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Autore: Night Sins    11/09/2011    1 recensioni
Conoscevo Beo solo da sette mesi, ossia da quando si era trasferito nella nostra scuola, a anno già iniziato.
Non dirò che è stata una di quelle storie da «e l’unico banco libero era quello accanto al mio e diventammo subito grandi amici», anzi, non mi accorsi nemmeno di quando arrivò - non per cattiveria, stavo dormendo, per niente preoccupato dal compito di Castellano che ci sarebbe stato di lì a due ore.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Autobiografia di un grande -egocentrico- attore 
Fandom: Originale - Generale
Personaggi: Alejandro, Javier, Melibeo
Pairing: pre-Javier/Melibeo, Alejandro/Evanthea
Rating: PG
Genere: generale, introspettivo
Avvertimenti: pre-slash
Prompt: Melibeo: significato Colui che cura i buoi (origine greca) per la challenge Dal nome alla storia (only slash), sul forum di EFP
Conteggio Parole: 4097
Ringraziamenti: a ioio10 per l'appoggio, specie sulle ricerce sul Bachillerato. XD
Disclaimer: I personaggi non sono miei (così come la storia)! E' tutto nato dalla mia mente malata, quindi vi consiglio di non prendere nulla... per il vostro bene -sono dotati di una propria e forte personalità, potrebbero farvi diventar pazzi. ;D "Io scherzo... forse." (cit. A.Costa)
Note: è ambientata in Spagna, l'ho deciso prima di informarmi sul sistema scolastico spagnolo e mi son ritrovata con alcune 'lacune' che nemmeno Google è riuscito a risolvere, quindi diciamo che ho dovuto prendermi delle licenze. XD Scusate le inesattezze... spero non ce ne siano troppe o troppo gravi. ò.ò



Mi ero sempre chiesto perché Melibeo ostentasse sempre quel sorriso e quell’aria remissiva anche quando la situazione avrebbe richiesto niente di meno di un bel ‘vaffanculo’ gridato col cuore - e magari una porta sbattuta di tutta forza, ma mi sa che io sia un tipo troppo teatrale.
Eppure, benché fossi avvezzo ai lavori di finzione e fantasia, non riuscivo a immaginare quale potesse essere la causa di tutto quell’essere remissivo.
Conoscevo Beo solo da sette mesi, ossia da quando si era trasferito nella nostra scuola, a anno già iniziato.
Non dirò che è stata una di quelle storie da «e l’unico banco libero era quello accanto al mio e diventammo subito grandi amici», anzi, non mi accorsi nemmeno di quando arrivò - non per cattiveria, stavo dormendo, per niente preoccupato dal compito di Castellano che ci sarebbe stato di lì a due ore.
Quando lo notai, Beo era seduto in prima fila, proprio davanti alla lavagna - per problemi di vista, scoprii poi.
Non che avessi prestato particolare attenzione a lui nello specifico, ma durante i compiti tendevo a guardarmi intorno, “in cerca di ispirazione”, e quindi avevo notato che era nervoso - più nervoso di quanto sia normale essere nervosi durante un compito in classe, specie perché, essendo appena arrivato, il risultato del suo compito non sarebbe rientrato nel calcolo della media finale.
Anche di questo scoprii solo in seguito il motivo; era solo poco più di un anno che si era trasferito qui e la sua padronanza della lingua non era il massimo, a suo dire.
Non era un tipo che attirava l’attenzione se non, come già detto, per il suo carattere estremamente pacato che, dopo tre o quattro volte che l’avevi visto farsi mettere i piedi in testa senza reagire in modo adeguato, non potevi fare a meno di chiedertene il motivo. O almeno, io non potevo fare a meno di chiedermelo.
Era strano, specialmente per un ragazzo, specialmente perché non sembrava nemmeno particolarmente debole; ed io ne ero stato incuriosito, attratto quasi, come una falena è attratta dal fuoco e, inutile dirlo, come una falena si avvicina al fuoco io mi avvicinai a lui.
Non ricordo cosa gli dissi, forse una scusa banale, forse di aiutarlo con il Castellano - era l’ultimo anno, in fondo, se voleva diplomarsi con un bel voto doveva darsi da fare - o magari gli disse la verità, che ero curioso; fatto sta che accettò e ci vedemmo qualche volta, dopo la scuola. Niente di strano, un giro alla sala giochi, un incontro in biblioteca per studiare assieme, una partita a calcio, tutte uscite in cui ho scoperto molte cose: è ambidestro, anche se usa di più la destra a causa di prese in giro e attacchi quando era bambino; è svogliato per quel che riguarda lo studio, ma ha una grande memoria; può essere stranamente chiacchierone, se è nello spirito giusto (cosa che accade di rado); non lo avrei mai detto, ma ama la velocità e voleva diventare pilota di formula uno (eppure ancora non aveva preso la patente); non gli piace molto il gelato, tranne quello alla frutta.
Nonostante questo, non riuscii a scoprire nulla che spiegasse il suo comportamento e, lentamente, le volte in cui accettava di uscire con me diminuirono sempre più.
Credevo fosse perché si era stufato della mia curiosità, delle mie domande, anche se cercavo di non essere troppo indiscreto e invadente, ma ero anche contrariato dal fatto che non me lo avesse detto in faccia.
Nell’ultimo mese di scuola non ci vedevamo più oltre le ore scolastiche e ci parlavamo lo stretto necessario - questo, devo dirlo, per colpa mia; non sopportavo il suo atteggiamento, sorridermi come se non fosse successo nulla e continuare a ignorare il fatto che, era evidente, mi aveva preso in antipatia, purtroppo per me.
Purtroppo perché, come avevo scoperto lentamente e accettato a gran fatica, come le falene mi ero bruciato, totalmente.
Non odiavo che non mi dicesse in faccia che non gli piacevo, odiavo direttamente il fatto che non gli piacevo e, ancora di più, odiavo non poter condividere con lui ulteriori momenti ‘solo nostri’. Guardavo a quelle poche uscite che avevamo avuto con nostalgia, quasi incapace di pensare ad altro, e riportando così pessimi risultati sul mio profitto scolastico e nella mia ‘carriera’ teatrale, e nessuna delle due era mai stata intaccata profondamente in, rispettivamente, dodici e dieci anni di attività.
Arrivato alle porte del Bachillerato, decisi che necessitavo di staccare la spina e smetterla di pensare a lui, così accettai l’invito dello zio Alejandro, di passare alcuni giorni nella sua fattoria, prima dell’esame vero e proprio.
Lo zio Alejandro non era veramente mio zio, ma da quando i miei genitori si sono separati è stato come se lo fosse, ha aiutato moltissimo sia me che mia madre.
Anche la sua fattoria non era una vera fattoria, non più.
Quando ero piccolo era enorme e pieno di animali, di ogni genere e specie che si possono trovare in una fattoria. Mi divertivo molto a giocarci, quando ero piccolo, cavalcavo i maiali e inseguivo le pecore, davo da mangiare ai conigli e aiutavo nelle stalle; delle galline avevo un po' paura, beccano.
Purtroppo per via di un brutto periodo - ed un falso amico - zio Alejandro ha dovuto vendere quasi tutto; del grande appezzamento di terreno che aveva gli era rimasto solo una minima parte, con qualche albero da frutta, una quercia secolare, tre galline e cinque buoi. Non li avrebbe venduti per nessuna ragione al mondo, ricordo di chissà quale romantico passato - forse me lo raccontò una volta, quando ero ancora troppo piccolo per capire esattamente cosa volesse dire amare una persona, ma non lo ricordo più.
Comunque erano passati sette mesi da quando Beo arrivò nella mia classe e soli due giorni da quando era finita "ufficialmente" la scuola - ma Beo non era venuto gli ultimi giorni - ed io ero arrivato alla fattoria.
– Javier, ragazzo mio!
Alejandro mi venne incontro, abbracciandomi paternamente e lasciandomi quasi senza fiato, nonostante avesse passato i settant'anni.
– Ciao, zio.
– Era ora che arrivassi, speravo venissi subito appena terminata la scuola.
– Scusa, dovevo aspettare un libro in biblioteca. L'esame... – dissi semplicemente, alzando la spalla su cui tenevo la cartella contenente la mia tesina e qualche altro libro.
– Capisco, sì, lo studio è importante. Vieni, andiamo, – disse ancora, guidandomi verso la stalla. – Blanca come sta?
Blanca è mia madre.
– Bene, grazie. Sarebbe voluta venire anche lei, ma era impegnata con il lavoro, – risposi, – ma ha detto che se riesce a liberarsi viene per il fine settimana.
– Oh, sarebbe splendido. Sono mesi che non la vedo. Dammi una mano, – disse indicando una pala, voleva che la prendessi. – Enrique?
Enrique è mio padre, a Alejandro non è mai piaciuto ed è sempre stato contrario al suo matrimonio con la mamma.
– Sta bene... Natalia è incinta, pare sia una bambina.
Natalia è la nuova compagna di papà; stavano insieme da soli otto mesi quando lei scoprì di essere incinta, ma non si sono sposati.
– Un'altra vita rovinata... – fu il suo unico commento. – Vieni, dai, posa lì quella borsa e aiutami a pulire la stalla, dopo andiamo a far colazione.
Non mi spaventa il lavoro alla fattoria, ma sarei un bugiardo se dicessi che mi piaceva particolarmente. L'unico lavoro che ho mai amato è quello in teatro; quando avevo otto anni la maestra ci portò a vedere le prove di uno spettacolo teatrale, ed è stata passione a prima vista.
Ci sono molti aspetti che mi affascinano, ma data la mia predisposizione a mettermi al centro dell'attenzione scegliere che 'volevo fare' l'attore è stato semplice.
I miei genitori decisero piuttosto velocemente di cedere a quel mio 'capriccio', pensando così che se fossi stato impegnato in qualcosa che mi piacesse mi sarei accorto meno della loro separazione, che sarebbe avvenuta di lì a meno di sei settimane, o che l'avrei presa meglio.
Ero perso nei miei pensieri quando vidi un'ombra passare ai limiti del mio campo visivo, come qualcuno che scappava.
– Ehi! – urlai uscendo, ma chiunque fosse era già sparito oltre l'angolo della casa. Stavo per partire all'inseguimento, quando lo zio mi fermò.
– Rilassati e torna dentro.
– Ma zio, c'era...
– È solo il nipote della signora Evanthia, gliel'ho detto io che può venire a prendere qualche frutto, quando sua nonna, o lui, ne ha desiderio.
Osservai il punto in cui il misterioso individuo era sparito e ripresi ad aiutarlo, pensando alla signora Evanthia.
Era una delle tante persone che avevano acquistato un pezzo della fattoria, anche se mamma diceva che lo zio gliel'aveva praticamente regalato, ammaliato dal suo accento straniero.
Avevo visto la signora Evanthia solo una volta, un anno fa; stavo tagliando l'erba dietro casa quando lei uscì per dare da mangiare ad alcuni gatti.
Il suo pezzo era confinante con quello dello zio e, rispetto agli altri, non era molto grande; il lato che confina con il nostro era lungo quindici metri, quello perpendicolare arrivava forse a venti. C'erano solo un paio di ulivi e tre peschi -uno dei quali venne spostato per permettere alla signora di costruire la sua casa e seccò dopo poco, ma di quello non ha colpa lei, non è mai stata qui durante i lavori, vi si era trasferita due anni prima, di luglio.
– Andiamo, Javier – mi richiamò lo zio e lo seguii in casa.
– Qualcosa ti turba, figliolo? – mi domandò durante il tragitto.
– Non è niente, stavo solo ricordando.
Zio Alejandro si fermò di colpo e alzò lo sguardo, oltre i confini attuali della sua proprietà. Sospirò. – Eh, i ricordi sono belli, la maggior parte delle volte, – disse con aria sognante. – I ricordi sono sempre migliori della realtà, Javier. Quello che ti sembra di ricordare come un diamante potrebbe essere stato un semplice pezzo di vetro, eppure i ricordi ci servono a sapere quello che le cose sono valse per noi, non quello che valgono al mercato.
Zio Alejandro, se solo ne avesse avuto la possibilità, sarebbe diventato un poeta; aveva sempre pensieri profondi.
Rientrammo in casa senza aggiungere altro e mi preparò la colazione: latte e caffè. – Caffè normale, non d'orzo, perché sei grande, ora, - mi ripeteva ogni volta, da quasi tre anni a quella parte, ma quel giorno non riuscii a sorridere del tono giocoso con cui lo diceva; stavo ancora pensando a quanto aveva detto prima e non avevo potuto fare a meno di tornare di nuovo con la mente a Melibeo. Mi ero chiesto se quelle che ricordavo come delle belle giornate passate assieme non fossero solo miei stravolgimenti e in realtà erano state noiose, per questo lui aveva cominciato a ignorarmi.

– Hai tanto da studiare, vero? – mi domandò mentre lo aiutavo a lavare le tazze.
– Un po'... È l'ultimo esame, in fondo.
Annuì, riflettendo su qualcosa che non potevo indovinare, e poi si asciugò le mani. - Va bene, allora tu pensa a studiare, non preoccuparti.
– Non importa che stia tutto il tempo sui libri, – risi. – Li ho portati dietro giusto per scrupolo, ci sono ancora dieci giorni – Dieci giorni non sono nulla, – sbottò, lasciandomi solo.
Lo sapevo, ma sapevo anche che non sarei riuscito a studiare ora che mi era tornato in mente Beo. Eppure, per rispetto verso lo zio, tirai fuori i libri e ci provai, ma è veramente arduo quando una parola ogni cinque, non si sa come, ti ricorda qualcuno a cui non dovresti pensare.
Quando lo zio rientrò, mi trovò che stavo fissando fuori dalla finestra. Non mi accorsi del suo arrivo finché non mi mise davanti al volto un mazzo di rose e una di queste mi solleticò il naso...
– Proprio non hai voglia di studiare, eh? – chiese quando mi voltai verso di lui.
– Perché quelle rose? – chiesi io, senza rispondere alla sua domanda.
– Ho pensato che, dato che siamo soli e anche la signora Evanthia e suo nipote lo sono, e il ragazzo ha la tua età, potevamo invitarli a pranzo da noi, ma non ci si presenta da qualcuno senza un dono per la padrona di casa.
– Ti crea qualche problema? – chiese ancora, non avendo ricevuto nessuna reazione apprezzabile, da parte mia.
– No, no, affatto, – risposi velocemente, pensando che forse la mamma aveva ragione e lo zio era davvero innamorato della signora Evanthia, anche se mi chiedevo perché in tanti anni non si fosse fatto avanti, dato che aveva appena detto che era sola anche lei.
– Bene, muoviti, andiamo quindi! – esclamò mettendomi i fiori in mano.
Quando era così deciso era impossibile rallentarlo, così scattai in piedi e lo affiancai.
Ci vollero pochi minuti per giungere davanti alla porta di casa della signora Evanthia. La casa, un unico piano in cui non potevano esserci più di tre o quattro stanze, era costruita nell'angolo più vicino al terreno dello zio.

Quando arrivammo, lo zio bussò e, con mia sorpresa, non fu la padrona di casa a risponderci.
– Alejandro, entra, arrivo subito! – furono le poche parole della voce maschile che ci invitò dentro; voce che per un attimo mi era sembrata quella di Beo, ma mi dissi che non era possibile.
– Allora, hai sentito il ragazzo? Entra, – mi intimò lo zio e io ammetto di essere stato titubante mentre abbassavo la maniglia e spingevo la porta.
Non so cosa mi aspettassi; qualsiasi cosa fosse, comunque, non aveva importanza. Mi trovavo in una semplice cucina, una senza pretese, ma tenuta in ordine, e davanti a me quella che faticai a riconoscere come la signora Evanthia.
Ricordavo una donna energica e solare, invece mi ritrovavo di fronte una vecchia malata che si portava male i suoi, scoprii dopo, sessantotto anni.
Era seduta a capotavola, i capelli che avevo visto fluenti al vento erano stati tagliati per lasciare il posto ad una acconciatura maschile che scivolava solo in qualche ciocca ribelle sugli occhi grigi. Lo sguardo sembrava perso su chissà quali mondi e quando si volse verso di noi sorrise, si alzò e fece per raggiungerci, ma camminava molto lentamente, aiutata da un bastone da passeggio, così fu lo zio ad andare da lei.
– Buon giorno, Evanthia, – salutò.
– Oh, Alejandro, che piacere che sei venuto a trovarmi, – disse lei, la voce roca della malattia.
– Ho portato anche il mio nipote. Non è proprio parente di sangue, ma gli voglio bene come se lo fosse. Si chiama Javier, – terminò, indicandomi, al che io mi avvicinai. – Buon giorno, signora Evanthia.
La donna mi guardò, quasi studiandomi, e dopo un po' mi mise le mani sulle spalle. – Buon Dio, che sono tutti questi formalismi, Melibeo? – esclamò e io sentii che stava per prendermi un colpo. – Siamo già fidanzati, tesoro, non ce n'è bisogno... Ma perché i tuoi capelli sono chiari? – domandò sconvolta, passando le dita secche tra i miei capelli diventati biondi pochi mesi prima.
Io non sapevo cosa fare, spostavo lo sguardo sconvolto tra lei e Alejandro, che ricambiò con uno rattristato.
– Oh, nonna, per favore! – sentii sbuffare, e questa volta fui sicuro di chi mi sarei trovato davanti una volta girata la testa.
A togliermi dall'imbarazzo era stato il Melibeo che conoscevo io, ma non ne avevo dubbi. Aveva parlato in spagnolo e aveva un modo tremendamente buffo di dire 'per favore'. Nonostante questo, non potei evitare di essere sorpreso - e anche lui lo fu di vedere me.
– Ciao, – riuscii solo a dire.
– Ciao, – rispose.
– Vi conoscete? – domandò stupito mio zio.
– Andiamo in classe insieme, - dissi solamente.
– Fantastico! – commentò lo zio.
Beo ci ignorò e si diresse da sua nonna, prendendola dolcemente per le spalle. – Dai, torna a sedere.
– Lasciami parlare con tuo padre, Theo! – lo bloccò la donna e tornò a guardarmi, notando le rose. – Oh, che caro!, ti sei ricordato dei miei fiori preferiti. Theo, presto, prendi un vaso con dell’acqua, – ordinò mentre mi toglieva i fiori di mano e li annusava.
– Scusate, – disse Beo, impacciato, affannandosi a cercare un vaso e, non trovandolo, tagliando a metà una bottiglia di plastica, vuota. – Stamani sta peggio del solito.
– Non preoccuparti, ragazzo, – lo rassicurò lo zio, probabilmente anche lui abituato a quel comportamento.
Io rimasi per tutto il tempo in silenzio, osservando quel mondo in cui ero entrato e che non riconoscevo, mentre la signora Evanthia continuava a parlarmi come se fossi suo marito, senza preoccuparsi che io non le rispondevo, eppure non riuscivo a staccare gli occhi da lei, quasi ipnotizzato dalle sue parole, anche se non le capivo più - aveva cominciato a parlare in greco.
Mi richiamò alla realtà mio zio.
– Javier!
– Eh?
– Ho detto: Melibeo ha bisogno di svagarsi un po’, andate a fare un giro. Ci penso io al pranzo, e a Evanthia.
– Grazie, Alejandro, – disse Beo, sorridendo.
Io non ero riuscito a fare altro che annuire e seguirlo fuori.

Avevo le mani in tasca, agitato, e nemmeno lui sembrava a proprio agio, camminava lentamente, tirando calci a pietre varie sul suo cammino.
– Abiti qui? – chiesi, tanto per non stare in silenzio.
– Ora sì… Prima avevo una stanza a Pamplona… Poi da quando la nonna si è aggravata non ho più potuto permettermi né la stanza né la scuola…
– Non sei obbligato a parlarne… Con me, intendo, se non lo vuoi… – dissi io, percependo le frasi come dette a fatica, quasi per forza.
– Perché non dovrei volerlo? – domandò lui, e sembrava davvero stupito.
Mi strinsi nelle spalle. – Non ti piaccio, come persona.
– Non è vero. Sei tu che hai cominciato a evitarmi, in classe!
– Perché tu avevi rifiutato i miei inviti! – sbottai, ovvio, e lui scoppiò a ridere.
L’avevo visto sorridere molte volte, l’avevo anche visto ridere a qualche battuta, ma non l’avevo mai visto ridere così di gusto.
Sorrisi, addolcito, prima di ricordare che era di me che stava ridendo.
– Ehi! – esclamai, ma non sembrava intenzionato a smetterla. – Perché stai ridendo? – domandai, alzando la voce per sovrastare la sua.
– Perché, – tentò, ma si interruppe per mancanza di fiato e si piegò a metà, una mano sul fianco e l’altra sulla mia spalla, per restare in equilibrio, togliendo il respiro anche a me, – la tua faccia…
Lo guardai senza capire.
– E’ buffa… Sei buffo, – rispose infine. Aveva smesso di ridere, e tolto la mano da me, ma c’era ancora un tono leggero nella sua voce.
Probabilmente avrei dovuto offendermi, invece ero curioso. – Perché?
Non rispose. – Mi dispiace che tu abbia pensato che i miei rifiuti erano perché non mi piaci, – disse invece. – Non me la sentivo di lasciare la nonna troppo da sola. Alejandro non può occuparsene sempre, anche se lo fa con piacere.
– Mamma dice che è innamorato di lei, – commentai io, riprendendo a camminare.
– Oh, sì, – rispose e mi voltai a guardarlo, stupito da tanta sicurezza. – La ama moltissimo, e anche la nonna lo ama.
– Ma prima, quando credeva che fossi tuo nonno…
Abbassò lo sguardo. – Purtroppo la malattia ha danneggiato il suo cervello; ha problemi a ricordare le cose e fa molta confusione, specie sui nuovi avvenimenti. Ma ha amato seriamente Alejandro e in alcune giornate buone se lo ricorda perfettamente.
– Te lo ha detto lei? Prima della malattia, intendo.
– Ci siamo trasferiti qui- no, ha comprato il terreno e ha fatto costruire quella casa solo per questo, – rispose. – Alejandro è un uomo estremamente forte, io non so se riuscirei a sopportare che la persona che amo, e che mi ha amato, a stento si ricordi di me.
– No, non è facile, – convenni. – Però… Perché non me lo hai detto? Di tutta la situazione…
– Non credevo ti interessasse. E non volevo la pietà di nessuno.
– Eravamo amici… – almeno quello, lo speravo.
– Già parli al passato, – rise, ma niente a che vedere con la risata di prima.
– E’ che non so cosa sia successo nel frattempo, – ammisi fin troppo facilmente.
Si strinse nelle spalle. – Orgoglio?
– Forse. Senti, – esordii poi.
– Sì?
– Dato che siamo in momento di confessioni, c’è una cosa che mi sono sempre domandato.
– Spara.
– Hm… – all’improvviso non ero più sicuro che fosse una buona idea.
– E dai, non fare il timido ora, non è nel tuo carattere, – mi intimò nuovamente ed io mi chiesi quando, esattamente, avesse capito cosa era o non era nel mio carattere - non avevamo passato poi così tanto tempo assieme.
Sospirai. – Penserai che io sia solo un impiccione, ma… Mi hai sempre stupito. Il tuo atteggiamento sempre pacato e remissivo. E’ insolito, specie per un ragazzo.
– Non sono remissivo, – replicò con un sospiro e si passò una mano tra i capelli.
– No?
– No. E’ solo che, hai visto, – indicò indietro, verso la casa da cui ci eravamo allontanati. – Dopo non hai più voglia, o forza, per stare ad arrabbiarti per ogni minima cosa.
Lo osservai in silenzio, non sicuro di aver capito totalmente quello che voleva dire. Guardai la sua casa. – Come fai?
Alzò le spalle e seguì il mio sguardo. – Sono l’unica persona che ha - ed è l’unica persona che ho.
Nuovamente, non replicai. Non potevo dire niente; i miei genitori erano separati, ma vivevo con mia madre e vedevo mio padre quando volevo. Avevo ancora due nonni e lo zio Alejandro; e poi c’era Natalia, nonostante tutto era una brava donna.
– Però con Alejandro è già più semplice, mi ha aiutato molto, – aggiunse, quasi a volermi togliere dall’imbarazzo di trovare qualcosa da dire.
– E’ una persona estremamente generosa, – convenni.
– Lo conosci da tanto?
– Era amico di mio nonno materno e ha aiutato molto me e mia madre dopo la separazione.
– Vorrei fare qualcosa per ringraziarlo, ma non so cosa. Vivo qui da quasi un anno, e venivo spesso anche prima, ma ho la sensazione di non conoscerlo per niente.
– Non accetterà regali, – lo informai. Non ne aveva mai voluti nemmeno da me; gli unici che ha preso, e conserva ancora, sono i piccoli oggetti infantili che facevo alle elementari, – ma dagli una mano con i suoi buoi e sarà più che contento. Era un torero, ai suoi tempi, e niente ha contato più per lui dei suoi animali.
Camminando, ci eravamo ritrovati sotto la grande quercia; un moto di tristezza mi pervase a pensare che tutto quello che c’è dopo non fa più parte della solita tenuta.
– I suoi animali e il suo terreno, ma oramai gli è rimasto poco di entrambi.
– Scusa, – disse, e sembrava così sincero che non potei evitare di reagire tirandogli uno scappellotto dietro la nuca. – Ehi!
– Stupido, – risposi soltanto, tornando indietro.
– Ho chiesto scusa, perché sarei uno stupido? – urlò, venendomi dietro.
Non risposi e lui continuò a insistere. In quel momento mi accorsi a pieno di quanto sembrasse, per alcune cose, molto più piccolo dei suoi diciotto anni.
– Eccovi qui! – ci accolse lo zio. – Forza, andate a lavarvi le mani, è quasi pronto.
Durante il pranzo ebbi un’ulteriore riprova di quanto dovesse essere difficile la sua vita. La signora Evanthia stava poco meglio rispetto a prima, si era accorta che io non ero suo marito, ma probabilmente credeva di essere ancora una ragazza.
– Oh, sai, io sono fidanzata, ma tu sei molto carino, – Melibeo rise, e lei si avvicinò a me con fare cospiratorio. – Ma non dirlo al mio Alejandro, non ne sarebbe molto contento, – continuò, ed io vidi lo zio far finta di stare sciacquando i piatti, imbarazzato.
– Io vado a letto, – disse ad un certo punto Evanthia, alzandosi, il tono duro. – Voi fate quel che vi pare. Se volete restare state, se no andate pure.
Si avviò verso la sua camera e Beo la seguì, attento.
Quando tornò io e lo zio avevamo finito di lavare e asciugare quanto avevamo sporcato.
– Grazie, – disse.
– Non preoccuparti, ragazzo mio, – lo tranquillizzò Alejandro.
   
 
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