sincero, senza nessun segreto, con occhi chiari e belli come l’acqua.
Alessio aveva un senso e non gli capitava mai di sentirsi solo in mezzo a tanta gente o di sentirsi tanto vuoto da desiderare di morire.

Ma Alessio non era stupido e conosceva i limiti del suo carattere bruciato – che aveva contorni frastagliati e la consistenza della cenere – sapeva quando aveva qualcosa da nascondere.
“Che hai fatto agli occhi? Sono tutti rossi…”

“È colpa dell’allergia” rispose subito e con sicurezza “Sai, il polline…” fece una smorfia disgustata e sarcasticamente troppo teatrale, indicando con un gesto vago la massa lanuginosa ai lati della strada.
Ridacchiarono tutti e Alessio lo fissò: aveva imparato a capire quando mentiva.

 

 

Vorrei avere un bel nome anch’io, scrive su un quaderno, un nome bello come “Alessio”: così deciso! Inizia con la prima lettera dell’alfabeto, dev’essere veramente sicuro di sé! E poi la “l” con il suo suono pieno, la “e” per ingentilire, le due “s” sibilanti e infine la “i” e la “o”: una piacevole unione di vocali, per finire. Con un nome del genere puoi mettere il punto, puoi far finire la frase.

Con un nome come il mio, invece, puoi solo mettere i puntini di sospensione – ormai non esiste.  (Puoi far finire qualcosa che non esiste?)

Non conosco i miei limiti e non posso circoscriverli con un nome, non servirebbe, non avrebbe senso ed io sono stanco di non avere più senso.

Vorrei avere un bel nome, occhi puliti e chiari come l’acqua, ma ormai è troppo tardi e con troppo poco senso: un nome non potrà riportarmi indietro.

 

---

 

 

Un giorno Alessio lo andò a trovare a casa, e quando nessuno venne ad aprire, aprì lui stesso la porta con le chiavi che gli aveva dato. Andò a trovarlo in un giorno che non andava, uno di quelli in cui non riusciva a trovare un modo per stare bene e la notte non dormiva.

Lo trovò accucciato a terra che cercava di raccogliersi – ma Alessio questo non poteva saperlo – non guardava nulla e tremava un po’.

Aveva qualche taglio sul braccio, la faccia bagnata di lacrime, e per la prima volta Alessio e tutta la sua sicurezza con seppero che fare.
Restò fermo a guardarlo piangere e farsi del male, grattandosi la pelle come se se la volesse strappare. “Gli uomini non piangono,” pensò scioccamente.

Restò a guardarlo finché l’altro non si alzò in piedi, barcollando; potevano essere passati dieci secondi o una vita intera, Alessio non lo sapeva, ma quel tempo gli era parso infinito.

Lo superò e andò ad accendersi una sigaretta perché tanto non c’era nessuno e nessuno poteva sgridarlo. Nessuno.

Alessio lo guardò espirare fumo con la faccia bagnata di lacrime e occhiaie scure a incorniciargli il volto, vide le braccia pieni di lividi e di tagli vecchi, vide i sottili rivoli di sangue seccarsi sulla pelle...  Ma lui non sapeva, fino ad allora, di tutti quei segni impressi sulla pelle, pensava – sperava – che se li fosse fatti per sbaglio, per caso, cadendo…

Sentì la propria bocca emettere uno strano rantolo che riconobbe a stento come suo e gli occhi spalancarsi dolorosamente, iniziando a pizzicare. “Gli uomini non piangono,” pensò di nuovo, ma non ci fece caso.

“Mi dispiace,” esalò alla fine, sbuffando fumo.

Alessio non parlò, non aveva voce forse.

“Mi dispiace di non essere quello che credevi e di non avere un nome bello come il tuo… e i tuoi occhi, così chiari e senza segreti…” e sbuffò una risata amara insieme ad altro fumo grigio, “ma sai, io ne ho così tanti di segreti e di bugie che non mi trovo più.”
La sigaretta tremò tra le sue dita “giuro, non mi trovo più” sussurrò con una voce flebile e spaurita che Alessio non volle credere fosse la sua.

“Mi sono detto così tante bugie per andare avanti che ora non credo più a quel che dico. E mi sono fatto così male, Alessio, così male che non mi perdonerò mai.”

Tossì e spense la sigaretta, accendendone subito un’altra

Alessio continuava a guardarlo e per la prima volta era lui ad avere paura, e l’altro potè vederla scavargli la faccia con forza.
“Tutto questo non ha senso per te, vero?” continuò a parlare, e sembrò leggere il pensiero di Alessio. “Neanch’io ne ho e penso che impazzirò perché non ho la forza di farlo finire… non ce l’ho più…” guardò le sue braccia martoriate senza espressione, poi si umettò le labbra compiaciuto e disse: “Ho parlato tanto. Di solito non lo faccio mai: non ho mai niente da dire.” Concluse ironico.

La situazione intera non aveva senso: la posizione in cui fumava e il sangue ancora fresco che gli macchiava la pelle, il cielo grigio fuori dalla finestra e la tavola verde della cucina.

L’assurdità di quel momento colpì con forza Alessio perché, no, non poteva essere vero, non poteva essere così orribile e… sbagliato. Non poteva parlare di cose del genere con una facilità del genere, come se non gli importasse, come se prima non avesse pianto in un modo così disperato.

“Tu…” disse Alessio vacillando sulle sue gambe e sulle sue sicurezze. “Tu non puoi dire cose del genere dopo… dopo tutto questo,” si mise una mano tra i capelli, gli occhi lucidi. “Io avrei dovuto fare qualcosa, capire molto prima… io avrei dovuto fare qualcosa!” urlò, disperato e arrabbiato. Umiliato dalla sua cecità.

“Tutto questo non ha senso,” esalò, perché, davvero, non riusciva a trovarne uno.
“È esattamente quello che volevo farti capire, Alessio” e si compiacque di aver messo il punto dopo il suo nome.

Alessio pianse, pianse in piedi, incapace di fare altro. Pianse per tutte le bugie in cui aveva creduto, a cui - in fondo - aveva voluto credere.
“Mi dispiace” disse di nuovo il ragazzo senza nome e senza senso, perché forse non gli era rimasto altro se non dispiacersi.

“Ti ho mentito sempre” sorrise di un sorriso triste, sporcato dal fumo. “E ti ho odiato, sai?” continuò implacabile, piangendo menzogne. 
“Ti ho odiato così tanto, così tanto…”
Alzò lo sguardo vide gli occhi che aveva sempre odiato e protetto, guardò il volto del suo migliore amico vomitare lacrime.

“Sei sempre stato tutto quello che io non sarò mai.” Disse, e sembrò una condanna.

Non aveva mai visto quegli occhi piangere, non aveva mai visto il loro perfetto colore farsi appannato e tremolante ed era colpa sua: li aveva distrutti, sporcati. E si sentì in colpa perché non avrebbe mai dovuto trascinarli – trascinarlo – così in basso, in tutta la verità più grigia dell’asfalto, in tutta la sua merda.

“Mi dispiace” disse di nuovo, e non mentiva, “mi dispiace” ma Alessio non lo guardava più.

Guardò fuori dalla finestra: il cielo era grigio, sembrava infinito.

“Potremmo far finta che questo giorno non sia mai esistito.” Disse, e Alessio lo guardò di nuovo.

“Vaffanculo! Sai che non potrei mai farlo” quasi urlò, continuando a fissarlo incredulo e arrabbiato, gli occhi ancora lucidi.

L’altro sorrise, dolcemente, “Io potrei, in fondo è facile, l’ho sempre fatto” lo disse tranquillamente, quasi annoiato, sembrava non gli importasse nulla e Alessio si spaventò ancor di più. “Oppure potremmo far finta che non sia successo nulla con gli altri.” Continuò piano e non sorrideva più, qualcosa di simile alla vergogna nei suoi occhi scuri.

“Non lo dirò a nessuno,” promise, e quasi tutta la sua rabbia scivolò via, “Promettimi solo che la prossima volta…” ingoiò saliva, insicuro e spaventato, “promettimi solo che la prossima volta mi chiamerai.” E vide di nuovo la sicurezza nei suoi occhi chiari, tutta la loro sincerità nel volerlo aiutare. Lo odiò.

“Te lo prometto,” mentì.

Siamo pieni di bugie, mamma.
E sensi di colpa, rimpianti, terribili verità…
“Potrei far finta che non sia mai successo. È facile, lo faccio sempre.”

---

Un pomeriggio ascoltava musica rock a volume spacca timpani, sdraiato sul letto osservava le ombre sul letto, faceva freddo.
Scrisse su un foglio: è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente*. E lui cercava davvero di fare così: viveva al limite, bruciava forte, ma solo in superficie, tanto che poi doveva fare i conti con le bruciature sulla pelle, la sera.

Bruciava forte e poi non rimaneva che il fumo negli occhi, sotto la pelle, non rimaneva altro. Diventava fumo e fuggiva via.
Lo vedeva, lo capiva, sapeva di star fuggendo, morendo. Ma non sapeva come agire, cosa dire, come urlare.
Si guardò allo specchio e non si riconobbe: quanta paura in un paio di occhi.

 
“Perché l’hai rotto?” chiese Alessio. I frammenti di vetro riflettevano il suo volto, i suoi occhi chiari. Tante piccole accuse, tanti orribili rimpianti: i suoi, di occhi, erano gorghi vuoti e sterili.
Quanta rabbia…
“Non era mia, l’immagine che rifletteva” disse calmo. Un sorriso normale, distorto da inutili frammenti.

---

“Promettimi che quando… vorrai rifarlo, mi chiamerai.”
“Te lo prometto.”

Ti ho detto così tante bugie, come puoi credermi ancora? Gli veniva da ridere e piangere insieme.

 ---

“Perché mi hai detto tutto, se poi non mi permetti di aiutarti?” quasi lo urlò seguendolo in camera, arrabbiato e deluso.

“Chi cazzo ti credi di essere? Dio? Non puoi risolvere i miei problemi.” Rise, cattivo.
“Smettila con queste stronzate!” stavolta urlò davvero e distolse con forza lo sguardo dalle sue braccia: da tutto quel sangue, dal dolore.

Si sedette sul letto vicino a lui, prendendosi la testa tra le mani.
“Mi fai sentire inutile, lo capisci?” disse piano e lo guardò negli occhi, spaventato. “Quante altre volte è successo? Quanti altri tagli ti sei fatto?” supplicò, senza la minima traccia di sicurezza.

“Non lo so,” disse in un soffio, e non mentì.
“Tu non vuoi farti aiutare, vero?” lo disse calmo, senza intonazione, quasi paralizzato.

L’altro non rispose, limitandosi a non guardarlo. Alessio inghiottì saliva amaramente, lo sguardo fisso nel vuoto. “Tu… tu vuoi…”  non finì la frase, non riuscì a farlo, ma quell’ultima parola non detta  era nella stanza, tra di loro e li divideva come mai nient’altro aveva fatto.

“Tu vuoi morire?"
Parole mai dette.

L’altro non rispose di nuovo, ma lo guardò fisso negli occhi come mai aveva fatto, con una tale disperazione che Alessio pregò di non rivedere più.
“Allora cosa vuoi da me?”

“Che qualcuno si ricordi di me per come sono davvero.”
Riuscì a non mentire per una seconda volta.

Alessio si morse un labbro con forza, gli occhi lucidi e il sangue che rimbombava nelle orecchie. Non aveva mai avuto così tanta paura, né si era mai sentito così inutile, cieco e stupido perché era arrivato troppo tardi.

Nessuno dei due l’aveva detto o chiesto, ma entrambi lo sapevano. Era troppo tardi. Aveva considerato per anni quella persona il suo migliore amico, per poi capire di non averlo conosciuto affatto. Di essere stato tutto per lui, tranne che un buon amico.

Pianse perché non sapeva che altro fare, che cosa dire, cosa pensare, perché gli voleva bene. Lo abbracciò di slancio, tremando, avrebbe voluto urlare, ma non riuscì a dire nulla.

L’altro l’abbracciò a sua volta, posando il mento sulla sua spalla e guardando altrove. Non riusciva più a piangere per se stesso, il tempo era passato, l’aveva annullato – logorato – e di sé erano rimasti solo un paio di occhi che odiava.

“Ricordati di me” disse piano all’orecchio dell’amico, “e ricordati che ci sono molti modi per morire,” aggiunse, e Alessio non lo capì, ma pianse più forte, il petto scosso dai singhiozzi.

I suoi occhi azzurri e trasparenti erano rossi, tremolanti, e non sarebbero più stati limpidi e chiari come l’acqua, mai più senza segreti.
Il ragazzo senza nome lo sapeva e se ne dispiaceva, ma non sapeva che altro regalargli.

---

 

 

Alessio fumava una sigaretta lentamente, senza fretta, buttò il filtro sull’asfalto grigio, sporco, e si chiese cosa avesse provato lui a ripensare alle sue bugie più sporche di quel cemento.

Alessio aspettava perché ormai arrivava sempre prima in ogni cosa, sempre con mezz’ora di anticipo perché non voleva più essere in ritardo per nulla, mai più.

Si alzò dalla panchina solo quando vide arrivare tutti i suoi amici e ripensò a tutte le volte in cui avevano aspettato l’altro, ma ormai non ce n’era più bisogno. Era arrivato troppo tardi. Si chiese se si sarebbe mai abituato alla sua assenza.

“Dov’è Lorenzo?” chiese un suo amico guardandosi intorno, “Dobbiamo aspettarlo per la solita mezz’ora?” chiese, e ridacchiò, ignaro.

Alessio ne fu infastidito e lo guardò, i suoi occhi erano ancora azzurri, ma non più così limpidi - e questo era un suo regalo, lo sapeva, come sapeva che nel suo nome non c’era veramente nulla di lui. Tutto quello che gli altri sapevano era il suo nome e tutte le bugie ad esso legate, un nome, Lorenzo, che non significava nulla. Nulla. La sua vita si era nascosta, il tempo l'aveva logorata - gli aveva detto un giorno - e aveva finito per perdersi senza nemmeno ricordarsi quando era cominciato tutto.

L’aveva chiamato centinaia di volte, ma lui non aveva mai risposto, non si riconosceva più nel suo nome che era una bugia. L'avevano annullato, distrutto, e Lorenzo non sapeva come ritornare, ma sapeva che era troppo tardi e gliel'aveva detto, gliel'aveva detto il giorno in cui gli aveva detto 'ciao' mettendogli un pacchetto di sigarette in mano. Alessio non aveva detto nulla, nulla, e arrivato a casa aveva pianto per lui, al posto suo.

“Non te ne andare” gli aveva chiesto (supplicato) un giorno.
“Io non ci sono mai stato” gli aveva risposto e non c’era più niente nei suoi occhi: se n’era andato davvero.
In quel momento Alessio capì il senso della sua ultima frase. 

“Lui non verrà” disse spiccio con una sicurezza che lasciò interdetti gli altri.

“Sicuro?” chiese un suo amico.
“Sicuro.” concluse Alessio e  i suoi occhi non sembravano azzurri, ma forse era il fumo della sigaretta che li offuscava.

Quant’era il ritardo che aveva adesso con la vita? Come ci si può sentire a morire lentamente? Cosa si prova a marcire dentro? A mentire?  Di che colore è l'acqua per un affogato? Alessio non aveva risposte, ma solo un anticipo sulla vita che non lo avrebbe salvato e un nome che non poteva richiamare nessuno.

 

Siamo pieni di bugie, mamma.
E sensi di colpa, rimpianti, verità più sporche del cemento…

“Io non ci sono mai stato.”
… dolore.

 C'è scritto così su un quaderno dimenticato. C'è scritto così tante volte che ormai ha perso di significato.

 

 

 

   
 
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